I fantasmi di Buenos Aires

«Chissà come mi chiamavo in Argentina/ e che vita facevo in Argentina?»: la dolorosa domanda del protagonista di una canzone di Francesco Guccini, ma anche l’interrogativo senza risposta dei parenti di gente inghiottita dal buco nero della storia, quando ancora la possibilità di mantenere i contatti con i propri congiunti nelle lontane Americhe o in Australia era una chimera. Prima di internet, prima dei telefoni, prima delle lettere che pochi erano in grado di leggere e scrivere. Chi partiva, davvero moriva. Settanta, ottant’anni fa. Ieri.
Lo sappiamo bene, noi figli e nipoti di diaspore sentimentali e umane laceranti, la valigia di cartone conficcata come un pugnale in un angolo del cuore.
Hai voglia a cercare. Carmine Candido, mio bisnonno, e suo figlio Francesco, fratello di mia nonna: spariti in qualche barrio di Buenos Aires, nel cui porto fu costruito l’Hotel dell’Emigrante, dichiarato monumento nazionale nel 1990 e oggi sede del Museo dell’Immigrazione e del Centro d’Arte Contemporaneo: per circa un milione di immigrati sbarcati tra il 1911 e il 1953, punto di approdo e sete di speranza. Dopo i controlli burocratici e sanitari a bordo dei piroscafi di terza classe, per verificare che non vi fossero passeggeri con malattie contagiose o privi di regolari documenti, i nuovi arrivati venivano infatti qui accolti e registrati, ma anche sfamati. La struttura era dotata di cucine, refettori, bagni, docce e grandi camerate da 250 letti a castello, capaci di ospitare fino a 4.000 persone. La durata del soggiorno in genere non superava i cinque giorni, entro i quali il nuovo arrivato veniva “ritirato” da chi lo aveva “chiamato” oppure, dopo una sommaria formazione e l’accettazione di una delle offerte lavorative proposte dall’Officina del Lavoro, veniva indirizzato alla destinazione finale. Ne passarono di italiani dall’Hotel, come certifica il dato di oltre il 50% di argentini discendente da avi italiani, che fa degli argentini di origine italiana il primo gruppo etnico del Paese.
Il contadino analfabeta Carmine Candido, con il suo metro e cinquantacinque centimetri di altezza, era stato un eroe della Prima guerra mondiale, attestato da un encomio solenne in calce al foglio matricolare: «Nell’assalto ai trinceramenti nemici, dava prova di slancio e coraggio finché rimaneva ferito. Bosco Triangolare, Carso 19 luglio 1915». Eroe ma poco di buono, se a un certo punto della sua vita abbandonò la moglie e quattro figli, senza dare più notizie di sé. Dando così ragione, a distanza di tempo, alla suocera Tecla che aveva fatto di tutto per ostacolare il matrimonio con Rosa e che, una sera, dalla finestra gli aveva scaraventato in testa “u zi Peppi” pieno di urina.
Non era infrequente che uomini abbandonassero la famiglia e se ne facessero un’altra undicimila chilometri a Sud. Così dovette andare anche per Carmine, il cui nome mai fu pronunciato né dalla moglie, né dalle tre figlie fino all’ultimo giorno della loro vita. Il figlio, invece, in Argentina ci andò. A differenza del padre, l’archivio digitale del museo dell’emigrazione conserva le tracce del suo arrivo a bordo del piroscafo “Genova”, con l’annotazione di due date: 9 febbraio e 3 luglio 1949. Due sbarchi a distanza di pochi mesi potrebbero spiegarsi con il progetto dei Candido di raggiungere, tutti, il capofamiglia a Buenos Aires, fallito quando la commissione che doveva valutare lo stato di salute degli emigranti decretò l’inabilità di Rosa, ormai quasi cieca. Fu allora che Francesco, carbonaio come il cognato Mico, con il quale alla fine della seconda guerra mondiale si era trasferito a Morlupo per lavorare da operaio nella bonifica dell’Agro romano, affrontò la prima traversata oceanica. Probabilmente per avvisare il padre che il resto della famiglia non lo avrebbe raggiunto, per rientrare a casa e riferire la decisione del genitore di restare in Argentina, per – infine – ripartire subito, trovando un buon motivo per scappare nell’amore non corrisposto da Peppina, la quale per anni ne aveva respinto il corteggiamento. Contro la donna si sarebbe però accanito il destino, quando le fece incontrare Rosa nel forno dove le famiglie, mensilmente, portavano il grano per fare il pane. Rosa teneva in tasca una lettera e una foto del figlio: «È proprio bello. Si è sposato? Ora me lo prenderei», le parole della ragazza, riportate in una lettera che di lì a poco avrebbe solcato le onde dell’oceano e che, nel giro di pochi mesi, portò alla celebrazione del matrimonio per procura.
Una storia con tutti gli ingredienti del lieto fine si trasformò invece in un incubo per Peppina. Arrivata in Argentina, la giovane rimase talmente sconvolta dal degrado della stamberga nella quale vivevano padre e figlio, che cominciò a mostrare segni di squilibrio e fu immediatamente rispedita in Calabria.
Dopo la morte del padre, all’inizio degli anni Cinquanta, Francesco si limitò a sporadiche lettere, che continuò ad inviare fino a quando la madre non morì, nel 1971. In seguito, di lui non si seppe più nulla e vani sono stati tutti i tentativi di capire che fine abbia potuto fare, quando e dove sia morto.
«La distanza è atlantica/ la memoria cattiva e vicina/ e nessun tango mai più ci piacerà… Ecco, ci siamo/ Ci sentite da lì? Ma ci sentite da lì?», fa dire Ivano Fossati agli emigrati attanagliati dalla malinconia in “Italiani d’Argentina”. Forse se lo sono chiesti anche Carmine e Francesco, nelle notti di confessione con la propria anima.

  • Le fotografie da Buenos Aires sono di Mario Forgione
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Con Sant’Eufemia tra gli anziani della residenza sanitaria assistenziale

Sin dalla sua fondazione, tra la RSA “Mons. Prof. Antonino Messina” e l’Associazione di volontariato cristiano “Agape” perdura un rapporto speciale, che nel tempo si è consolidato grazie alla realizzazione di iniziative di solidarietà presso la struttura di via Silvio Pellico. Anche ora che non è consentito effettuare le visite come nel periodo pre-covid, sono infatti diverse le occasioni di incontro: il “Natale di solidarietà”, la Via Crucis pasquale, la Giornata Mondiale del Malato, momenti di preghiera nel corso dell’anno con la recita del Rosario.
I volontari si sentono a casa, da parte della direttrice Rossana Panarello e del personale che lavora nella struttura ci sono sempre grande disponibilità, spirito di collaborazione e un’apertura verso l’esterno che non è scontata, ma che è molto gratificante.
Anche questa volta è stato così per l’idea, sposata con entusiasmo dal parroco don Marco Larosa, di fare vivere la novena di Sant’Eufemia anche agli ospiti della struttura, alla quale la presidente dell’Agape Iole Luppino ha consegnato una statuetta della Santa Protettrice. La visita e la recita della coroncina in onore di Sant’Eufemia è stata impreziosita dalla presenza del coro polifonico parrocchiale “Cosma Passalacqua”, con il quale da diversi anni l’Agape – specialmente all’interno della RSA – opera sinergicamente. Vivere al meglio l’associazionismo significa collaborare con le realtà operanti sul territorio, portatrici di identità proprie che, messe insieme, moltiplicano gli effetti positivi delle singole specificità.
Dopo la recita della coroncina, guidata da don Marco, il salone della struttura è stato inondato dalla soave musica del Maestro Angela Luppino e dalle voci del coro parrocchiale, che ha eseguito i canti tradizionali dedicati a Sant’Eufemia: “Tutta bella, tutta pura” e “Leviam giulivi un cantico”. Un’esibizione toccante, alla quale molti anziani hanno dato un attivo e molto emozionato contributo.
Per i volontari dell’Agape i momenti vissuti nella RSA “Messina”, emotivamente forti, sono unici. “Come se qualcuno li disegnasse con cura”, ha commentato un volontario, “ma in questa occasione con una cura addirittura maggiore rispetto al solito”: «Un luogo di sofferenza si trasforma di colpo in un angolo di paradiso nel quale il canto e la preghiera diventano, per chi crede in Dio, speranza di eternità».
La struttura sanitaria è parte integrante della comunità eufemiese. Non è un luogo di morte, bensì un luogo di dedizione, di amore, di vita al di là delle difficoltà e del destino intuibile per coloro che si accingono a percorrere l’ultimo tratto di strada. I quali, proprio per questo motivo, meritano la massima considerazione. Osservando gli anziani e l’attività del personale della struttura si riesce a comprendere quanto sia orrenda l’imperante cultura dello scarto, più volte denunciata da Papa Francesco, e quanto sia inestimabile il valore di ogni singola esistenza umana.

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La musica di Vincenzo Orlando nella tradizione religiosa eufemiese

Il 31 ottobre del 2024 saranno dieci anni che Vincenzo Orlando, per tutti il “Professore Orlando”, non è più tra noi. Eppure la sua presenza nella comunità eufemiese è ancora forte, soprattutto nei giorni della novena in onore di Sant’Eufemia, per la quale ha composto l’inno “Leviam giulivi un cantico”. L’espressione pacata e i modi gentili sono stati il tratto caratteristico di un uomo mite, di un nonno affettuoso con i nipoti e interessato al loro rendimento scolastico, di un artista capace di imprimere sul pentagramma la devozione religiosa dei suoi concittadini.
Il Maestro Orlando, nato a Sant’Eufemia d’Aspromonte il 17 agosto 1926, proveniva da una famiglia umile. Il padre, Vincenzo Antonio, esercitava la professione ciabattino, mentre la madre Eufemia Panuccio era casalinga. Nella modesta abitazione di via Lupini, dove visse con i genitori e – dopo il matrimonio – con la moglie Grazia Maria Fedele, ebbe il primo incontro con la musica grazie al genitore, suonatore di corno nel complesso bandistico del paese. Alunno del maestro elementare Pentimalli nelle classi allestite all’interno delle baracche costruite dai milanesi dopo il terremoto del 1908, già a undici anni alternava i giochi con i bambini della “ruga” alle esibizioni con la banda, che ne forgiarono la passione e ne segnarono il destino.
Diplomatosi in clarinetto presso il conservatorio “San Pietro a Maiella” di Napoli (24 settembre 1964), fu clarinetto solista nella banda comunale di Acireale e I° clarinetto nel Teatro Massimo di Palermo. In Sicilia svolse un’intensa attività concertistica nell’opera lirica; successivamente si distinse come clarinettista in diverse bande della provincia reggina, in particolare a Seminara, che dopo il pensionamento costituì una delle mete preferite dei quotidiani viaggi in compagnia della moglie (per visitare la chiesa della Madonna dei Poveri), a bordo della sua inconfondibile Fiat Uno bianca. Amante dei sonetti di Ugo Foscolo, insegnò musica nelle scuole secondarie inferiori di Giffone, Galatro, Cinquefrondi, Sant’Eufemia d’Aspromonte e Palmi, dove – presso la scuola media “Milone” – concluse la carriera di docente.
La centralità della figura di Vincenzo Orlando nel panorama culturale eufemiese si rileva nel suo impegno di organista e maestro del coro polifonico parrocchiale della chiesa di Sant’Eufemia Vergine e Martire, per il quale compose le sue musiche più celebri: la “Ninna nanna” per Gesù Bambino, eseguita durante le festività natalizie; “La Desolata”, canto a due voci uguali per coro, in tre parti (“Tomba”, “Ah perché mai”, “Chiusa in cheta e oscura stanza”) e “Stava Maria Dolente”, che chiude la raccolta dedicata ai riti della Settimana Santa; le litanie del Santo Rosario. Infine, il ciclo delle opere in onore di Sant’Eufemia, tra le quali vanno ricordati i canti “Tutta bella, tutta pura” e “Da questi monti”, oltre alla toccante “Leviam giulivi un cantico”. Eseguito nel corso della messa solenne, l’inno per la Santa Patrona alimenta il ricordo del suo autore, che è indissolubilmente legato ai festeggiamenti del 16 settembre.

*La banda di Seminara nel biennio 1956-57. Dal basso, Vincenzo Orlando è il terzo da destra della seconda fila.

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Lettera aperta al sindaco di Sant’Eufemia, prof. Pietro Violi

Apprendo con soddisfazione il ripristino della viabilità in corso Umberto I, chiuso a seguito dell’incendio divampato nei giorni scorsi. Da tempo seguo con il dovuto distacco le vicende politiche paesane, non perché l’argomento non mi interessi, bensì perché non mi ritrovo nei toni spesso eccessivi del dibattito, specialmente se affidato a quello sfogatoio che ormai sono diventati i social.
A volte condivido l’operato di questa amministrazione, a volte no, come legittimamente fa ogni cittadino. Analoghe reazioni valgono per le azioni dell’opposizione. Entrambe mi rappresentano, così come rappresentano tutta la comunità eufemiese. Nell’ottica di una sana dialettica politica, preferisco gli atteggiamenti propositivi a polemiche spesso sterili e strumentali. È questo lo spirito di una proposta che mi sento di avanzare, nella convinzione di intrepretare il sentire comune.
Ha suscitato molto dispiacere la notizia della distruzione dell’abitazione che fu del dottore Giuseppe Chirico, il nostro caro “Don Pepè”: uno dei personaggi più amati nella storia eufemiese, apprezzato da tutti per le sue qualità umane e professionali.
Da consigliere comunale e da componente della Commissione toponomastica istituita su mia iniziativa, il 27 giugno del 2018 avevo protocollato la richiesta di dedicare al dottore Chirico la Pineta comunale, che non ebbe allora seguito.
Credo che oggi i tempi siano maturi e che la proposta essere presa in considerazione, almeno nella sua impostazione generale. Si potrebbe riproporre nuovamente la Pineta comunale, ma mi permetto di segnalare anche altre due opzioni: la piazzetta accanto al monumento dei caduti, che è priva di denominazione, oppure – ipotesi molto suggestiva – uno dei due lati in cui corso Umberto I divide piazza don Minzoni, laddove si svolgevano le passeggiate serali del dottore Chirico, rievocate dal professore Giuseppe Calarco nel documentario su “Don Pepè” realizzato dalla Pro Loco nel 2001: «Eravamo soliti fare la passeggiata serale. Ricordo che capitava che venisse chiamato per soccorrere qualcuno: senza scomporsi, salutava e col sorriso di sempre si allontanava per fare, come diceva lui, il suo dovere. Questo era il dottore Chirico». Ciò consentirebbe di perpetuare il ricordo del dottore Chirico in un luogo a lui caro senza cancellare la memoria del sacerdote di Ardenza, del quale proprio ieri ricorreva il centenario della barbara uccisione per mano fascista.
L’amministrazione comunale potrebbe anche determinarsi diversamente, affermando una propria prerogativa. Ma sarebbe in ogni caso encomiabile suggellare l’affetto senza tempo degli eufemiesi con l’intitolazione al dottore Giuseppe Chirico di uno spazio pubblico.

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Passeggiata storica/9

Il viaggio nella storia eufemiese, dopo avere attraversato i tre grandi rioni cittadini (“Paese Vecchio”, “Petto” e “Pezzagrande”), si conclude nei pressi della Pineta comunale con il ricordo di un eroe della Grande Guerra.

PANNELLO 9: LUIGI CUTRÌ

Luigi Cutrì, di Bruno e Maria Giuseppa Versace, nacque il 9 agosto 1869. Ad appena 17 anni si arruolò volontario nell’esercito e da sottotenente, nel 1889, prese parte alla campagna di Etiopia, guadagnando una medaglia di bronzo e l’encomio solenne del capitano Umberto Ademollo. Nel 1911 partecipò con il grado di capitano alla guerra italo-turca (o di Libia). Si distinse negli scontri che, a Derna, videro impegnati i soldati italiani agli ordini del generale Vittorio Trombi contro le truppe capeggiate da Enver Bey: impresa che valse a Cutrì il conferimento della croce dell’Ordine militare dei Savoia.
Allo scoppio della Prima guerra mondiale partì volontario e fu destinato sul Carso. Con la brigata “Casale” fu impegnato sin da subito nei combattimenti per espugnare il Monte Podgora. Ferito ad una spalla il 4 luglio 1915 (Prima battaglia dell’Isonzo), fu nominato maggiore del 12° reggimento fucilieri per merito di guerra e assunse il comando del battaglione. Tornato in prima linea al termine della convalescenza, prese parte alla Quarta battaglia dell’Isonzo. Morì in combattimento, il 30 novembre 1915, “in seguito a ferita d’arma da fuoco al capo” e fu sepolto nel cimitero di Pubrida, frazione di Gorizia. Decorato con la medaglia d’argento al valor militare.

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Passeggiata storica/8

La penultima tappa del viaggio ricorda il più longevo e influente amministratore nella storia di Sant’Eufemia d’Aspromonte, ma riscopre anche una pagina di solidarietà dimenticata.

PANNELLO 8: MICHELE FIMMANÒ

Figlio dell’avvocato Ermenegildo e di Isabella Misiano, Michele Fimmanò nacque il 6 marzo 1830. A 21 anni conseguì a Napoli il diploma in lettere e filosofia e la laurea in giurisprudenza, quindi rientrò a Sant’Eufemia, dove esercitò la professione forense e mosse i primi passi della sua lunghissima carriera politica nel Decurionato, l’antenato del consiglio comunale in epoca borbonica. “Secondo eletto funzionante da sindaco” nel 1854, nel triennio successivo ricoprì la carica di primo cittadino. Consigliere comunale a partire dal 1864, fu eletto consigliere provinciale dal 1868 e riconfermato in entrambe le cariche fino alla morte, avvenuta l’11 febbraio 1913. Più volte sindaco, presidente del consiglio provinciale, commissario per il dopo terremoto del 16 novembre 1894 e componente del comitato di soccorso in occasione dell’incendio che il 18 settembre 1902 distrusse il rione “Borgo”, dopo il terremoto del 1908 fu il regista della composizione della lista unitaria che, sindaco il notaio Pietro Pentimalli, promosse la ricostruzione del paese nell’area denominata “Pezza Grande”. Commendatore nell’Ordine della Corona d’Italia, ricevette innumerevoli onorificenze e fu apprezzato oratore. La pubblicazione di alcuni suoi interventi pubblici conferma il prestigio di Fimmanò nel panorama politico e culturale del tempo.

CROCE VERDE
Prima di essere intitolata a Fimmanò la strada recava la denominazione “via Croce Verde”, in onore dell’associazione volontaria di soccorso fondata a Milano nel 1899 che, in occasione del terremoto del 1908, si distinse nel sostegno alla popolazione eufemiese con la raccolta di medicinali, tende, indumenti e coperte, oltre che con l’invio di volontari e dell’Automobile Ospedale “Pompeo Confalonieri”.

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Passeggiata storica/7

Nel cuore della “Pezzagrande” (o “Pezza Grande”), la costruzione della chiesa dedicata a Sant’Ambrogio rievoca la solidarietà dei milanesi nei confronti della popolazione eufemiese dopo il terremoto del 28 dicembre 1908.

PANNELLO 7: CHIESA DI SANT’AMBROGIO

Alle prime ore del 28 dicembre 1908 Sant’Eufemia fu squassata da un terremoto di magnitudo 7,5: la scossa tellurica durò 46 lunghissimi secondi e, abbattendosi su abitazioni già colpite nel 1894, nel 1905 e nel 1907 provocò una tragedia di enormi proporzioni. Il numero delle vittime non fu mai accertato con esattezza: l’elenco stilato dall’arciprete Luigi Bagnato riporta i nominativi di 530 vittime, mentre per la giunta comunale furono circa 700. I feriti furono più di duemila, il patrimonio edilizio perduto pari all’85%.
Nei giorni successivi giunsero in paese alcuni reparti dell’esercito, la Croce Rossa Italiana, la Croce Verde e i volontari dei comitati di Livorno e di Milano. Le autorità militari stabilirono di fare sorgere un nuovo baraccamento nell’area denominata “Pezza Grande”, dove furono realizzate le strade e 1.300 baracche. A marzo del 1909 fu inaugurato l’ospedale “Milano”, così denominato in segno di gratitudine nei confronti dei soccorritori lombardi. Il comitato lombardo di soccorso costruì inoltre l’acquedotto, tre fontane pubbliche, un lavatoio coperto e una piccola chiesa (6 metri per 16), al cui interno fu collocata la statua di Sant’Ambrogio, patrono di Milano, donata l’8 maggio 1909 alla comunità eufemiese dall’allora cardinale meneghino Andrea Carlo Ferrari.
Alla fine dei lavori di ricostruzione, i milanesi consegnarono alla comunità eufemiese la bandiera del proprio comune (croce rossa su sfondo bianco), la quale, con deliberazione del 9 marzo 1909, fu adottata quale bandiera del comune di Sant’Eufemia d’Aspromonte.
La chiesa di Sant’Ambrogio, nel suo aspetto attuale, è stata ricostruita intorno al 1970.

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Passeggiata storica/6

La sesta tappa ricorda un protagonista non autoctono di eventi che hanno fortemente inciso sulla storia sociale di Sant’Eufemia. Nel corso dello svolgimento della “passeggiata”, grazie alla testimonianza del nipote Gino, sono venuto a conoscenza della tragedia che si consumò durante la costruzione della linea ferroviaria eufemiese, quando il manovale trentaseienne Carlo Ciro Currao, originario di Sapri, morì scalciato da uno dei cavalli da tiro della ditta Chiuminatto. Il soprannome “i Giri”, ereditato dai discendenti, deriva dall’alterazione del nome proprio dello sfortunato operaio.

PANNELLO 6: GIACOMO CHIUMINATTO

Sul foglio di mappa del 1959 l’attuale via XXV luglio riporta ancora la denominazione “via Giacomo Chiuminatto”, nome del titolare della ditta che costruì il ponte di ferro (riconosciuto oggi “opera di archeologia industriale”) e la galleria nel tratto della linea taurense Sinopoli/San Procopio – Gioia Tauro, ricadente nel territorio di Sant’Eufemia. Nota anche come “Aspromontana”, sulla ferrovia “a scartamento ridotto” il trasporto delle merci e dei passeggeri avveniva su “carrozze automotrici” per le quali, all’inizio degli anni Trenta fu coniato il termine “Littorina”, in omaggio alla simbologia del Ventennio fascista.
Giacomo Chiuminatto nacque il 15 aprile 1884 a Bolzaneto (Genova), anche se la famiglia era di Cintano (Torino), dove è possibile ammirare Villa Aurora, sua residenza storica. Il cantiere della ferrovia, i cui lavori furono realizzati tra il 1923 e il 1927, gli fu affidato grazie all’amicizia con il gerarca e deputato Maurizio Maraviglia, nominato cittadino onorario di Sant’Eufemia in occasione dell’inaugurazione del Palazzo comunale e dell’acquedotto (marzo 1926).
Nella tradizione popolare il nome di Chiuminatto è legato ad una massima tramandata fino ai giorni nostri: “Pari u cavaddu i Chiuminatti” (o “Poti quantu o cavaddu i Chiuminatti”), in riferimento alla prestanza fisica di una persona. I cavalli da tiro utilizzati per il traino dei carrelli carichi di pietre e breccio, caratteristici per la fascia rossa legata ad una zampa, erano infatti noti per la loro straordinaria forza.
Nominato ufficiale dell’Ordine cavalleresco della Corona d’Italia con decreto del 16 settembre 1924, Giacomo Chiuminatto morì a Roma il 12 maggio 1951.

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Passeggiata storica/5

La quinta tappa omaggia uno dei più grandi studiosi del Risorgimento calabrese, il cui busto in bronzo fu scoperto il 29 dicembre 1932 all’interno della biblioteca De Nava di Reggio Calabria, dove sono custoditi circa 1500 libri appartenuti a Visalli. L’Archivio di Stato conserva invece i documenti utilizzati dall’illustre eufemiese per scrivere i suoi volumi di storia.

PANNELLO 5: VITTORIO VISALLI

Vittorio Visalli nacque il 15 ottobre 1859 da Ottaviano e Maddalena Imparato. La sua famiglia, coinvolta nei moti del 1848, era stata falcidiata dalla persecuzione borbonica. Il nonno Vitaliano morì braccato dalla polizia di Ferdinando II, lo zio Paolino si spense in carcere, lo zio Vincenzo fu condannato a sette anni di reclusione, il padre Ottaviano fu mandato al confino nell’isola di Ventotene.
Dopo avere conseguito la patente magistrale presso la scuola normale di Reggio, a partire dal 1876 insegnò in diversi istituti della provincia. Nel 1892 ebbe l’incarico di vicedirettore della scuola normale di Messina, dove visse fino al 1908 insieme alla moglie Giuseppina Augimeri e alla figlia Maddalena, entrambe decedute nel terremoto del 1908. Costituì l’associazione “Pro Calabria” e la “Società calabrese di storia patria”. Dal 1909 direttore della scuola normale di Catanzaro, sposò in seconde nozze Maria Mottareale e, nel 1914, fu destinato alla direzione della scuola normale di Tivoli. Negli ultimi anni di insegnamento, tra il 1923 e il 1926, fu preside dell’Istituto magistrale “Maffeo Vegio” di Lodi. Morì a Reggio Calabria il 27 giugno 1931.
Autore di manuali di storia e di geografia adottati in molte scuole del Regno d’Italia, conferenziere prolifico e apprezzato, diede alle stampe numerosi saggi e interventi pubblici. Il suo nome è legato agli studi storici sul Risorgimento calabrese, che approfondì in due volumi fondamentali: I Calabresi nel Risorgimento italiano. Storia documentata delle rivoluzioni calabresi dal 1799 al 1862; Lotta e martirio del popolo calabrese (1847-1848).

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Passeggiata storica/4

Nella quarta tappa, il viaggio storico tra le strade cittadine rende omaggio ad un suo illustre figlio, martire per la libertà.

PANNELLO 4: CARLO MUSCARI

Figlio di Francesco e Lavinia Pugliatti, nacque a Sant’Eufemia il 18 marzo 1770. Compì gli studi umanistici a Roma, sotto la guida dello zio abate Giuseppe Maria Muscari (1713-1793), figura di rilievo nel panorama culturale e dottrinario del tempo che fu segretario di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori (fondatore della congregazione del Santissimo Redentore) e in stretto rapporto con Papa Pio VI. Si laureò in legge a Napoli, dove già viveva il fratello maggiore, avvocato Giuseppe, che curò anche la formazione di un altro fratello, Gregorio. Coinvolto in una congiura giacobina, fu arrestato una prima volta nel 1794 e scarcerato su cauzione. Protagonista degli eventi che portarono alla proclamazione della Repubblica Napoletana, il 20 gennaio 1799 Carlo Muscari partecipò alla presa del castello di Sant’Elmo. Comandante della legione “Bruzia” (o “Calabra”), fu tra i sette membri della “Commissione pel piano delle Finanze”, e, insieme al fratello Gregorio, componente della Commissione “degl’informi”, che si occupava dell’epurazione della burocrazia borbonica e della sua sostituzione con un personale fedele al nuovo corso. Arrestato dopo la capitolazione dei repubblicani, fu condannato a morte e impiccato in piazza Mercato, il 6 marzo 1800.
A cent’anni dalla morte, l’amministrazione comunale di Sant’Eufemia fece collocare all’interno del municipio una lapide in marmo, poi andata distrutta, con scolpite le parole dettate da Vittorio Visalli: «Tradita la fede dei patti/ da bieca voluttà di tiranni/ CARLO MUSCARI/ milite della Repubblica Partenopea/ moriva strangolato a Napoli/ il 6 marzo 1800/ I cittadini eufemiesi dopo 100 anni/ a ricordo ed esempio».

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