
Alla signora Titina brillano gli occhi quando allarga il suo bel sorriso e, senza esitazione, afferma: «Cca mi scura e cca mi brisci. In questo posto ho dato l’anima, vivo tra queste mura da cinquantanove anni, ma non mi è pesato per niente. Il lavoro, anche se impegnativo, non mi ha stancata perché l’ho svolto con passione, con amore. La pasticceria è stata la mia vita: se dovessimo smettere, starei male».
La pasticceria Vizzari a Sant’Eufemia rappresenta un’istituzione. Armando Vizzari, figlio e nipote di pasticcieri, custodisce da molto tempo il testimone passatogli dal padre Domenico e dallo zio Nino. Oggi che di anni ne ha ottantaquattro sottolinea con orgoglio: «Sono nato qui e qui sto morendo, al “Purgatorio”. In questa stradina c’era la casa dei miei genitori e qua ho aperto la pasticceria, dopo avere imparato l’arte sin da bambino in quella di mio padre».
Tempi mitici, nei quali le lavorazioni venivano eseguite manualmente, senza l’ausilio dei moderni macchinari. Triturare le mandorle per l’impasto delle paste secche richiedeva muscoli d’acciaio, perché i due rulli che le macinavano andavano azionati a forza di braccia. Il forno era a legna e il fumo investiva chi lo governava. Per ottenere la temperatura giusta occorreva regolarsi con il colore della pietra collocata all’interno: «Il calore la faceva diventare bianca, più scura, marroncina. Se il piano (“u solu”) non era riscaldato adeguatamente, i biscotti si bruciavano».
Per questo occorreva essere “sperti”, specialmente quando si utilizzava un forno particolare, in grado di contenere fino a dodici teglie. Ogni prodotto (torrone, stomatico, piparelli, susumelle, pittapie, amaretti, paste di mandorle) necessitava di una temperatura diversa, che doveva essere più alta per la “nsudda i ferru”, un dolce all’epoca molto richiesto perché, per tradizione, i giovani lo regalavano alle fidanzate dopo averci fatto scrivere sopra parole d’amore.
L’approvvigionamento degli ingredienti di preparazione non era faccenda semplice. Per rifornirsi i pasticcieri si recavano a Messina, dove compravano anche la nocciolina e i ceci da rivendere nelle feste di paese: «Raggiungevamo Villa San Giovanni in autobus, prendevamo il traghetto e dopo lo sbarco ci dirigevamo dai fornitori. Quindi caricavamo la merce sulle spalle e tornavamo a casa. Una volta cresciuti economicamente, per arrivare a Villa utilizzavamo un’Ape (la lambretta) e ci portavamo dietro un carretto sul quale sistemavamo gli acquisti».
Quella dei mercati costituiva un’attività collaterale, che comportava anch’essa grande sacrificio: «Ne abbiamo fatte di nottate. Abbiamo pure dormito sui marciapiedi, quando sostavamo nei paesini per più giorni. In occasione della festa di San Rocco, raggiungevo a piedi mio padre ad Acquaro portando sulle spalle sacchi di nocciolina, ceci, susumelle».
Per Armando la svolta coincide con il rientro dal servizio militare. Un’esperienza drammatica perché la compagnia di Vizzari, di stanza a Casarsa (Pordenone), nell’ottobre del 1963 è tra le prime inviate a Longarone, paese sul quale si era abbattuta una massa d’acqua di circa 300 milioni di metri cubi, fuoruscita dalla diga del Vajont in seguito alla frana di un costone del monte Toc. Nel suo reportage per il “Corriere della Sera”, il giornalista e scrittore Dino Buzzati consegnò all’eternità l’immagine drammaticamente più suggestiva dell’immane tragedia che cancellò Longarone e provocò quasi duemila vittime: «Un sasso è caduto in un bicchiere colmo d’acqua e l’acqua è caduta sulla tovaglia. Solo che il bicchiere era alto centinaia di metri, il sasso era grande come una montagna e sotto, sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi». Straziante è il ricordo del fango e della morte che si presentarono agli occhi del giovane eufemiese: «Arrivammo a Longarone per dare una mano. Ho visto cadaveri impigliati tra i rami degli alberi e mucche gonfie all’inverosimile. Mi è rimasta impressa la visione dei binari del treno che la forza dell’acqua aveva fatto attorcigliare “comu na ligaredda” (in italiano: “convolvolo”, pianta rampicante il cui nome deriva dal latino “convolvere”, avvolgere). Suddivisi in gruppi, avevamo il compito di spalare il fango e di scavare tra i detriti per verificare se ci fossero dei sopravvissuti. Non ne trovammo nemmeno uno». Recupera invece una banconota di diecimila lire, che prontamente – senza neanche pensarci – consegna al tenente della compagnia, tra l’incredulità dei commilitoni.
Assolti gli obblighi di leva, Armando si mette in proprio e sposa la quasi diciottenne Titina Romeo. Figlia del muratore Francesco e di Margherita, con la mamma e con la sorella Rosalia si era dedicata fino ad allora alla lavorazione delle maglie: «Da qualche parte abbiamo ancora conservata qualche macchina. Ma una volta sposata mi sono adattata ed ho imparato il mestiere».
Talmente bene che, riconosce Armando, di fatto è lei ora a portare avanti l’attività. Tra le specialità della pasticceria Vizzari una menzione speciale va al torrone mandorle e miele e alle monachelle, anticamente chiamate “ghetti”. Ai tanti clienti che sostengono la bontà delle “monachelle di Titina”, Armando risponde con ironico disappunto: «Guardate che la ricetta è mia: il pasticcere sono io, non mia moglie. Possibile che nessuno mi vuole riconoscere questo merito?».
Titina segue ogni produzione, confeziona, impacchetta: «Sono certosina, mi piace prestare la giusta attenzione a tutto. Lui mi prende in giro e dice che metto la mia “brocciata” ovunque. Ma le cose vanno fatte per bene».
Le mani dei coniugi Vizzari profumano di dedizione, sacrificio… e vaniglia: «Quando penso ai miei nonni – racconta con emozione e con orgoglio la nipote Rosa – li immagino perennemente intenti a dosare, impastare, sfornare. Quando ero piccola amavo farmi coccolare da mia nonna perché ero convinta che le sue mani emanassero sempre l’odore dolce della vaniglia. Sono eccezionali pasticceri e, ancora di più, nonni speciali».
Armando e Titina sono la testimonianza di come la sovrapposizione tra attività e vita privata possa diventare un esempio di cultura del lavoro, della sua dignità. Forse è questo il riconoscimento più prezioso, che non prescinde, ovviamente, dalla qualità della produzione: «E sennò – conclude Armando con sagace saggezza – la gente se ne fregherebbe (il verbo utilizzato è molto più colorito) di noi, confinati in questo sperduto vicoletto!».