“Natale in carcere”. Non è un cinepanettone, ma un incubo reale

Il mio articolo per “Il Dubbio” di oggi

È arrivato di colpo l’inverno. Si sapeva che sarebbe successo, come ogni anno. E infatti, chi utilizza stufe o termo-camini per riscaldare la propria abitazione, generalmente già in estate provvede alla scorta di legna o di pellet. Per non farsi trovare impreparati, sorpresi dalle temperature che improvvisamente diventano rigide. Così come sono già pronti coloro che utilizzano il metano o il GPL. Al limite, una controllatina alla caldaia, ma niente di più. Non ti temiamo, generale inverno.
Poi, il 27 di novembre, mentre nel “mondo di fuori” già si è avanti con gli addobbi natalizi, capita di entrare in un carcere (Casa Circondariale di Lecce) e si sbatte forte con il muso contro la disumanità dei regimi carcerari.
Negli “Hotel a cinque stelle” ancora si soffre il gelo, a meno di un mese da Natale. Non nella sala colloqui, quella è riscaldata. Un familiare non nota niente di anomalo. Anzi, ha quasi caldo. Nelle celle invece non è così. I detenuti si arrangiano come possono. Insomma: indossano qualche maglia in più, tengono in testa il berretto di lana giorno e notte, cercano di stare sotto le coperte il più possibile, per evitare gli spifferi delle finestre e le correnti d’aria che attraversano i pochi metri quadrati tra i lettini. Raschiano il fondo del barile del loro proverbiale spirito di adattamento.
Però, quanta pena e quanta rabbia. Tenere tra le mani una mano gelida. Sentire all’abbraccio guance e orecchie freddissime. Fisime da garantisti, si dirà. Mica vorrebbero davvero un albergo i delinquenti che si trovano in regime di custodia carceraria. Anche quelli non ancora condannati in via definitiva, che poi anche questi sarebbero esseri umani. Colpa loro, se ne facciano una ragione. Giovani e vecchi. Se ce la fate, sopravviverete. Altrimenti, sono problemi vostri.
E invece è un problema di tutti noi e dello stato del diritto all’interno delle carceri. È il problema delle parole della “più bella costituzione del mondo” smentite dalla realtà: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità» (articolo 27, terzo comma).
È una questione che poco ha a che fare con la pena, che già si sta scontando o addirittura (per in non definitivi) si sta anticipando, in molti casi gratuitamente. È il sadismo delle troppe afflizioni aggiuntive perpetrate da uno Stato sulla carta democratico. Qualcosa di profondamente ingiusto. La vergogna di uno Stato che non “custodisce” e che si fa barbaro e tribale.
Non è vero che la tortura è stata abolita in Italia. Basta entrare in un carcere per capirlo.

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L’umanità dei luoghi

“L’umanità dei luoghi. Storie di volontariato dall’Aspromonte al mare” è un documentario, prodotto dal Centro Servizi per il Volontariato dei Due Mari – ETS e realizzato da MedMedia, che in circa un’ora racconta storie significative di volontariato della Provincia di Reggio Calabria. Si parla anche dell’Agape di Sant’Eufemia d’Aspromonte (al minuto 30:50): anzi, sono i volontari a raccontare e a raccontarsi mentre sono impegnati nella realizzazione della colonia estiva.
Di recente, “L’umanità dei luoghi” è stato selezionato per concorrere al 77° Festival Internazionale del Cinema di Salerno e, fino alle 23:55 del 1° dicembre, è possibile sostenerne la candidatura.
Per votare è sufficiente aprire il link https://show.festivaldelcinema.it/ e registrarsi, fare l’accesso (login) digitando il nome utente e la password, cliccare sulla sezione DOCUMENTARI, trovare “L’umanità dei luoghi” e votare scegliendo il numero di stelline (da 1 a 5).
Consiglio non soltanto di votare: l’intero documentario merita di essere guardato. In Calabria ci sono tante storie belle, che meritano di essere raccontate e conosciute.

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La libertà è un colpo di tacco

Mancavano dieci giorni al compimento dei miei nove anni quando, il 5 luglio 1982, il capitano del Brasile Socrates beffò Dino Zoff con un rasoterra tra palo e gamba sinistra, nello stadio Sarrià di Barcellona che ospitava l’ultima partita del secondo turno eliminatorio del gruppo C, nel mondiale di Spagna. Ma il gol segnato dal Doutur (era laureato in medicina) non servì alla squadra allenata da Tele Santana, schiantata dalla tripletta di Paolo Rossi che ribaltò anche il secondo pareggio di Falcao e trascinò i ragazzi di Enzo Bearzot in semifinale e infine all’apoteosi del Bernabeu contro la Germania. Per i tifosi verdeoro fu “la tragedia del Sarrià”, seconda soltanto al Maracanazo contro l’Uruguay nel 1950. Troppo impegnati a contemplare il proprio ombelico, si disse dei vari Socrates, Falcao, Zico, Junior, Cerezo, Eder, interpreti della Seleção più talentuosa e meno vincente di tutti i tempi.
Non sapevo ancora niente di quello spilungone barbuto, proprio in quegli anni protagonista di una vicenda sportiva, umana e politica capace di cambiare la storia del Brasile.
Intingendo la penna nell’inchiostro della poesia e della malinconia, Riccardo Lorenzetti ha ricostruito in La libertà è un colpo di tacco (pubblicato nel 2014 da Armando Curcio Editore, con la prefazione di Federico Buffa) l’epopea culminata con i due campionati paulisti consecutivi (1982 e 1983) conquistati dal Corinthians di San Paolo.
Il contesto del romanzo è quello del Brasile del regime dei “Gorillas”, che governò il Paese tra il 1964 e il 1985. Una dittatura militare ormai ai titoli di coda, alla cui caduta contribuì in maniera decisiva il Corinthians dell’allenatore Mario Travaglini, del presidente Waldemar Pires e del sociologo direttore sportivo Adilson Monteiro Alves, del leader Socrates, elegante esteta del colpo di tacco, la giocata imprevedibile e spettacolare che fu il suo inconfondibile marchio di fabbrica. Il Corinthians di Wladimir, Casagrande, Zenon, Ataliba, Biro-Biro, Zé Maria: «Gente che avrebbe potuto indifferentemente vincere un campionato. O scatenare una rivoluzione. E infatti, fecero entrambe le cose».
Socrates fu l’ideatore della “democrazia corinthiana”, fondata sui principi dell’uguaglianza, della partecipazione e della libertà: «I calciatori devono votare. Quello che non avviene nel nostro Paese da vent’anni». Una sorta di comune caratterizzata dall’autogestione e dal ricorso al voto tra calciatori, dirigenti e magazzinieri per decidere sull’organizzazione dello spogliatoio, la scelta del ritiro, il menù del pranzo, la modalità degli allenamenti, la formazione da mandare in campo, la campagna acquisti e la composizione della rosa, oltre che per stabilire la strategia “politica” del club: lo striscione portato a centrocampo all’inizio delle partite (“Vincere o perdere, ma sempre con democrazia”) e le scritte sulle magliette: Democracia Corinthiana o Dia 15 vote, con la quale i brasiliani furono esortati a partecipare alle elezioni che si sarebbero tenute, per la prima volta dopo quattro lustri, nel novembre del 1982. Un modello di democrazia che incise profondamente nel clima asfittico degli anni della dittatura, con ripercussioni sociali e politiche sconvolgenti.
In un’intervista del 1983, Socrates aveva dichiarato: «Vorrei morire di domenica, nel giorno in cui il Corinthians vince il titolo». Morì di domenica, il 4 dicembre 2011, poche ore prima del derby Corinthians-Palmeiras. Da brividi, nel minuto di silenzio osservato a inizio partita nello stadio Pacaembu di San Paolo, il pugno chiuso alzato da tifosi e giocatori per dare l’addio al proprio idolo con il gesto che Socrates ripeteva dopo ogni suo gol. A fine gara il Corinthians si laureò campione nazionale, nel nome del Doutur.

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Grazie

Nella sua ormai venticinquennale esperienza di colonie estive, pochissime volte l’Agape ha avuto la fortuna di avere a disposizione la cosiddetta “sedia JOB”, acronimo dell’espressione napoletana “jamm ’o bagno” (“andiamo al mare!”). In quel paio di edizioni, sono stati alcuni lidi e l’Agess di Bagnara Calabra a condividere generosamente con la nostra associazione la speciale carrozzina da spiaggia, che permette ai soggetti con disabilità lo spostamento sulla sabbia e l’entrata in mare. Operazioni altrimenti complicatissime, risolvibili soltanto a forza di braccia.
Qualche giorno fa l’Agape ha ricevuto in dono proprio una sedia JOB, un regalo che i volontari hanno accolto con molta emozione. Nel gesto abbiamo colto l’apprezzamento per le attività che svolgiamo, una sorta di premio alla tenacia senza la quale molte colonie estive probabilmente non si sarebbero potute realizzare. Indubbiamente, ciò rappresenta per tutti noi un’enorme gratificazione.
Il volontariato è materia delicata, che va trattata con grande cautela perché a parlarne si corre il rischio di scadere nell’autocelebrazione. Qualcuno più grande di noi raccomandava: «Non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra». Lo pensa anche la persona che ha donato la carrozzina da spiaggia all’Agape e che vuole restare anonima.
Noi però lo abbiamo voluto comunicare, così come cerchiamo di dare visibilità a tutte le nostre iniziative di solidarietà. Non per autoincensarci, ma perché siamo convinti che i buoni esempi possono innescare effetti imitativi, esattamente come avviene (purtroppo) per tutte le brutture del mondo.
Con questo spirito, nel ringraziare chi ha dimostrato nei confronti dell’Agape così tanto affetto, per esprimere tutta la nostra felicità prendiamo in prestito le parole di Ligabue in “Almeno credo”: «Credo a quel tale che dice in giro/ che l’amore porta amore».

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I cioccolatini della ricerca Airc

Anche quest’anno l’Associazione di volontariato cristiano “Agape” di Sant’Eufemia sarà al fianco dell’Airc nella tradizionale iniziativa dei cioccolatini della ricerca. Domenica 12 novembre, dalle 9:00 alle 13:00, in piazza Matteotti i volontari si occuperanno della distribuzione delle confezioni da 200 gr di buonissimi cioccolatini Venchi. Chi volesse aderire alla prevendita, può rivolgersi ai volontari indicati nella locandina.
Un contributo concreto al lavoro dei ricercatori Airc, per rendere il cancro sempre più curabile!

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Ninna nanna della guerra

Trilussa (Carlo Alberto Salustri), poeta dialettale romanesco che raccolse la tradizione dei sonetti di Gioacchino Belli, nel tempo se ne distaccò per dedicarsi alla favola satirica e moraleggiante. Allo scoppio della Prima guerra mondiale, mentre in Italia infuriava la polemica tra interventisti e neutralisti, compose la celebre “Ninna nanna della guerra”, una potente invettiva contro il conflitto bellico.
Secondo i ricercatori del canto popolare italiano Virgilio Savona e Michele Straniero, curatori nel 1981 per l’editore Garzanti dei due volumi Canti della Grande Guerra (a loro volta, citano il lavoro Canzoni italiane di protesta, di Giuseppe Vettori, pubblicato da Newton Compton nel 1974), il testo di Trilussa fu cantato nelle trincee grazie a due autori anonimi che lo arrangiarono con la musica di un canto popolare piemontese (Feramiu: raccoglitore ambulante di ferri vecchi).
Per esigenze di semplificazione, dal testo originario furono eliminati la prima strofa completa, nella quale si fa riferimento a “Farfarello” (un diavolo dantesco), “Gujermone” (Guglielmo II, re di Prussia e imperatore di Germania dal 1888 al 1918) e “Cecco Beppe” (Francesco Giuseppe I d’Asburgo-Lorena, imperatore d’Austria dal 1848 e re d’Ungheria dal 1867 al 1916), nonché i primi due versi della seconda e della terza strofa.
La composizione è un amaro canto di pace rivolto dall’autore ad un bambino, in una sorta di protezione dalla bruttezza della violenza. Se ti addormenti, non vedi lo strazio della gente che si scanna. L’artificio letterario consente a Trilussa di denunciare i potenti che “giocano” alla guerra ammantandola di ragioni che ragioni non sono, incuranti degli effetti che ricadono sempre sulle persone comuni, coloro che ne pagano le conseguenze. Non è difficile cogliere l’attualità di versi che, ieri come oggi, confermano quanto la morte sia una realtà drammaticamente familiare per troppi bambini.
Variamente adattata nella versione popolare, la “ninna nanna” è stata eseguita da molti artisti, tra i quali Gigi Proietti, del quale ripropongo un’intensa interpretazione.

Ninna nanna, nanna ninna,
er pupetto vò la zinna:
dormi, dormi, cocco bello,
sennò chiamo Farfarello
Farfarello e Gujermone
che se mette a pecorone,
Gujermone e Ceccopeppe
che se regge co’ le zeppe…

co’ le zeppe de un impero
mezzo giallo e mezzo nero;
ninna nanna, pija sonno
che se dormi nun vedrai
tante infamie e tanti guai
che succedeno ner monno
fra le spade e li fucili
de li popoli civili.

Ninna nanna, tu nun senti
li sospiri e li lamenti
de la gente che se scanna
per un matto che comanna,
che se scanna e che s’ammazza
a vantaggio de la razza
o a vantaggio de una fede
per un Dio che nun se vede…

…ma che serve da riparo
ar sovrano macellaro;
che quer covo d’assassini
che c’insanguina la tera
sa benone che la guera
è un gran giro de quatrini
che prepara le risorse
pe’ li ladri de le Borse.

Fa la ninna, cocco bello,
finché dura ’sto macello,
fa la ninna, che domani
rivedremo li sovrani
che se scambieno la stima
boni amichi come prima;
so’ cuggini, e fra parenti
nun se fanno complimenti!

Torneranno più cordiali
li rapporti personali
e, riuniti infra de loro,
senza l’ombra de un rimorso,
ce faranno un ber discorso
su la Pace e sul Lavoro
pe’ quer popolo cojone
risparmiato dar cannone.

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Per un cimitero accessibile

Le fotografie che vedete mostrano i punti di ingresso al campo inferiore del cimitero comunale. Immaginate ora di essere su di una sedia a rotelle, o di avere comunque difficoltà nella deambulazione. Ad esempio, di essere affetti da artrosi, la patologia del ginocchio più diffusa tra gli anziani, invalidante per effetto della progressiva usura della cartilagine dell’articolazione. A coloro che si trovano in queste condizioni e hanno dei congiunti sepolti nell’area raggiungibile solo scendendo per quelle scale, di fatto, l’accesso risulta impossibile. Il problema riguarda più persone di quanto si possa immaginare.
La commemorazione dei defunti può diventare occasione propizia per discutere di una questione vissuta con sofferenza dai tanti che, anche nel resto dell’anno, vorrebbero recarsi nel cimitero per portare un fiore, un lumino, per recitare una preghiera sulla tomba dei propri cari.
In via informale ho talvolta affrontato l’argomento con qualche amministratore comunale e sinceramente confidavo in una sensibilità che andasse oltre la semplice constatazione dell’esistenza della criticità. Eppure, i cimiteri sono strutture comunali obbligatorie e luoghi pubblici che dovrebbero garantire l’accessibilità anche a coloro le cui capacità motorie sono ridotte o nulle.
Affinché il diritto alla mobilità sia reso effettivo, occorrerebbe pertanto eliminare le barriere architettoniche mediante la realizzazione di rampe dotate di corrimano, oppure con l’installazione di un ascensore o di un montascale, in modo da garantire il collegamento tra la zona alta e quella bassa del cimitero. D’altronde, esistono fondi riservati proprio agli interventi necessari per assicurare alle persone con problemi di deambulazione l’accessibilità a strutture pubbliche e private.
Le amministrazioni comunali spesso sottovalutano l’impatto positivo che possono avere sulla qualità della vita di una comunità opere neanche tanto costose, ma certamente molto più utili di molte cattedrali nel deserto, delle quali il cittadino non riesce a cogliere l’utilità. La vicinanza ai bisogni della collettività passa dalla soddisfazione di esigenze elementari.

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Gaza come la Sidone di De Andrè

Le parole possono cambiare il mondo? Qualcuno le ascolta? La risposta è un doppio no. Le parole potrebbero forse cambiare il mondo se l’umanità tendesse l’orecchio verso l’altro, se tutti facessimo tesoro della raccomandazione del filosofo Plutarco al giovane Nicandro, contenuta nell’opuscolo “L’arte di ascoltare”: «Il saper ascoltare bene è il punto di partenza per vivere secondo il bene».
Ciò che sta succedendo a Gaza conferma la nostra sordità. Beati i possessori della verità e del giusto, beati coloro che sventolano vessilli da ultras: bandiere di vittoria da piantare nelle pance dei morti, sosteneva Ignazio Buttitta, in una spirale di contrapposizione ideologica e di violenza della quale non si riesce a vedere la fine.
Ragione e torto, dicevamo. Il diritto di esistere di Israele, il diritto della popolazione palestinese a vivere con dignità.
Le brigate al-Qassam e Netanyahu sono indifendibili. Criminali. Non esiste una ragione che spieghi la caccia all’uomo di Hamas nei kibbutz della Striscia e non esiste una ragione che giustifichi la vendetta indiscriminata di Israele sui civili di Gaza.
Si è indifferenti alle conseguenze di un disastro umanitario spaventoso, ancora soltanto all’inizio. E sono state spazzate dal vento le parole di umana pietà dedicate da Fabrizio De Andrè all’attacco subito dalla città libanese di Sidone, ad opera delle truppe del generale Sharon nel 1982, nel corso della guerra civile libanese: «Me la sono immaginata – spiegò – come un uomo arabo di mezz’età, sporco, disperato, sicuramente povero, che tiene in braccio il proprio figlio macinato dai cingoli di un carro armato».
L’album era il capolavoro Crêuza de mä (1984). La canzone, in dialetto genovese come tutte le tracce del disco, si intitolava Sidùn. Di seguito, il testo tradotto in italiano:

Il mio bambino il mio
il mio
labbra grasse al sole
di miele di miele
Tumore dolce benigno
di tua madre
spremuto nell’afa umida
dell’estate dell’estate
E ora grumo di sangue orecchie
e denti di latte
e gli occhi dei soldati cani arrabbiati
con la schiuma alla bocca cacciatori di agnelli
a inseguire la gente come selvaggina
finché il sangue selvatico non gli ha spento la voglia
e dopo il ferro in gola i ferri della prigione
e nelle ferite il seme velenoso della deportazione
Perché di nostro dalla pianura al molo
non possa più crescere albero né spiga né figlio
ciao bambino mio l’eredità
è nascosta
in questa città
che brucia che brucia
nella sera che scende
e in questa grande luce di fuoco
per la tua piccola morte

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E la chiamano informazione

Chiedo anticipatamente perdono se aggiungo il mio inutile commento all’inutile polemica attorno alla quale si stanno sprecando fiumi di inutile inchiostro: ben quattro pagine solo sul Corriere della Sera, stamattina. Approfitto della vicenda Meloni/Giambruno per esporre qualche considerazione sull’infimo livello raggiunto dal giornalismo nostrano e sullo squallore del dibattito politico attuale.
L’informazione televisiva e dei giornali da tempo si è ridotta a brutta copia della fogna social. Una perversa degenerazione nella quale l’unica certezza è che l’originale è sempre meglio dell’imitazione. Sui social, pudore e deontologia sono retaggi del passato, ma tv e carta stampata non stanno meglio in salute. La domanda non è più: «Dove va il giornalismo?». Bensì: «C’è ancora da scavare?». Vada quindi per i fuori onda, che tutto sono tranne che giornalismo. Se vogliamo almeno estrarre i piedi dalla melma, al fondo di un poderoso sforzo intellettuale chiediamoci, piuttosto, perché certi fuori onda vengono trasmessi a distanza di quattro mesi dalla loro registrazione. È stata la vendetta di Mediaset, che si era legata al dito la frase di Meloni: «Ha dimenticato di aggiungere che io non sono ricattabile», pronunciata a commento degli aggettivi (“supponente, prepotente, arrogante, offensiva”) appuntati su un foglietto da Silvio Berlusconi?
O, con un colpo solo, Antonio Ricci ha tolto le castagne dal fuoco sia a Mediaset che alla premier, portando brillantemente a compimento l’esecuzione dell’indifendibile (e, come sembra, da mesi ex first gentlemen) Giambruno, in un perfetto regolamento di conti aziendale e politico?
Potrebbe insomma avere ragione l’ideatore di Striscia: «Un giorno [Giorgia Meloni] scoprirà che le ho fatto un piacere». D’altronde, il meglio (anzi, il peggio) di sé Giambruno lo aveva già ampiamente sfoggiato in diverse precedenti occasioni: indimenticabile l’idiozia sulle donne che se si ubriacano, perdono i sensi e finiscono per trovare il lupo che le violenta. Qualcuno a Mediaset potrebbe avere fatto due conti sull’opportunità di dare ancora spazio ad un giornalista incline ad affermazioni sconsiderate, si tratti di donne, cambiamento climatico, relazioni internazionali o altro.
Salterei a pie’ pari la questione privata, pur osservando l’irritualità di una relazione dichiarata conclusa su un social. Ma i tempi sono questi, noi vecchi mummioni dobbiamo farcene una ragione. Provoca invece abbastanza ribrezzo constatare la frequenza con cui la lotta politica si riduce ad attacchi al parente di turno, in un’orgiastica esaltazione per un risultato irraggiungibile sul piano dei contenuti. Tra l’altro, tutto da verificare: a me pare, infatti, che da questa vicenda la presidente del consiglio ne esca rafforzata.
L’opposizione alle politiche governative andrebbe fatta su questioni forse più serie e possibilmente con argomentazioni intellettualmente più impegnative dello sfottò per la contraddizione tra ciò che si dice e ciò che accade. Per quella strada, in pochi probabilmente sarebbero immuni da contestazioni.
Purtroppo, da tempo la sinistra è incapace di un siffatto sforzo culturale e non perde occasione per dare ragione a chi le attribuisce un’atavica propensione alla doppia morale, specialmente nel campo dei diritti e delle libertà individuali. Nulla di nuovo: è il solito beverone di cinismo shakerato con l’ipocrisia. Prosit.

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Pietro Pentimalli, il sindaco della concordia

Nell’attività di ricerca storica locale, le difficoltà più ostiche si riscontrano quando occorre reperire fonti non ufficiali, ma utilissime per la realizzazione di un affresco quanto più aderente alla realtà che si decide di collocare sotto la lente d’ingrandimento. Ciò accade perché scarse sono le informazioni disponibili al di là di quelle contenute, quando esistono, tra i faldoni dell’archivio di stato. I piccoli comuni sono spesso privi di un archivio storico, nelle biblioteche non sono custoditi i giornali e i quotidiani del passato, le pubblicazioni di autori locali risalenti nel tempo sono pressoché introvabili. A Sant’Eufemia, i terremoti hanno inoltre distrutto i patrimoni documentari delle famiglie, mentre tra gli effetti delle migrazioni va considerata anche la dispersione di molte carte private. Per tutte queste ragioni, può risultare complicato tirare fuori dal cono d’ombra personaggi storici che meriterebbero un posto d’onore nella storia della propria comunità.
Il notaio Pietro Pentimalli (18 ottobre 1869 – 31 ottobre 1950) rientra in pieno nella categoria delle illustri personalità eufemiesi trascurate proprio a causa degli ostacoli che si parano davanti a chi vorrebbe approfondirne il profilo biografico, nonostante le poche informazioni a disposizione siano sufficienti per comprendere la grandezza del personaggio e il suo impatto nella storia di Sant’Eufemia d’Aspromonte.
Più volte consigliere comunale nell’ultimo decennio dell’Ottocento e assessore agli inizi del Novecento, Pietro Pentimalli fu il sindaco della rinascita dopo il disastro del terremoto del 1908. Un evento drammatico sotto il profilo umano, che ebbe ripercussioni decisive nella storia politica e amministrativa di Sant’Eufemia. La vicenda, nota, riguarda la ricostruzione del paese, attorno alla quale roventi furono le polemiche tra i due fronti contrapposti: l’amministrazione comunale eletta il 22 maggio 1910, con sindaco Pietro Pentimalli, era favorevole alla riedificazione nella nuova area della “Pezzagrande” e contava sull’appoggio del vecchio ma influentissimo Michele Fimmanò; l’altro gruppo, capeggiato dagli ex sindaci Francesco Capoferro e Antonino Condina-Occhiuto, era invece contrario e aveva tra i più agguerriti sostenitori il medico condotto Bruno Gioffré, il quale “con la sua splendida oratoria, con la facile parola di cui era dotato, accendeva gli animi degli eufemiesi, incitandoli alla resistenza”: «Più volte – ricordò il commissario prefettizio Francesco Cavaliere in un rapporto del 1918 – le campane a stormo riunirono i cittadini delle due parti, più volte stavano per verificarsi eccessi sanguinosi irreparabili». In una manifestazione, risalente al 1914, tale Pietro Crea si mise addirittura alla testa del corteo di protesta che dal Paese Vecchio si recò in “Pezzagrande” agitando un drappo nero, in segno di lutto per un trasferimento che per alcuni avrebbe significato la morte del paese.
Sappiamo come andò a finire. Grazie all’intervento del deputato reggino Giuseppe De Nava, si riuscì a superare il divieto di edificazione nel vecchio sito, per cui la ricostruzione nella nuova area non comportò l’abbandono coatto dei rioni preesistenti. L’accordo prevedeva inoltre la riconferma di Pietro Pentimalli alla guida del comune nelle elezioni del 1914.
Pentimalli fu politico tenace e tessitore dotato di un alto senso di responsabilità, caparbio nel centrare l’obiettivo etico, prima ancora che amministrativo, dell’unione e della concordia cittadina. Qualità rare al giorno d’oggi, che riecheggiano nel discorso pronunciato il 5 luglio 1914, in occasione della posa della prima pietra del nuovo palazzo municipale: «Attorno a questa pietra, come attorno ad un’ara, deponemmo, in sacrificio magnifico, tutte le nostre passioni, purificando l’anima nel più sublime ideale che arrida agli umani: l’amore della nativa terra. Sia fatidica la data che accomuna la rinascita della nostra città a quella degli spiriti composti a feconda pace».

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