Condannati a morire in cella: quando lo Stato dimentica i detenuti malati

Novanta morti all’anno. Uno ogni quattro giorni. Una strage di malati che si consuma tra le sbarre delle carceri italiane nel silenzio quasi assoluto. Già fanno fatica a guadagnare qualche titolo di giornale i casi, più eclatanti, dei suicidi: già 32 in questo infausto primo quadrimestre del 2024. Figurarsi lo spazio che possono ricevere i detenuti morti nei penitenziari italiani per “cause naturali”: il conteggio di Ristretti Orizzonti è al momento fermo a quota 44. Uomini e donne senza volto e senza nome, per i quali non è concesso il sentimento dell’umana pietà. Un dato che in realtà sarebbe ancora più drammatico, se solo si potesse disporre dei numeri sui decessi che avvengono quando, finalmente, vengono applicati gli articoli 146 e 147 del codice penale sul differimento della pena per le persone gravemente ammalate, che finiscono per morire poco dopo il loro arrivo a casa. I fautori del “buttate le chiavi”, cinicamente, sostengono: sarebbero morte ugualmente. Eppure è notoria la correlazione tra stato detentivo e scatenamento o peggioramento delle malattie.
In prigione si muore di infarto, per le complicazioni di patologie mal curate, per malattie croniche. Muoiono i giovani; ma ancor più – è ovvio – muoiono gli anziani. In carcere si muore da soli, senza il conforto di un familiare, perché lo Stato italiano non riesce a conciliare il diritto soggettivo di morire dignitosamente con la pulsione securitaria di una larga fetta della popolazione.
Le ragioni di questa ecatombe sono molteplici. Il pregiudizio per il quale il detenuto che lamenta qualche malessere generalmente viene considerato un simulatore in cerca di qualche beneficio. La carenza drammatica di personale e attrezzature sanitarie, più volte denunciata sulle colonne de “Il Dubbio” da Damiano Aliprandi: medici precari e difficoltà nell’assegnazione sulle 24 ore, turni infernali, con un solo infermiere responsabile anche di 600 detenuti; liste di attese infinite per visite specialistiche o interventi chirurgici. A tal proposito, dovrebbero pesare come un macigno sulle coscienze dei nostri governanti le parole severissime del garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello: «Credo che la nostra società e le nostre Istituzioni non siano rispettose dei diritti umani dei detenuti».
Non possono esserlo, quando i Tribunali si rifugiano in dichiarazioni di compatibilità con lo stato di detenzione perché “il quadro polipatologico è caratterizzato da patologie di natura cronica, certamente meritevoli di controlli periodici, alcuni anche quotidiani, agevolmente (il sottolineato è mio) gestibili all’interno del circuito penitenziario”. Così agevolmente che un detenuto può morire appena ottiene la sostituzione della misura coercitiva della custodia cautelare in carcere con quella degli arresti domiciliari, o andarci vicino.
L’accanimento dello Stato nei confronti dei detenuti malati è a volte indecente, oltre che incostituzionale, se si tiene a mente il senso di umanità cui fa riferimento l’articolo 27 della nostra Carta. Senza che si abbia nemmeno l’onestà di ammettere che in Italia è ancora in vigore la pena di morte, in una variante ipocrita, vigliacca e per questo ancora più intollerabile.

Il Dubbio, 24 aprile 2024

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L’Eufemiese è ritornata

Quattordici. Come le partite disputate per acciuffare il sogno: dodici nella stagione regolare, più la semifinale e la finale dei playoff. Quattordici. Come l’ubriaco della smorfia napoletana. E ubriachi di gioia sono giocatori, dirigenza e tifoseria, al termine di una stagione esaltante che ha visto l’Eufemiese 2023 centrare al primo colpo la promozione nel campionato di seconda categoria. Si dirà che è solo calcio, come se si trattasse davvero di dare un calcio a un pallone e basta. Non è mai così. Non quando il fuoco sacro della passione fa di un manipolo di ragazzi un collettivo nel quale riconoscersi, dei quale andare fieri. Dei quali si parla nelle strade, nelle piazze e nei bar. Ragazzi che hanno avuto il merito di riportare sugli spalti del campo sportivo centinaia di persone, come non accadeva da decenni. Famiglie intere con i bambini al seguito, ragazze e ragazzi, giovani e meno giovani. Il successo più significativo è proprio il sano e intergenerazionale appuntamento domenicale sulla tribuna del “Morisi”. Un’esplosione di spensieratezza che ha fatto bene a tutti. Anche a me, che mi sono divertito a stilare pagelle “ad uso interno” dopo le partite, come facevo venticinque anni fa per “Il Quotidiano”: un tuffo nel passato vissuto con gioia, grazie alle emozioni che il bianco e l’amaranto della divisa suscitano in tutti gli eufemiesi malati di calcio.
E allora andiamo con un pagellone finale, non prima di avere dato un po’ di numeri: dodici partite in campionato, con cinque vittorie, cinque pareggi e due sconfitte che hanno portato al secondo posto in classifica dietro il Bagaladi; ventitré gol fatti e dodici subiti. Inclusi gli spareggi contro Scillese e Mamerto, le vittorie salgono a sette, ventisette i gol fatti e tredici quelli subiti. Capocannonieri Palamara e Morabito con cinque gol, tallonati ad una lunghezza da Luppino; due i gol segnati da Cammarere, Gentilomo e Pirrotta; uno per Adami, Carbone Christian, Romeo e Sobrio, più un autogol a favore.

Alvaro Pasquale 9 – Attento e reattivo, la sua stagione è sintetizzabile nel balzo felino della finale che, togliendo dal sette un calcio di punizione dal limite, ha salvato il risultato.
Forgione 8,5 – Laterale di difesa dotato di ottima corsa e tecnica, ha dominato lungo tutta la fascia destra con progressioni che si sono rivelate una temibile arma offensiva.
Sobrio 9 – Padrone dell’area nel gioco aereo, sulla sua fisicità e reattività la squadra ha costruito una linea di difesa solidissima.
Adami 10 – Leader del reparto arretrato non solo per gli interventi puntuali e puliti, ha dettato i tempi e trasmesso serenità, con un rendimento che non ha mai avuto cedimenti.
Romeo 8,5 – Esterno sinistro affidabile in difesa e pericoloso nelle ripartenze, i suoi cross hanno spesso messo in difficoltà le difese avversarie.
Pirrotta 8,5 – Dalla panchina a titolare inamovibile, è stato tra le sorprese della squadra grazie al talento in mezzo al campo e alla personalità da veterano.
Alvaro Francesco 10 – Grande senso della posizione e capacità di lettura delle diverse situazioni di gioco sono state le doti che lo hanno reso playmaker insostituibile.
Cammarere 10 – Capitano e trascinatore per le indiscusse qualità tecniche e per l’attaccamento alla maglia, le sue giocate hanno ripetutamente fatto spellare le mani ai tifosi.
Palamara 10 – Esterno offensivo imprendibile nelle progressioni, ha fatto impazzire le difese avversarie con giocate funamboliche capaci di spaccare le partite.
Luppino 8 – Partito come rincalzo, le sue prestazioni sono state in crescendo e, a suon di gol, il suo apporto è stato preziosissimo nel finale di stagione.
Morabito 10 – Il “vecchietto” che si fionda su ogni pallone come un ragazzino con l’argento vivo addosso è stato l’uomo della promozione, grazie alla rete siglata nello spareggio finale.
Gentilomo 8 – All’inizio ha retto sulle sue spalle il peso dell’attacco eufemiese. Infortunato, è rientrato in due spezzoni negli spareggi, dando un contributo decisivo in ruoli non suoi.
Vizzari 7,5 – Centrocampista dai grandi polmoni, le sue prestazioni sono state caratterizzate dalla dinamicità sia in fase di interdizione che nella proposizione del gioco.
Carbone Christian 7,5 – Esterno difensivo di sicura affidabilità, da titolare e da subentrante ha svolto con impegno e disciplina i compiti assegnatigli.
Creazzo 7,5 – Difensore capace di coprire più ruoli, la sua duttilità è stata fondamentale per superare l’emergenza sulle fasce nel finale di stagione.
Alati, Carbone Antonino, Catanesi, Idà, Laganà, Leonello, Nocida, Posterino, Violi 7 – Nonostante il ridotto minutaggio, ogni volta che sono stati chiamati in causa non hanno tradito la fiducia di mister Napoli.

*Foto tratta dalla pagina Facebook ASD Eufemiese 2023

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La nostra Pasqua in cella con la pasta al forno di Cosimo e il limoncello di Saro

Oggi Giovanni veste l’abito buono, non la solita tuta sportiva che è la nostra divisa ufficiale. Per il passeggio nel cortile ha tirato fuori dalla “bilancetta” il maglioncino e i pantaloni che indossa nei colloqui con i familiari, ha lasciato sotto la branda le scarpe da tennis e calzato gli sneakers, ha stretto le spalle dentro un giubbottino casual invece del consueto smanicato. Invidio la sua abilità nel mettere sottovuoto i capi di abbigliamento, affinché non occupino troppo spazio nell’armadietto. Li spruzza con un po’ di profumo, li richiude nelle buste che adagia sullo sgabello e vi si siede sopra, lentamente. L’operazione dura diversi minuti, ma alla fine lo spessore non supera il mezzo centimetro.
Pure per noi carcerati è Pasqua. Nel cortile ci scambiamo gli auguri, nonostante l’anima in pena e la testa altrove. Nelle nostre case ci sarà poco da festeggiare e la metafora del Calvario vale per noi e per i nostri cari. Portiamo insieme la croce: e chissà chi ne soffre di più il peso.
In galera i giorni festivi opprimono il doppio. Non viene consegnata la posta, il gancio con l’esterno che fa sentire vivo chi si trova sepolto qua dentro e la chiusura della saletta, alla quale si può accedere per un’ora dopo il passeggio, appare un gratuito supplemento di afflizione. Usciamo dalla cella solo per le ore d’aria e, al momento di rientrare in sezione, alle quattro del pomeriggio ci diamo già la buonanotte.
Per la domenica delle Palme il cappellano ci ha fatto avere un ramoscello d’ulivo, che ha suggerito di donare ai nostri familiari. Stiamo salendo con loro l’erta del Golgota, abbiamo tutti bisogno di forza e di consolazione. Il sacerdote trova sempre le parole giuste: «Per rinascere bisogna morire». Un po’ morti lo siamo, in effetti. Ma contiamo di farcela a rinascere. Magari un po’ ammaccati, ma in piedi. Ci emozionano i suoi gesti affettuosi, ci assicurano che qualcuno pensa a noi. Oggi invierà in carcere i bignè alla crema, che consumeremo a fine pranzo con qualche fetta delle colombe pasquali acquistate e scambiate tra i detenuti. Non hanno invece superato il rigido vaglio della guardia e sono finiti nel bidone dell’immondizia del magazzino le “cimedde”, i biscotti pasquali della tradizione calabrese che un familiare aveva spedito al congiunto. Pazienza.
Qua dentro tutti dobbiamo qualcosa a qualcuno. Una pacca sulla spalla, un sorriso, una parola di conforto. Un biglietto da spedire per posta, scritto per chi vuole mandare gli auguri di buon compleanno alla figlia, o un disegno per i nipotini di qualche anziano. Riprendere in mano matita, gomma e colori, fa sudare. Ma almeno si sottrae alla monotonia parte di questo tempo vuoto.
Nei giorni scorsi in molti ci siamo “segnati” dal barbiere per una sistematina ai capelli. Bei tempi – racconta chi c’era – quando la sezione ebbe la fortuna di avere tra i detenuti uno del mestiere. Ora dobbiamo accontentarci di Gigi, che di professione fa l’idraulico. Si impegna, ma i risultati non sempre sono ottimali. A sua discolpa va detto che è impossibile ottenere un’acconciatura decente con un rasoio elettrico che si inceppa di continuo e con la forbicina “Chicco”.
Gigi è anche il bibliotecario della sezione, è lui a consegnare i libri richiesti con la “domandina”. Questa mansione la svolge con molta efficienza, almeno dal nostro punto di vista. Sì, perché ad aspettare che la “domandina” venga letta e la richiesta accolta trascorrerebbero intere settimane. La richiesta alla direzione la presentiamo, ma non appena Gigi passa davanti alle celle per rientrare nella sua, o quando ci incontriamo nel cortile, gli affidiamo un “pizzino” con i titoli. Ci penserà lui a farci avere i libri, alla prima occasione utile. Un azzardo passibile di punizione, come qualsiasi azione che contrasti il regolamento.
Salvatore, il lavorante, corre lo stesso rischio quando ci fa avere i guanti in lattice da utilizzare per lavare il water con la candeggina. Sennò ci toccherebbe farlo a mani nude: inspiegabilmente, i guanti non figurano infatti tra i beni acquistabili con la spesa settimanale. Li infila nella borsa di plastica per la frutta e per il pane che lasciamo appesa al cancello della cella e noi, una volta finito il lavoro, li facciamo scomparire nel sacco della spazzatura.
Salvatore oggi sarà fondamentale. Il direttore non ha concesso la “socialità”, che permette ai detenuti di pranzare insieme nella saletta o di riunirsi a gruppi in un unico camerotto, nei giorni di festa. Sarà pertanto compito di Salvatore consegnare la pasta al forno cucinata da Cosimo e dovrà farlo in fretta, prima che anche per lui arrivi il momento di rientrare in cella. Dal suo cubicolo, Cosimo lo chiama a gran voce. Ha iniziato a preparare il pranzo due giorni fa, dopo essersi fatto prestare i fornellini da campeggio e le coppie di padelle che fungono da forno, non riuscendo altrimenti a soddisfare la vasta clientela. Un detenuto lo chiama “Alessandro Borghese”, perché è un vero fenomeno. Giorni fa ha accolto con gli occhi lucidi il disegno realizzato da un carcerato: un cappello da cuoco a strisce rosse e blu, i colori del suo Catania, accompagnato dalla didascalia “Cosimo I, Re degli Chef”.
La pasta al forno di Cosimo è un capolavoro. Ma apprezziamo anche l’assaggio di quella di Roberto, il nostro dirimpettaio che – da buon pugliese – è specializzato nella preparazione delle orecchiette con le cime di rapa. Con la cella di fronte è più facile inviarsi le pietanze, per cui spesso pranziamo “insieme”. Basta posizionare il piatto dentro un contenitore, farlo passare con molta cautela tra le sbarre e sospingerlo con la scopa fino a metà corridoio. Un’altra scopa, dalla cella di fronte, lo avvicina fino a poterlo raccogliere e il pranzo è servito.
Dopo il dolce Stefano appoggia sul tavolo un bicchierino di plastica contenente un liquido giallognolo, opera di Saro. Dice che è limoncello. Non abbiamo idea di quale surrogato abbia impiegato, visto che l’alcool puro non si può acquistare. Dividiamo la bevanda in quattro, un piccolo sorso a testa. Qualsiasi cosa stiamo bevendo, è il liquore più buono mai assaggiato in vita nostra.

Link: La nostra Pasqua in cella (ildubbio.news)

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La Pasqua di solidarietà dell’Agape

Un piccolo pensiero per dire “ci siamo”, come Agape e come comunità che con la propria generosità consente ai volontari di “esserci”. È il senso della distribuzione delle uova di Pasqua, stamattina, agli amici dell’Agape e ai ragazzi che in estate partecipano alla colonia estiva. Ed è bello leggere negli occhi l’attesa di chi sa che, come ogni anno, i volontari arriveranno. La Pasqua di solidarietà dell’Agape è fatta di gesti, di abbracci, di parole scambiate dandosi appuntamento alle occasioni di incontro, come quello recente in pizzeria o all’ estate imminente che vedrà tutti alle prese con ciambelle e creme solari.
Mercoledì c’era stata la prima iniziativa pasquale, l’ormai ventennale Via Crucis con gli ammalati all’interno della Residenza sanitaria per anziani “Mons. Prof. Antonino Messina”, preceduto dalla consegna di un uovo di Pasqua. Condotti dal parroco don Marco Larosa, i volontari dell’associazione, le operatrici della struttura e il coro “Cosma Passalacqua” guidato dal Maestro Angela Luppino hanno ripercorso le tappe della Passione di Gesù in un luogo che richiama, in eguale misura, sofferenza e amore. Caterina e Iole si sono soffermate con la croce e con i cartelli delle stazioni accanto agli ospiti della struttura, disposti attorno al tavolo circolare della sala ricreativa, mentre si susseguivano le letture delle riflessioni, aventi come tema “Prima di tutto la vita”.
La Via Crucis nella RSA tocca corde intime per ciò che rappresenta e per la partecipazione degli anziani che ne seguono lo svolgimento con emozione, sia quando pregano e ascoltano, sia quando si uniscono commossi all’esecuzione dei canti della tradizione pasquale, tra i quali lo straziante “Stava Maria dolente” nell’intensa esecuzione di Noemi e Stefania.

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Sant’Eufemia d’Aspromonte – “Radici”

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Grazie all’impegno dell’Associazione Culturale Tommaso Campanella “Il pensiero forte del Sud”, sabato scorso una troupe televisiva di Telemia è stata a Sant’Eufemia per realizzare alcune interviste e girare le riprese necessarie per confezionare una puntata della trasmissione “Radici”, programma ideato e condotto da Pino Carella, che va in onda ogni giovedì sul canale 76 DTT alle ore 21.30 (repliche: venerdì ore 14.30 e domenica ore 16.30; in seguito, sarà inoltre visibile su YouTube).
«L’ideatore del format – si legge sul sito dell’emittente televisiva regionale – illuminato dal lume della sua lanterna, va alla riscoperta delle più antiche tradizioni popolari, riportando a memoria, sapori, riti, usanze e costumi. Una rievocazione che spazia dall’enogastronomia agli antichi borghi, dalla musica popolare a fatti storici o leggendari».
Tra gli altri intervenuti, anch’io ho dato con piacere la mia disponibilità per due contributi di carattere storico, incentrati sulla rievocazione del ferimento di Garibaldi in Aspromonte e sul valore iconico del ponte della ferrovia.
A stasera!

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La fattoria degli animali

Nei giorni scorsi i giornali hanno dato notizia della visita al carcere di Sollicciano da parte del ministro Salvini, il quale ha esercitato una prerogativa che è propria dei parlamentari e dei membri del governo. Un gesto certamente apprezzabile, che ha consentito al leader della Lega di verificare le condizioni di una struttura considerata tra le più invivibili a causa del sovraffollamento (aspetto comune alla quasi totalità delle carceri italiane) e per le criticità strutturali del penitenziario fiorentino: «Una struttura – riferisce il “Corriere della Sera” – che necessiterebbe di essere demolita e ricostruita ex novo, in quanto monolite in cemento armato che d’estate diventa un forno e d’inverno una sorta di ghiacciaia». L’alternanza forno/congelatore – è noto, ma a pochi importa – è una delle caratteristiche peculiari delle galere italiane. Bene, quindi, se la visita di Salvini può rivelarsi utile per accendere i riflettori sul dramma vissuto quotidianamente da decine di migliaia di detenuti senza volto e senza voce. Meno bene se, come maliziosamente sospetta l’Osapp (una sigla sindacale della polizia penitenziaria), Salvini abbia approfittato del suo status di parlamentare per fare visita al padre della sua compagna, Denis Verdini, non appena quest’ultimo è stato condotto nel carcere di Sollicciano dopo avere violato la misura degli arresti domiciliari alla quale era sottoposto. Prendendo a prestito La fattoria degli animali, con George Orwell verrebbe da dire che i detenuti sono tutti uguali, ma alcuni detenuti sono più uguali degli altri.
Si sa che il personaggio è volubile e, per questo, poco credibile anche quando apparentemente sostiene una giusta causa. Anche perché, in decenni di attività politica, Salvini ha sostenuto tutto e il contrario di tutto. La contraddizione, tra chi passa disinvoltamente dal sostegno ai referendum sulla giustizia all’invocazione di più reati e più carcere, è di facile lettura.
Con la sentenza Torreggiani, nel 2013 l’Europa ha condannato l’Italia per la violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani: «Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pena o trattamento inumani o degradanti». Non ricordo iniziative di Salvini per porre fine a questo vergognoso sconcio. Ricordo invece altre uscite, rivelatrici di ben altra sensibilità sui temi del garantismo, della giustizia e dell’esecuzione della pena.
Tra le tante, la pubblicazione delle fotografie dei presunti boss e mafiosi che nella primavera del 2020 furono scarcerati, a suo dire, “con la scusa del Covid”, sull’onda della polemica sollevata dal settimanale “L’Espresso” e dal programma televisivo “L’Arena”. In seguito si sarebbe accertato che i boss scarcerati furono tre, gravemente malati: e pazienza se tra i “boss” del post di Salvini vi era anche chi invece era stato rimesso in libertà dal Tribunale della Libertà per “evidenti ragioni di inconsistenza indiziaria”.
Dal primo gennaio ad oggi nelle carceri italiane sono stati registrati 21 suicidi, ai quali vanno aggiunti 31 decessi “per altre cause”. Una vera e propria emergenza, che in generale non sembra affatto turbare il sonno dei politici del nostro Paese. Nonostante le “visite” di Salvini.

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La Giornata del malato

La Giornata mondiale del malato, istituita da Giovanni Paolo II e giunta quest’anno alla trentaduesima edizione, anche quest’anno è stata onorata dall’Agape con la visita agli ospiti della RSA “Mons. Prof. Antonino Messina”. Nel suo messaggio, Papa Francesco si è soffermato sulla necessità di “curare il malato curando le relazioni”: «L’esperienza dell’abbandono e della solitudine ci spaventa e ci risulta dolorosa e perfino disumana. Lo diventa ancora di più nel tempo della fragilità, dell’incertezza e dell’insicurezza, spesso causate dal sopraggiungere di una qualsiasi malattia seria. Il tempo dell’anzianità e della malattia è spesso vissuto nella solitudine e, talvolta, addirittura nell’abbandono. […] La condizione dei malati invita tutti a frenare i ritmi esasperati in cui siamo immersi e a ritrovare noi stessi. In questo cambiamento d’epoca che viviamo, specialmente noi cristiani siamo chiamati ad adottare lo sguardo compassionevole di Gesù. Prendiamoci cura di chi soffre ed è solo, magari emarginato e scartato».
Dopo la consegna del dono dell’associazione da parte del presidente Iole Luppino (un cero per la piccola cappella della struttura), i volontari hanno recitato il Santo Rosario condotto dal parroco don Marco. Con la consueta disponibilità e sensibilità, il coro parrocchiale “Cosma Passalacqua”, guidato dal Maestro Angela Luppino, ha aderito all’iniziativa accompagnando le preghiere con l’esecuzione di canti religiosi. Molto intensa ed emozionante la partecipazione attiva di alcuni anziani, tra i quali non c’era purtroppo la signora Rosa, deceduta qualche giorno prima ed alla quale la Giornata è stata dedicata.
Presso la chiesa di Sant’Ambrogio, don Marco ha infine celebrato la Santa Messa in onore dei volontari dell’Agape che continuano a vivere nel ricordo di tutti: Adelina, Anna, Marco, Antonella, Sarina.

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Dietro la curva

La notte che te ne sei andato, ti ho sognato. Eri con uno dei tuoi amici più cari: alcuni mesi fa vi avevo visti insieme: non guidavi più da molto tempo ormai, e lui ti portava in giro con la macchina. Per distrarti, o soltanto per starti vicino: senza il bisogno di tante parole, con il gesto silenzioso che è il dono dei veri amici. Allora pensai a quanto amore, a quanta attenzione, a quanta delicatezza contenga il sentimento dell’amicizia. Capace di bastarsi e di brillare nel buio più nero.
Nel sogno giocavate a biliardo nella sala dell’ex cinema, cosa che credo non abbiate mai fatto. Mi sei passato davanti e a me, che ti guardavo stupito, la tua amata sorella Sara ha detto: «Lo vedi, ora sta bene». Al risveglio, ho appreso la triste notizia.
Una coincidenza. Una coincidenza come quella che ti vede raggiungere, dopo appena due settimane, un altro tuo grande amico. Due coincidenze che però fanno riflettere sulla bellezza di questo sentimento. Avevi molti amici perché sapevi farti volere bene, perché nella compagnia avevi la battuta pronta, perché la tua presenza in questi troppo pochi anni è stata discreta ma sostanziale. Io stesso ho avuto modo di sperimentarlo, quando ti sei fatto fermare davanti al bar per salutarmi, alla fine di una mia spiacevole esperienza. Non potevi scendere dall’auto, non ce la facevi già: eppure, dal tuo calvario hai pensato a me. Avevi sofferto per me e ora eri felice per me.
Hai abbracciato la Croce e l’hai portata sulla cima del Golgota, con coraggio e dignità. Senza cedimenti. L’ha abbracciata con te tua moglie Maria, infaticabile: una lottatrice dal volto gentile anche mentre il mondo le stava crollando addosso, che ha dato a tutti noi una lezione su come si possano affrontare le tempeste della vita senza perdere la tenerezza. Senza lasciarsi andare allo sconforto; senza commiserarsi. L’ha abbracciata con te Rita. I suoi occhi grandi e neri non avrebbero dovuto assorbire tutta questa sofferenza: «C’era tutto un programma futuro/ che non abbiamo avverato». Chissà. Noi, stretti dalle corde dei nostri limiti umani, non possiamo decifrare gli imperscrutabili disegni di Dio. Cosa la sua matita ha disegnato e quale sia l’interpretazione degli schizzi sul foglio.
Sappiamo però che il dolore di questi anni ha avuto il suo luminoso contraltare in un amore altrettanto grande. Quello che ha tenuto avvinghiati in un unico abbraccio te, Maria e Rita. E con voi i vostri familiari: un battito solo, le ali spiegate al di sopra delle angosce quotidiane.
Ha scritto un Poeta: «La morte è la curva della strada, morire è solo non essere visto. Se ascolto, sento i tuoi passi esistere come io esisto».
La tua vita è volata via in fretta, ma ora tu sei lì, dietro la curva della strada. Chi ti ha voluto bene sentirà ancora i tuoi passi. La vita, nei momenti decisivi, sgrossa del superfluo e riduce all’essenziale. A ciò che conta veramente: l’amore di chi ci lascia, l’amore di chi resta.
Fai buon viaggio, Cosimo

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Sulla proposta di intitolazione di una piazza al dottore Giuseppe Chirico

Leggo con piacere che ieri l’Associazione culturale “Aspromonte”, per iniziativa del presidente Massimiliano Rositano, ha protocollato al comune la richiesta di intitolare una piazza di Sant’Eufemia al medico condotto Giuseppe Chirico, per tutti “Don Pepè”: nello specifico, la piazza attualmente dedicata a don Giovanni Minzoni nel rione Paese Vecchio.
Come sa bene chi segue “Messaggi nella bottiglia”, più volte io stesso ho avanzato la proposta di omaggiare la memoria di questo nostro illustre concittadino. Della valorizzazione della figura professionale e umana del dottore Chirico mi sono occupato per la prima volta nel 2001, come autore del testo per il documentario biografico realizzato dalla Pro Loco, in occasione dell’assegnazione (“alla memoria”) del “Premio Solidarietà – Ginestra”. In qualità di consigliere comunale di minoranza, il 16 ottobre 2017 ho proposto l’istituzione di una commissione toponomastica, per la quale con delibera C.C. 42/2017 del 27 novembre 2017 è stato approvato il regolamento. Il 27 giugno 2018 ho poi protocollato la proposta di intitolazione della pineta comunale a Giuseppe Chirico (con allegata la relazione richiesta ai sensi dell’art. 9, comma 3).
Nel mio ultimo libro ho dedicato un paragrafo alla biografia di Giuseppe Chirico, che considero tra i migliori figli di Sant’Eufemia, mentre in ultimo, il 24 agosto 2023, ho indirizzato all’attuale sindaco Pietro Violi una lettera aperta, nella quale riprendevo la mia vecchia proposta e allargavo il ventaglio delle possibilità aggiungendo alla pineta comunale altri due spazi pubblici: la piazzetta accanto al monumento dei caduti, attualmente priva di denominazione, oppure – ipotesi molto suggestiva – uno dei due lati in cui corso Umberto I divide piazza don Minzoni, laddove si svolgevano le passeggiate serali del dottore Chirico, rievocate dal professore Giuseppe Calarco proprio nel documentario realizzato dalla Pro Loco.
Personalmente concordo con la posizione della Deputazione di Storia Patria per la Calabria, che è contraria alla sostituzione dei nomi di piazze e vie, per cui propenderei per l’ultima opzione, che non comporterebbe la cancellazione del vecchio toponimo.
Va anche detto che, nel 2002, al dottore Chirico era stato intitolato il Centro semiresidenziale di riabilitazione di Sant’Eufemia d’Aspromonte, che ha chiuso i battenti nel 2016. Tuttavia, negli stessi locali dovrebbe prossimamente sorgere una casa di comunità, da realizzare con i fondi del Pnrr assegnati alla provincia di Reggio Calabria. Al momento non sappiamo cosa ne sarà della denominazione: se cioè sarà mantenuto anche dalla nuova struttura. Ad ogni modo, tutte le alternative elencate mi sembrano valide e meritevoli di essere sottoposte all’attenzione dei nostri amministratori.

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