Il pescatore di De André

La giornata volge al termine, un sole pallido sta per intascarsi dietro la linea dell’orizzonte. Un vecchio pescatore approfitta del tepore serale per riposare le stanche membra. La sabbia della spiaggia non scotta più. I suoi occhi si chiudono come in una tregua dalla fatica di vivere, sul viso solcato da rughe profonde. Una in particolare sembra esprimere serenità, “come una specie di sorriso”. Ricorda i vecchi mummioni di D’Arrigo, legni secchi e impregnati di salsedine che leggono il tempo e detestano lo scirocco, vento subdolo e cascittone.
A violare la pace del tramonto, irrompe sulla scena un assassino, arrivato da chissà dove. Non è dato sapere cosa esattamente gli sia successo. Sappiamo però che è un uomo in fuga, con due occhi grandi da bambino. Un indizio che rimanda ad una condizione di innocenza. I bambini sono innocenti. Occhi grandi di paura, spaventati dall’enormità commessa, forse per necessità, o dalle conseguenze che l’azione delittuosa potrebbe comportare. Un delitto è un delitto, ma Fabrizio De André non si erge mai a giudice: «al vostro posto non ci so stare», dirà anni dopo il detenuto di “Nella mia ora di libertà”, rivolto a uomini e donne di tribunale.
Sulla spiaggia ora ci sono soltanto due uomini. Un vecchio pescatore e un assassino affamato e assetato. L’assassino chiede da bere e da mangiare, il pescatore apre appena gli occhi e “senza neppure guardarsi intorno”, versa da bere e spezza il pane “per chi diceva ho sete, ho fame”. Non importa cosa l’assassino avesse fatto prima: ora, al cospetto del pescatore, c’è un uomo bisognoso d’aiuto.
“Il pescatore” è una parabola laica. I riferimenti evangelici sono evidenti: siate pescatori di anime, dice Cristo agli apostoli, molti dei quali erano effettivamente pescatori. E il pescatore ha molto del Gesù che scrive distrattamente per terra, mentre la giustizia umana vorrebbe lapidare la Maddalena, prima delle fatidiche parole: «Chi di voi è senza peccato, scagli la prima pietra». D’altronde il brano esce nel 1970, poco prima dell’album “La buona novella”, esito artistico di un intenso studio dei Vangeli apocrifi.
Il conforto dura un momento, poi l’assassino riprende il suo cammino verso il vento (la libertà), la mente affollata da ricordi dolorosi e dalla nostalgia per l’infanzia, quando ancora la felicità era a portata di mano: «il rimpianto di un aprile giocato all’ombra di un cortile».
Ma c’è anche una chiave di lettura politica. L’insofferenza dell’anarchico De André nei confronti del potere costituito, dell’autorità con e senza divisa: «non esistono poteri buoni», sarà la conclusione del protagonista di “Nella mia ora di libertà”.
Se di fronte all’uomo in fuga il pescatore esce dal suo torpore, altrettanto non accade quando due gendarmi trafelati gli chiedono se da lì fosse passato un assassino. Il pescatore finge infatti di dormire e non dà alcuna risposta; i gendarmi proseguiranno invano l’inseguimento, imboccando probabilmente la direzione sbagliata.
Un atto rivoluzionario, come fu la vita di Gesù di Nazareth (“è stato ed è rimasto il più grande rivoluzionario di tutti i tempi”, dirà il cantautore introducendo “La buona novella”), che trasforma “un” pescatore ne “il” pescatore della strofa finale, archetipo universale di una visione scandalosa della giustizia, capace finalmente di inverarsi in carità e pietà.

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Buon 2025

Erri De Luca ricorda che – secondo un vecchio proverbio – tre anni dura una siepe, tre siepi un cane, tre cani un cavallo, tre cavalli un uomo. Nelle sue tre fasi, l’andatura della vita umana ricalca il ritmo del cavallo: al galoppo nella gioventù, al trotto in età adulta, al passo quando gli anni cominciano a pesare. «Ma il tempo, il tempo chi me lo rende?», si chiede Francesco Guccini nell’intimo brano “Lettera”.
Senza il tempo non ci sarebbe la vita, costretti come siamo tra un inizio e una fine. Ed è inevitabile – ogni volta che la punta della biro punge il foglio – riflettere sugli anni che passano, con il loro carico di nostalgia. Con assenze che diventano buchi neri nei quali si rischia di affogare, quando sulle sedie vuote lampeggia il conto alla rovescia di una ricorrenza. Chiedersi se sia andata come avremmo desiderato, o se piuttosto il punto sia una liberazione, da trasformare in un trampolino dal quale saltare in groppa al futuro.
Chiunque commette errori, ha rimpianti, riscriverebbe qualche pagina scarabocchiata male. Ma viviamo nel presente e, ogni volta, è sempre una novità. Siamo ciò che siamo in una determinata circostanza, non le inutili ruminazioni del senno di poi.
Non ha senso la camicia di Nesso di ciò che poteva essere e non è stato. Vivere “bene” presuppone una buona dosa di accettazione, che non è rassegnazione, bensì la consapevolezza che l’esperienza è un’invenzione del giorno dopo.
Bisognerebbe abbandonarsi al mistero del viaggio, ai suoi incontri e alle sue emozioni. Gustare il bicchiere mezzo pieno, non recriminare sulla metà vuota. Riscoprire il fascino della lentezza per riuscire ad apprezzare il paesaggio, ascoltare il vento, avvertire colori e odori di un’avventura comunque affascinante. Farne post-it da attaccare all’anima, come gli attimi collezionati da Heinrich Böll.
“Richiamare in cuore” è l’etimologia della parola ricordo, che procede a passo lento, ma deciso, per contrastare l’oblio che incombe sul frenetico usa e getta di giornate uguali. Un viaggio, anche questo, che richiede occhi indomabili.
E allora buon anno a chi ha un motivo per non arrendersi e a chi, pur non intravedendolo tra i nuvoloni gravidi di pioggia, non smette mai di cercarlo.

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Il Natale di solidarietà dell’Agape

Si è concluso con la tradizionale tombolata il ciclo di iniziative del “Natale di solidarietà dell’Agape”. La serata è stata anche l’occasione per fare una sorta di consuntivo delle attività svolte nel corso dell’anno, grazie soprattutto – giova ribadirlo – al contributo e al credito che la comunità accorda oramai da più di trent’anni all’associazione. Affetto, generosità e fiducia spiegano ciò che l’Agape è riuscita a costruire nel tempo, con l’impegno dei suoi volontari e con il supporto morale ed economico dei cittadini comuni, degli esercenti e delle istituzioni. Altra parola chiave è “sinergia”, la collaborazione cioè con associazioni e realtà impegnate nel sociale. Il “Natale di solidarietà” ne è stata concreta prova in tutte le sue fasi. A partire dalla consegna dei doni natalizi ai partecipanti alla colonia estiva, che si è svolta nel teatro della Scuola dell’infanzia paritaria “Padre Annibale Maria di Francia”. Una serata all’insegna del divertimento, con canti, balli e l’apparizione di Babbo Natale.
A seguire, la visita agli ospiti della residenza sanitaria per anziani “Prof. Mons. Antonino Messina” in collaborazione con il Coro polifonico “Cosma Passalacqua”, che ha eseguito brani natalizi, mentre i volontari dell’associazione presieduta da Iole Luppino hanno recitato alcune poesie sul Natale. E sempre il coro parrocchiale, in occasione del concerto di Natale in vernacolo “A bona novella”, ha voluto dimostrare la propria vicinanza all’Agape destinandole il ricavo di una riffa.
Ancora, la sorpresa organizzata per un bambino che nella letterina a Babbo Natale aveva confessato di non avere mai ricevuto regali: «Ti prego, vieni a casa mia con gli elfi e portami i Lego, tanti vestiti, caramelle, quaderni, penne colorate». Desiderio che è stato possibile esaudire grazie alla disponibilità dei “Ragazzi di quartiere”, con i quali è stato preparato l’incontro presso il teatro della “Annibale Maria di Francia”.
La tombolata chiude un anno difficile per diversi volontari, colpiti negli ultimi dodici mesi da pesanti lutti familiari. Ad Adelina Luppino, che manca dal 2007 e che oggi avrebbe compiuto sessant’anni (non a caso la tombolata cade intorno a tale data), si sono aggiunte nel 2024 persone molto care all’Agape: «Ci siamo lasciati lo scorso anno – si leggeva nel video proiettato nel montaggio di fotografie proiettato all’inizio della serata – così numerosi, pieni di buoni propositi e speranze per l’anno che sarebbe da lì a poco arrivato. Abbiamo stilato programmi nuovi e fatto viaggi interessanti, ma abbiamo anche pianto per aver perso persone a noi tanto care. Il ricordo della loro preziosa amicizia difficilmente svanirà ma soprattutto di un sorriso in particolare non ci dimenticheremo». Sullo sfondo, il sorriso del piccolo Giuseppe. Ci piace pensare che lui e gli altri amici venuti a mancare siano stati, ieri sera, felici insieme a noi. Come un tempo.

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La panchina di Vincenzo

Ho perso un amico. Può apparire insolito adoperare un termine, già di per sé impegnativo al giorno d’oggi, in riferimento al rapporto istauratosi tra due uomini anagraficamente così distanti. Eppure gli ottantacinque anni di Vincenzo Martino non sono stati di ostacolo alla bella amicizia che c’è stata tra noi. Merito suo, uomo d’altri tempi capace di misurarsi con questi tempi senza recedere un centimetro dalle sue salde convinzioni, dal valore irrinunciabile del rispetto e dalla sacralità della parola data. Un uomo austero, intransigente, essenziale come le frasi non sprecate, mai fuori luogo. Ho avuto il privilegio di apprezzarne la coerenza e il rigore morale grazie ad una frequentazione diventata via via assidua. Quotidiana come il caffè consumato al bar ogni mattina, o seduti sulla panchina sotto casa sua: un piacevole pretesto per vedersi, per stare un po’ insieme e per confrontarsi su ciò che leggevamo sui giornali, ascoltavamo in televisione, vedevamo accadere in paese. Dal globale al locale, il suo punto di vista mi interessava; la stessa cosa valeva per lui.
Quando poi il passato prendeva il sopravvento, i suoi racconti mi portavano in un mondo che non ho conosciuto ma che ho potuto rivivere attraverso i suoi occhi. Ho ascoltato con riverenza i suoi ricordi degli anni Quaranta e Cinquanta del secolo scorso, la dura vita dei contadini, il sudore e il sangue di esistenze che hanno regalato a chi è venuto dopo un orizzonte diverso. Il lavoro nei campi con il padre («Lui sì che era un comunista vero. Oggi non ce ne sono più; neanche io lo sono»), a zappare la terra o a “rampare” gli uliveti. Il paese attraversato zappa in spalla di buon mattino, a volte inutilmente se il maltempo costringeva la squadra dei braccianti a fare ritorno a casa, a mani vuote dopo un paio d’ore di cammino all’andata e altrettante al ritorno. I muri tirati su a Gambarie, dove ci eravamo riproposti un giorno di andare, affinché io vedessi. Le stagioni alla guida dell’Ape per portare nei mercati i prodotti dei contadini delle nostre campagne. Gli anni da operaio delle Ferrovie, inizialmente sulla ionica, poi a Gioia Tauro.
Alla propria famiglia ha donato tutto sé stesso, dai figli e dai nipoti ha ricevuto amore smisurato, attenzione e cura.
Comunista tutto d’un pezzo, la sua più grande passione è stata la politica intesa come appartenenza («Al Partito volevo bene come a mio padre»), lotta contro le ingiustizie sociali e per il riscatto degli ultimi. Il voto come diritto, ma soprattutto dovere («Non votare, per me, sarebbe come per un credente non entrare in chiesa. Lo farò finché avrò la forza di respirare»), da assolvere il prima possibile, magari aspettando all’ingresso della sezione l’arrivo dei componenti del seggio elettorale.
Fu al mio fianco quando fui candidato a sindaco. Ci mise cuore ed impegno senza risparmiarsi, con coraggio e lealtà perché ci credeva. E questo è stato per me il più bel regalo. Abbiamo parlato molto negli ultimi anni: delle sue parole spero di fare tesoro, ora che mi mancheranno.

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Nel nome di Sant’Ambrogio

Un lungo filo rosso tiene insieme solidarietà e memoria, facendo rivivere una storia lontana ma viva, una prova di umanità che da oltre un secolo lega Sant’Eufemia a Milano e al culto di Sant’Ambrogio.
Il terremoto del 28 dicembre 1908 distrusse l’intero paese. Il numero delle vittime non è mai stato accertato con esattezza: l’elenco stilato dall’arciprete Luigi Bagnato si ferma a 530 vittime, che diventano circa 700 per la giunta comunale del tempo; ma secondo altre fonti, i morti potrebbero essere stati molti di più, superiori al migliaio. Duemila i feriti, una percentuale di patrimonio edilizio perduto pari all’85%.
Nella testimonianza del medico eufemiese Bruno Gioffrè il primo ad arrivare a Sant’Eufemia fu il vescovo di Mileto, Giuseppe Morabito: «Solo il primo gennaio del 1909, Capodanno tristissimo, si vide la prima faccia umana, e fu il Vescovo della Diocesi, Monsignor Morabito, con un carro di viveri e con parole di soave conforto».
Il giorno dopo giunsero i volontari del Comitato Lombardo di Soccorso. L’ingegnere Antonio Pellegrini, che redasse la relazione sul lavoro svolto dal comitato, illustrò la divisione dei compiti tra medici, ingegneri e semplici volontari: «Ingegneri e muratori alle demolizioni, all’estrazione dei cadaveri, al recupero di masserizie; medici, volontari, infermieri alla ricerca dei feriti e degli ammalati, alle medicazioni, alla disinfezione dei cadaveri. Né solo questo fu l’aiuto primo portato agli eufemiesi; la povera popolazione, affamata e lacera, ebbe in quantità pane, galletta, carne, pasta, biancheria, coperte, abiti».
Nei terreni della Pezza Grande, sui quali inizialmente erano state sistemate le tende della Croce Rossa, furono costruite tre strade lunghe 140 metri e larghe 10. Enorme fu anche il contributo della Croce Verde, la quale – oltre alle numerose casse di medicazione, medicinali, tende e coperte – aveva inviato sui luoghi del disastro l’Automobile Ospedale “Pompeo Confalonieri”: «Centro dell’ambulatorio – si legge in una relazione del tempo – era l’automobile ospedale, che con i suoi fianchi aperti e colle larghe tende, riparava i malati più gravi, ricoverava le donne ferite per le medicazioni; e sembrava dimostrare che la fraternità di Milano era venuta grande e premurosa ad allargare le sue braccia in sollievo degli sventurati».
Nel mese di marzo fu inaugurato l’ospedale “Milano”. Al completamento dei lavori, il nuovissimo rione “Città di Milano” contava 759 baracche, capaci di ospitare 2.000 sfollati. Il comitato lombardo di soccorso costruì inoltre l’acquedotto, tre fontane pubbliche, un lavatoio coperto e una piccola chiesa (6 metri per 16), al cui interno fu collocata la statua di Sant’Ambrogio, patrono di Milano, donata alla comunità eufemiese dall’allora cardinale meneghino, Andrea Carlo Ferrari.
Il 9 marzo, dopo avere ricevuto il parere favorevole dell’amministrazione comunale milanese guidata dal senatore Ettore Ponti, il commissario prefettizio Consalvo Cappelli deliberò che la bandiera della Città di Milano, Croce Rossa in campo bianco, fosse da quel giorno la bandiera del Comune di Sant’Eufemia.
Il vincolo di solidarietà e di amicizia che lega Milano e Sant’Eufemia è stato per quasi quattro decenni rinvigorito dall’attività dell’Associazione culturale “Sant’Ambrogio”, costituita nel dicembre del 1975 e promotrice sul finire degli anni Settanta del gemellaggio tra le due città. Più volte una sua delegazione ha partecipato come “ospite d’onore” alle celebrazioni ambrosiane che si tengono a Milano presso la Basilica di Sant’Ambrogio. Nell’edizione del 2001, il presidente Vincenzino Fedele ritirò, a nome dell’associazione, il prestigioso “Ambrogino d’Oro”.

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Tutto è bene quel che finisce bene

Sant’Eufemia è tornata al suo posto. Nei giorni scorsi avevo dato la spiacevole notizia della scomparsa della statuetta di Sant’Eufemia che da tre anni si trova nella chiesa di Ognissanti a Londra. Con la statua, erano anche scomparsi il piccolo altare, le piante e i fiori: un trafugamento inspiegabile, ma anche misterioso per le sue modalità.
Ad aggiungere mistero al mistero, è di oggi la bella notizia che altare, statuetta, piante e fiori sono nuovamente al centro di una delle finestre della All Saints Church New Cross.
Può darsi che chi ha commesso il furto sacrilego si sia in un secondo momento ravveduto. Chissà, forse come nel Canto di Natale di Dickens, l’avvicinarsi del Natale ha aperto il cuore del novello Scrooge.
Oppure che abbia ragione Padre Grant, il quale ha così commentato la scoperta fatta una volta entrato in chiesa: «Forse qualcuno ha avuto bisogno di averla accanto per qualche giorno, per trovare conforto nella sua presenza. Il suo ritorno è un invito a non perdere mai la speranza sulla natura generalmente benigna dell’essere umano».

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Rubata a Londra la statuetta di Sant’Eufemia

Del piccolo altare è rimasta solo l’ombra sul muro, come i segni lasciati sulle pareti del castello Voltaire dai mobili che non ci sono più, nel celebre romanzo Atlante occidentale di Daniele Del Giudice.
Accostato di lato, anche il pannello illustrativo che racconta la storia di Sant’Eufemia infonde mestizia. Spariti anche i fiori e le piante. Sparita, ovviamente, soprattutto lei, la statuetta della patrona che tre anni fa con mio fratello Mario avevamo deciso di fare arrivare a Londra (Sant’Eufemia a Londra) e che era stata collocata al centro di una delle finestre della All Saints Church New Cross, la chiesa di Ognissanti in stile neogotico distante una trentina di minuti da Trafalgar Square.
Grande accoglienza allora, sintetizzabile nelle parole di una parrocchiana della multietnica comunità di New Cross: «È bellissima, ha l’aspetto di una che ascolta. Le porterò dei fiori: tutti meritiamo di essere ascoltati».
E grande amarezza oggi, che il giovane parroco Padre Grant non ha nascosto nel momento in cui ha dovuto comunicare l’accaduto: «Purtroppo questo è il mondo in cui viviamo, dove una cosa del genere diventa accettabile, perché non sorprende».
In effetti, i tempi questi sono… Ma ci riproveremo.

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L’intima gioia

In un celebre esperimento del 1971, lo psicologo Philip Zimbardo e un team di ricercatori ricrearono nei sotterranei dell’Università di Stanford (California) le condizioni di una prigione. Tra 70 studenti furono selezionati 24 volontari, valutati idonei dopo essere stati sottoposti a diversi test della personalità, i quali furono divisi casualmente in due gruppi da dodici: metà guardie e metà detenuti. L’esperimento, che doveva durare due settimane, fu interrotto dopo sei giorni, in conseguenza dei ripetuti ed eccessivi episodi di sadismo e di violenza delle guardie nei confronti dei detenuti.
L’ esperimento carcerario di Stanford aveva lo scopo di comprendere cosa spinge persone buone a diventare cattive in situazioni specifiche: «Il male – scrisse Zimbardo nel libro L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa? – è l’esercizio del potere di nuocere intenzionalmente (psicologicamente), di procurare dolore (fisicamente), o distruggere (mortalmente o spiritualmente) altri. Solo poche persone sono in grado di resistere alla tentazione di cedere al potere e al dominio».
Fatti di cronaca più o meno recenti sembrano confermare questa tesi. Da ultimo, gli abusi e le violenze emerse nell’indagine che a Trapani ha portato all’arresto di undici poliziotti penitenziari e alla sospensione dal servizio di altri quattordici.
Il clima politico e culturale, d’altronde, alimenta gli istinti più bassi nell’approccio alle tematiche dell’esecuzione della pena e, più in generale, alle problematiche carcerarie. Indignarsi per le condizioni disumane delle carceri italiane, per il loro sovraffollamento, per gli 81 suicidi da gennaio ad oggi, è impopolare e non porta voti. Ha più appeal la logica securitaria del “buttare le chiavi” e l’idea che fare soffrire chi finisce in carcere, in fondo, è del tutto naturale. Se la sono cercata. E pazienza se il detenuto sta già scontando il reato commesso con la privazione della libertà: l’ulteriore e gratuita afflizione dell’offesa alla dignità umana non desta scandalo.
Il sottosegretario alla Giustizia Andrea Del Mastro Delle Vedove, evidentemente, è dello stesso avviso: «L’idea – ha dichiarato in occasione della presentazione della nuova auto per il trasporto dei detenuti – di vedere […] come noi non lasciamo respirare chi sta dietro quel vetro oscurato, è sicuramente per il sottoscritto un’intima gioia». Poiché qualcuno gli ha fatto notare la bestialità dell’affermazione, si è corretto precisando che si riferiva ai detenuti mafiosi.
Il sottosegretario, che pure dovrebbe esserne a conoscenza, non sa o fa finta di non sapere che nelle carceri italiane ci sono migliaia e migliaia di “presunti” mafiosi che in realtà non lo sono, come spesso viene certificato dalle archiviazioni e dalle assoluzioni successive all’arresto. Innocenti che soltanto in virtù dello stigma del 416 bis subiscono umiliazioni quotidiane, che nelle “traduzioni” sono costretti a tenere le manette, fino a provocarsi profondi solchi sui polsi al termine di un viaggio di centinaia di chilometri, in furgoni-fornaci nei quali sono tenuti chiusi i bocchettoni dell’aria climatizzata nel vano posteriore, quello riservato ai detenuti. Che vengono fatti scendere nei piazzali delle aree di servizio e accompagnati in bagno come asini alla cavezza. Che si ritrovano in celle di sosta dall’aria irrespirabile per l’umidità, tra cartacce sporche di escrementi.
Il problema, in realtà e purtroppo per Del Mastro e per quelli che la pensano come lui, è più complesso. L’umanità è un valore universale e prescinde dalla dicotomia innocente/colpevole. Per molti il ragionamento è complicato, ma secoli di cultura giuridica – compendiati nell’articolo 27 della Costituzione italiana (“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”) – affermano proprio questo.
La grandezza di una democrazia e dei suoi rappresentanti è tutta qua. La miseria di certe dichiarazioni, anche.

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I cioccolatini della ricerca Airc 2024

Anche quest’anno l’Associazione di volontariato cristiano “Agape” di Sant’Eufemia sarà al fianco dell’Airc, che torna in 2.000 piazze per distribuire le colorate confezioni da 200 grammi di cioccolato fondente Venchi.
Nel 2023 sono state registrate in Italia 395.000 nuove diagnosi di tumore (208.000 tra gli uomini e 187.000 tra le donne), più di mille al giorno. I progressi nella ricerca rendono però più efficaci le cure e prevengono le recidive: tra il 2010 e il 2020 sono infatti aumentate del 54% le persone vive a dieci anni di distanza dalla diagnosi.
Con l’acquisto dei cioccolatini della ricerca offriamo un contributo concreto al lavoro di circa 6.000 ricercatori Airc, per rendere il cancro sempre più curabile.
Vi aspettiamo in piazza Matteotti, domenica 10 novembre, a partire dalle ore 9:00.

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4 novembre

La ricerca sugli eufemiesi che parteciparono alla Prima guerra mondiale, durata quasi quattro anni, si rivelò molto impegnativa, perché mai come allora il foglio da riempire si presentava bianco. Scrivere la biografia di ogni singolo soldato è operazione molto complessa, realizzabile soltanto incrociando i dati forniti da diverse fonti. Le informazioni sui circa 600 militari di Sant’Eufemia d’Aspromonte che parteciparono al conflitto si trovano infatti sparse tra le pagine di 257 volumi di ruoli matricolari della provincia di Reggio Calabria, da sfogliare una ad una, così come le schede contenute nei 67 cassetti dell’Ufficio notizie. Ma le difficoltà sono anche altre, ad esempio riuscire a seguire gli spostamenti delle compagnie sul fronte di guerra o individuare i paesi e le frazioni dove venivano allestiti gli ospedali da campo, la cui numerazione varia costantemente.
La ragione dello studio pubblicato nel libro Sant’Eufemia d’Aspromonte e la Grande Guerra (Il Rifugio editore, 2018) si può riassumere nella volontà di andare oltre i freddi numeri. Mi interessava ribadire la funzione etica della parola scritta in quanto atto di giustizia nei confronti degli ultimi, dei dimenticati, di coloro che attraversano la storia senza lasciare alcuna traccia. Per questo avevo bisogno di tutti quei giovani, non soltanto degli ottantotto ai quali era già stata riservata qualche riga nell’Albo d’Oro dei caduti.
Non si può comprendere il significato di quella tragedia se non si entra nei camminamenti insieme a chi li percorse allora, senza patire insieme ai fanti il gelo dell’inverno sul Carso, la fame, le condizioni igieniche aberranti delle trincee. Dei circa seicentocinquantamila caduti italiani, centomila morirono per malattia: febbri, bronchiti, polmoniti, infezioni, colera, tubercolosi, tifo, malaria, meningite, “spagnola”. A quella sofferenza volevo dare un nome e un volto, in modo da percepirla ancora viva, più vicina a chi la legge tradotta in una cifra: ventuno, il numero degli eufemiesi morti per malattia.
Ho così visto i piedi congelati di Antonino Carlo sull’Asiago e di Francesco Villari sul Pasubio, e sono stato accanto ai 130 feriti e ai 72 prigionieri nei campi di prigionia austro-ungarici e tedeschi, dove le condizioni di vita erano durissime. Giovani ammassati in baracche prive di qualsiasi forma di riscaldamento, con a disposizione una razione di cibo (una minestra con poche foglie di rapa, una patata, pochi grammi di pane) inferiore a 1.000 calorie giornaliere. La denutrizione e la scarsissima igiene provocavano l’insorgere di epidemie, il dilagare della dissenteria e uno stato di deperimento che in breve tempo portava molti prigionieri alla morte: tra questi e insieme ad altri cinque eufemiesi, Domenico Ceravolo, stroncato da un’enterite nel campo di prigionia di Milowitz, in Boemia.
I versi di “San Martino del Carso” ci toccano più nel profondo se scopriamo che, tra i morti asfissiati in seguito all’attacco chimico austriaco sul monte reso immortale dai versi di Giuseppe Ungaretti, cinque erano nostri nonni o bisnonni.
Ma mi interessava anche scoprire l’umanità che mai capitola, nemmeno tra le atrocità e l’abiezione della guerra. L’eroismo del diciottenne Antonino Tripodi, che trae in salvo cinque civili travolti dall’inondazione provocata da una piena dell’Isonzo, le commoventi cartoline di Giovanni Siviglia e Antonino Sofo, la lettera che Antonia invia al marito Giuseppe Luppino insieme ad una ciocca di capelli castani, la punizione assurda di Bruno Cammarere, reo di avere dato di nascosto del vino a un prigioniero austriaco.
Tra i soldati eufemiesi morti nella Prima guerra mondiale, undici risultano dispersi. Di loro non fu mai trovato il corpo, nessun fiore fu posato sulle loro tombe. La ricostruzione della loro tragica vicenda militare è una forma di risarcimento postumo, un modo per considerarli meno dispersi.

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