Ciao, Pino

È proprio vero che la morte ci sorprende alle spalle. Non si è mai pronti. Inevitabilmente, poi, si associano volti cari ad esperienze condivise, a momenti vissuti insieme che sono stati più o meno felici. Si raccolgono i ricordi propri e quelli altrui, come per rubare un po’ di tempo a ciò che non ha più tempo, che non è tempo; per prolungare una vita che non è più vita, strappata a un saluto non scambiato nell’ultimo incontro.
Chi ci pensava. Chi poteva saperlo che quello sarebbe stato il nostro addio.
Pino, te ne sei andato in silenzio e scoprirlo è stata una deflagrazione. Da ieri si parla e si scrive di te, scavando nei ricordi sigillati dal sipario del tuo sorriso e dalle tue parole, che erano sentenze perché i principi nei quali credevi non erano per te barattabili. Perché essere idealista non può essere un demerito.
Si poteva essere d’accordo o in disaccordo con te, ma non si potevano mettere in dubbio, mai, la tua genuinità e la tua libertà di pensiero. Non dovevi niente a nessuno e da nessuno hai mai preteso niente. La tua forza, che qualcuno ha potuto equivocare considerandola scontrosità caratteriale, era tutta qua. È stata questa forza a consentirti di non essere etichettabile, di non sentirti vincolato al pensiero e alle azioni di nessuno, di poterti allontanare e di allontanare a tua volta senza traumi, di non trovarti nell’imbarazzante situazione di dovere rinunciare ai tuoi ideali, che sono stati la tua unica bussola: uguaglianza, giustizia sociale, attenzione per i più deboli.
Per me sei stato tante cose. Da bambino, sei stato il dio del calcio. Non ho potuto ammirarti sul rettangolo di gioco nei tuoi anni migliori, ma la leggenda sulle prodezze di Pino Pangallo l’ho ascoltata. Alcuni sostengono che sei stato il calciatore eufemiese più bravo di tutti. Ho fatto in tempo a giocare una sola volta con te, in una partita estiva tra una selezione locale e una di “oriundi”. Neanche a dirlo, per la nostra squadra segnasti tu, di gran lunga il più vecchio della squadra.
Ti vedevo però sempre nel “Bar Mario”, buon giocatore di biliardo (quante partite a goriziana abbiamo fatto nell’ultimo periodo di attività del circolo?) e presenza costante in quel microcosmo che ha innaffiato le mie amicizie più belle, facendole sopravvivere alla sua chiusura. Rapporti di affetto che sono state stampelle importanti per me e per la mia famiglia quando il mare si è gonfiato travolgendo tutto. Tu ci sei stato anche allora, con la tua amabile discrezione.
Negli anni, ci siamo spesso confrontati sulle questioni che più avevamo a cuore e che ruotavano attorno alla politica intesa come servizio, al tuo impegno nel sindacato, al particolare momento storico a livello nazionale, internazionale e locale. Grazie a questo dialogo, da te ho ricevuto uno tra i più belli attestati di stima quando fui candidato a sindaco nel 2017. Con la tua consueta sincerità mi dicesti che, se io lo avessi desiderato, ti saresti candidato nella mia lista, pur precisando che non disponevi di molti voti. Le dinamiche del voto, nei piccoli paesi, mi sono sempre state note. Così come mi era noto che tu, soggettivamente e oggettivamente, eri ciò che di più lontano da quelle logiche poteva esistere. Accettai, perché – come te – penso che alcuni valori vanno anteposti a qualsiasi ragionamento utilitaristico. E perdemmo, io per primo: ma che lezione hai dato a tutti. Di amicizia, di moralità e di lealtà.
Grazie di tutto, Pino: fai buon viaggio.

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Dona il tuo cinque per mille all’Agape

È di pochi giorni fa la comunicazione che, in virtù del cinque per mille devoluto da ventiquattro contribuenti nel 2024, all’Agape sono stati destinati 464,20 euro.
Può sembrare poca cosa, in realtà è tantissimo per chi, come la nostra associazione di volontariato, vive di donazioni e della raccolta di fondi che ogni anno viene effettuata in occasione della tombolata nel “Natale di solidarietà”.
Il prossimo mese i volontari saranno impegnati con la colonia estiva, l’iniziativa più onerosa per le casse dell’associazione: ci riempie di orgoglio riuscire a portarla a termine, da quasi trent’anni, con le nostre poche forze e con l’aiuto di una comunità capace di mostrare il suo volto generoso.
Le associazioni del territorio sono una risorsa insostituibile ed è un bene la presenza sempre più consistente di cittadini attenti alle loro esigenze, pronti a supportarle concretamente.
C’è chi si rimbocca le maniche e partecipa in prima persona alle attività proposte, ma c’è anche chi, non potendolo fare, affianca le varie realtà associative nei modi ritenuti più congeniali.
Navighiamo comunque tutti nella stessa direzione, uniti per raggiungere l’obiettivo di una società inclusiva e solidale, in grado di farsi carico dei più svariati bisogni: per fare, ciascuno, “il proprio pezzettino” e rendere così più bello il posto in cui si è scelto di vivere.
Un abbraccio virtuale ai nostri ventiquattro benefattori, con l’auspicio che molti altri possano seguirne l’esempio. Intanto: grazie, grazie, grazie.

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Questione di quorum

Da lunedì sera assistiamo al consueto balletto delle cifre e dei commenti sull’esito della consultazione referendaria. Legittimo che ognuno cerchi di tirare acqua al proprio mulino, ma va subito fatto notare che è finita come nelle precedenti volte dal 2000 ad oggi, fatta eccezione per il referendum del 2011 (acqua, nucleare, legittimo impedimento): mancato raggiungimento del quorum. E non per una percentuale infinitesimale: sette italiani su dieci hanno preferito fare altro piuttosto che recarsi al seggio.
Da destra si è subito gridato al trionfo, interpretando la scarsa affluenza come una rinnovata fiducia per Meloni e soci. Anche perché l’indicazione della coalizione al governo era stata proprio quella di disertare le urne, tranne la pattuglia di “Noi moderati” schierata per il no. Pur senza averne la controprova, con un pronostico in bilico è molto probabile che il distinguo non ci sarebbe stato. Ad ogni modo, anche il cittadino più sprovveduto è in grado di comprendere che intestarsi il 70% di astenuti è una forzatura priva di qualsiasi fondamento.
A sinistra non si è potuta nascondere la delusione. Tuttavia si è presa in mano la calcolatrice per verificare come l’affluenza sia stata superiore di quasi due milioni rispetto ai voti avuti dal centrodestra nelle ultime elezioni politiche. Ma anche in questo caso la forzatura è di facile lettura, posto che non tutti i votanti sono ascrivibili al centrosinistra: senza contare il dato deludente del quesito sulla cittadinanza, che semmai evidenzia ulteriormente quanto sia complicato fare convergere su una posizione unitaria le diverse anime dell’opposizione (Ucraina docet).
A perderci, ancora una volta, è la fiducia degli elettori. Svogliati, rassegnati di fronte ad uno spettacolo che puntualmente si ripete. E nel quale i referendum diventano armi di lotta interna, a prescindere dai contenuti. Non proprio un bel vedere, se pensiamo all’importanza di un istituto che ha rilevanza costituzionale e che invece si ritrova svilito della funzione di espressione della volontà popolare. Uno strumento che ha contribuito notevolmente alla crescita democratica dell’Italia, ridotto a parametro improbabile per valutare la configurazione di un avviso di sfratto al governo o lo stato di salute del “campo largo”.
Può darsi che l’istituto referendario abbia bisogno di un tagliando. In molti hanno sottolineato come oggi, con la possibilità di raccogliere digitalmente le firme, sia abbastanza facile raggiungere 500.000 sottoscrizioni. Ma per modificare il numero di firme necessarie (portandole a 800.000 o a un milione) occorre una legge costituzionale, così come per abbassare il quorum necessario per dichiarare valida la consultazione, che è l’altra proposta suggerita da più parti: magari abbassandolo al 40% o calcolando il 50% più uno sul dato dei votanti delle ultime politiche. Ciò per ovviare alla furbata che consente di fare saltare la validità del voto semplicemente unendo all’astensione regolare di ormai quasi metà dell’elettorato quella interessata di chi si oppone ai quesiti referendari. Un escamotage che ovviamente non può essere considerato deprecabile a seconda di chi lo applica. Così fan tutti.
Si tratta di proposte degne di attenzione, ma non va dimenticato che la ratio del quorum ha una sua nobiltà: impedire che una minoranza attiva abroghi le leggi approvate dal Parlamento, il quale rappresenta tutto il popolo italiano. Insomma, sfuggire alla logica della piattaforma Rousseau. Un complicato rompicapo per l’equilibrio dei poteri sancito dalla costituzione.
Certo è che la percentuale dei votanti ha subito negli ultimi decenni un crollo verticale, indipendentemente dal tipo di consultazione elettorale, le cui cause vanno principalmente rintracciate nel sentimento di antipolitica che investe ogni aspetto della vita pubblica.
Ci sarebbe in realtà bisogno di più politica, che è l’arte di trovare risposte efficaci ai problemi della collettività, senza arroccarsi su posizioni settarie e cercando un punto di caduta tra posizioni divergenti. L’arte del compromesso, il giusto mezzo. Vale anche per i referendum, destinati sempre a fallire se si riducono a battaglie identitarie che non riescono a coinvolgere trasversalmente il corpo elettorale, se riguardano questioni tecniche poco comprensibili dal cittadino comune, se si ha la sensazione che il fine sia principalmente quello di misurare la solidità di un governo o contrastarne l’attività cercando una convergenza estemporanea mentre si è praticamente divisi su molte altre questioni, basilari per dare un’idea convincente del perché si sta insieme.

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La “Primavera di libri” del Terzo Millennio: incontro con Domenica Morabito

Grande partecipazione di pubblico per l’esordio letterario di Domenica Morabito, eufemiese giramondo con la passione per la scrittura. Per l’edizione 2025 della “Primavera di libri”, il Terzo Millennio presieduto da Francesco Luppino ha pescato in casa e ha pescato bene. La risposta del pubblico che ha riempito la sala consiliare del palazzo municipale di Sant’Eufemia d’Aspromonte è stata molto positiva, favorita ovviamente dalla presenza di un’autrice locale, ma anche dall’attualità delle tematiche affrontate da Kaguya. La notte splendente di Noemi Falchi (Edizioni Other Souls).
Nella conversazione con Domenica Morabito sono emerse tutte. E tanto è stato l’interesse che numerosi, alla fine, sono stati gli interventi dalla platea. Non solo curiosità da soddisfare e affetto da manifestare, quanto il bisogno di porre domande e di esprimere considerazioni personali suggerite dalle pagine del romanzo.
A cominciare dall’emergenza sociale rappresentata dalla violenza di genere, il tema centrale delle vicende che vedono coinvolta Noemi Falchi, personaggio complesso e tormentato: orgoglio e inadeguatezza, rabbia e senso di colpa, donna eccessiva fino all’autodistruzione. E poi la cultura giapponese con le sue leggende archetipiche a fare da sfondo all’intreccio narrativo, in un rimbalzo spazio-temporale con Roma e le sue strade.
Bene e male, giustizia, fuga, ricerca del senso della vita: tutti gli ingredienti del cocktail preparato da Domenica Morabito sono stati gustati da spettatori attenti e partecipi, affascinati infine dalla drammatica storia del “Ninja”, la prova vivente di come un uomo, inchiodato dall’opinione pubblica al reato commesso, possa essere capace in realtà di un’umanità sorprendente.

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Parole da man-tenere

Hanno ragione Nanni Moretti e il suo alter ego Michele Apicella, in “Palombella rossa”: «Le parole sono importanti». Sono anche pietre, ricorda il titolo dello splendido reportage di Carlo Levi sulla Sicilia della prima metà degli anni Cinquanta. Per cui non è vano, ogni tanto, ribadire che andrebbero maneggiate con cura. Soprattutto quando l’aura di sacralità che dovrebbe connotarle è uno sbuffo d’aria che si perde nel chiasso. Ancor di più ora che sono assimilabili ad un prodotto usa e getta, il cui significato può essere stravolto a convenienza.
Parole sputate dalla pancia, che non passano dal cranio prima del lancio. Ballon d’essai per testare l’effetto che fa, da smentire o contraddire senza imbarazzo. Parole in libertà. Non quella, sacrosanta, di esprimere la propria opinione. Piuttosto, l’arroganza della “commentite cronica” su ogni argomento di discussione, supportata da un’ignoranza di fondo che non considera contesti, coordinate spazio-temporali, relazioni causa-effetto delle questioni affrontate, di volta in volta, con sconfortante approssimazione.
Conoscere il valore intimo delle parole introduce, invece, al campo della pedagogia. È esercizio educativo utile per la formazione di buoni cittadini. Tra i tanti, un verbo mi sembra significativo per la potenza evocativa della sua etimologia: “mantenere”, dal latino “manu tenere” (“tenere con la mano”).
Mantenere può essere opera di resistenza, come in San Paolo, il quale al termine della sua corsa e dopo avere combattuto la buona battaglia, conserva la fede. È il sostegno offerto prestando gambe e braccia a chi non riesce a muovere un passo: «Ti mantengo in piedi io». È il bambino che si addormenta con più facilità se il suo dito è al sicuro, nell’incavo della mano del genitore. È il filo sfibrato che impedisce alla corda di spezzarsi. Che regge nonostante la fatica.
Mantenere una promessa richiede rispetto per sé e per l’altro, la parola acquista la sacralità di una reliquia. Nel mantenere la dignità la mano si stringe a pugno, in difesa del bene più prezioso che ci è dato possedere. Per mantenere in vita una speranza la mano sospinge il sogno mezzo metro in avanti, come la brezza una foglia. Chi mantiene un’idea contrappone il muro del palmo aperto al tentativo di comprimerne la libertà, e non cede di un passo.
Dal verbo deriva il sostantivo “manutenzione”, in riferimento all’insieme delle azioni necessarie per “mantenere” in efficienza qualsiasi oggetto. Un bisogno che si avverte anche con le parole, oggi che sembrano essere più vomitate che pronunciate.

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La festa della mamma con l’AIRC

Domenica 11 maggio, in occasione della festa della mamma, la fondazione AIRC per la ricerca sul cancro sarà presente in 3.900 piazze con “L’azalea della ricerca”, la storica campagna di raccolta fondi, nata nel 1984, che in quattro decenni ha molto contribuito per lo sviluppo della ricerca scientifica oncologica. Attualmente sono in corso 771 progetti di ricerca e borse di studio, che impegnano oltre 5.400 medici e scienziati nel lavoro di prevenzione, diagnosi e cura del cancro.
Obiettivo della Fondazione, per l’edizione 2025, è confermare il risultato straordinario conseguito nel 2024, quando si riuscì a distribuire circa 600.000 azalee e a raccogliere quasi 11 milioni di euro.
A Sant’Eufemia d’Aspromonte saranno ancora una volta i volontari dell’Agape ad occuparsi della distribuzione della piantina simbolo della battaglia contro i tumori femminili.
Con una donazione di 18 euro, potremo festeggiare le nostre mamme e offrire un aiuto concreto alla lotta contro il cancro.
Chi volesse aderire alla prevendita, può contattare i volontari dell’associazione.
Vi aspettiamo in piazza Matteotti, dalle ore 9.00 alle 13.00.

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Una voce per il Papa: Antonello Bille

Ormai dovremmo essere abituati a vederlo in televisione, in occasione delle importanti funzioni che si svolgono nel Vaticano, tenore tra le voci che compongono la “Cappella musicale pontificia sistina”. Ne fa parte da venticinque anni. Eppure ogni volta è un’emozione che si rinnova, per quel sentimento di orgoglio e di ammirazione che gli eufemiesi provano vedendo che un figlio di questa terra è stato capace di raggiungere vette professionali di assoluto rilievo.
Antonello Bille, cinquantenne cresciuto nel “Chjanu du Pettu”, a due passi dalla chiesa parrocchiale di Sant’Eufemia, che ha inciso profondamente sul ragazzo che era e sull’uomo che è diventato, ne ha fatta di strada. Anche se non ha mai reciso il legame con il paese di origine, dove torna appena ne ha la possibilità, quasi sempre ogni 16 settembre per la festa patronale, che coincide anche con la data del suo compleanno. Di questo affetto si nutre, lo custodisce nel cuore come un dono prezioso: «Chi come me va via, ha sempre il timore di venire dimenticato. Provo molto piacere quando apprendo che i miei compaesani sono orgogliosi di me e della mia attività».
È stato toccante ascoltarlo in occasione della recente Via Crucis, particolarmente intensa a causa della presenza/assenza del Pontefice, che non c’era ma il cui spirito e le cui parole hanno riecheggiato lungo il percorso dal Colosseo al Tempio di Venere sul Palatino. Poi la morte di Papa Francesco, il funerale, la consapevolezza dell’importanza del momento storico e l’emozione provata quando il feretro ha fatto il suo ingresso nella chiesa di Santa Maria Maggiore, accolta dai canti eseguiti dalla Cappella musicale: tra i cantori, Antonello Bille.
Di questo e di molto altro abbiamo parlato nel corso di una conversazione sviluppata sul filo dei ricordi, un andare per poi ritornare al punto di partenza, al luogo dove tutto ha avuto inizio: Sant’Eufemia d’Aspromonte.

Quando hai scoperto di avere questo dono e come hai iniziato?
Ho scoperto di avere questo dono un po’ tardi. Ho frequentato il liceo artistico “Mattia Preti” di Reggio Calabria e, in quegli anni, la musica e il canto erano lontani dai miei progetti di vita. In paese ho però iniziato a collaborare con il coro polifonico parrocchiale “Cosma Passalacqua”, allora diretto dal carissimo amico M° Raffaele Federico: ricordo quando ci svegliavamo alle 5:00 per la novena di Natale. Compresi che avevo delle qualità e il successivo ingresso nel conservatorio “Francesco Cilea” di Reggio confermò quella sensazione. Raffaele Federico è stato per me un grande supporto, con le sue parole di incoraggiamento. Altra figura importante è stata il M° Mons. Giorgio Costantino, docente del conservatorio in esercitazione corali e direttore del coro “Laudamus” di Reggio Calabria, nel quale entrai dopo circa un anno: mi ha sempre seguito con affetto ed è stato fondamentale per la mia formazione professionale. Al conservatorio “Cilea” ho avuto maestri eccellenti, che non solo mi insegnavano la musica, ma mi sollecitavano a “crederci” perché il mondo del canto un giorno mi avrebbe dato il pane. Infine, il mio caro Maestro di canto Antonio Bevacqua, di Messina, il quale ha fatto un grande lavoro sotto il profilo tecnico. Non dimenticherò mai le traversate a bordo della “Caronte” per recarmi alle sue lezioni.

Quando sei entrato nel Coro vaticano?
Nell’aprile del 1999, mentre ero ancora allievo del conservatorio, il M° Mons. Giorgio Costantino mi informò che il Maestro della “Cappella musicale pontificia sistina”, all’epoca Mons. Giuseppe Liberto, cercava nuovi tenori. Mi presentai e sostenni l’audizione davanti a lui, al “Magister Puerorum” don Marcos Pavan (oggi Maestro direttore della Cappella), al segretario e al decano dei cantori pontifici. Nel frattempo conseguivo il Diploma in canto con lode e menzione d’onore. Il 14 settembre fui convocato ufficialmente da Mons. Giuseppe Liberto ed entrai così nel coro più antico del mondo e coro personale del Papa.

Da quanti cantori è composto il Coro, quali sono le sue attività e come si svolge la tua giornata?
Attualmente il Coro, che in genere svolge il suo servizio liturgico nella Basilica di San Pietro, è composto da 24 Cantori adulti suddivisi in tenori I e II, baritoni e bassi, e da circa 30 Cantori fanciulli (i “Pueri Cantores”, le voci bianche che secondo un’antica tradizione sostituiscono le voci femminili, suddivise in contralti e soprani). Normalmente siamo impegnati con le prove per le celebrazioni papali e i concerti, dalle tre alle quattro ore al giorno. La Cappella musicale pontificia interviene solo in presenza del Papa, anche per funzioni private nella cappella del Santo Padre oppure in altre cappelle che sono all’interno del palazzo apostolico, con il segretario di Stato. Al di fuori dal contesto delle cerimonie liturgiche svolge inoltre l’attività concertistica, sia in Italia che all’estero.

Ci sono avvenimenti che ricordi con particolare emozione?
Tantissimi, in particolare quelli legati agli anni del pontificato di Giovanni Paolo II. Su tutti, l’apertura della Porta Santa nel Grande Giubileo del 2000 e la morte di Karol Wojtyla. Nel primo caso, ero arrivato a Roma da appena tre mesi: per me era tutto nuovo, immenso, vibrante. Mi sentivo parte della Storia mentre si stava svolgendo. Dopo il Santo Padre, toccò alla Cappella musicale attraversare la Porta Santa. Ho provato un’emozione indescrivibile, amplificata dalla voce tremante di Giovanni Paolo II: un fuoco dentro il cuore che non va mai via. La sua morte diede la sensazione che il mondo si fosse fermato, che la terra avesse smesso di girare. Dalle cose più importanti fino a quelle più banali, come fare la spesa. Il silenzio che si percepiva a Roma era impressionante, solenne, intimo. E poi il funerale, con quel vento che giocava con le casule dei cardinali e, sulla bara, sfogliava le pagine del Vangelo. Ma ho provato emozione anche nei passaggi più significativi di questi ultimi 25 anni: l’elezione di Benedetto XVI e l’11 febbraio 2013, quando nella Sala Clementina pronunciò la formula della rinuncia al soglio pontificio; infine l’elezione di Papa Francesco, che per la verità nessuno nel Vaticano si aspettava.

Come hai vissuto la morte di Papa Francesco? Cosa hai provato quando la bara con il Santo Padre ha fatto ingresso nella chiesa e come ti sei sentito nel momento in cui cantavi per lui?
Sono stato presente alla constatazione di morte, poiché il protocollo del cerimoniale prevede che siano presenti, oltre al medico personale del Papa che legge le cause del decesso, tutta la famiglia pontificia, della quale fa parte anche la Cappella musicale. Poi, mercoledì 23 aprile, nella Basilica di San Pietro per la traslazione. Arrivava il momento di far vedere al mondo per l’ultima volta le sue spoglie mortali. Il cerimoniale prevede che i “sediari” portino il Santo Padre nella bara scoperta. Il momento è solenne e scandito dal camminare lento e ordinato della processione. Una situazione che io avevo già vissuto con i due precedenti Papi. Ma è come se fosse sempre la prima volta. Sono sensazioni indescrivibili, dal fortissimo impatto emotivo. Anche perché ti rendi conto che fai parte di tutto quello che sta accadendo, non sei soltanto uno spettatore. Le mani tremano e si ha paura di poter sbagliare mentre si canta. È difficile gestire l’equilibrio interiore, perché l’emozione è fortissima. Non rimane altro da fare che pregare, nel mio caso cantando. Abbiamo eseguito alcuni salmi in gregoriano, in latino a una voce, e le antifone per i defunti: “Requiem aeternam”, “Sitivit anima mea” e altre.

Hai qualche ricordo personale di Papa Francesco?
In particolare due. Nel corso di una messa celebrata nella cappella privata per i suoi cinquant’anni di sacerdozio, ebbi un incontro molto breve: il tempo di stringergli la mano, poiché nella sua grande umiltà non voleva che gli fosse baciata, di chiedergli come stesse e di ringraziarlo per la sua presenza. In occasione dei suoi ottant’anni, ebbi invece modo di soffermarmi di più con lui. Gli chiesi una preghiera per una persona a me cara: mi domandò il nome di questa persona, quindi mi strinse forte la mano e mi disse di stare tranquillo. La sua preghiera fu esaudita.

Quanto è forte il tuo legame con Sant’Eufemia?
Tantissimo, nonostante gli anni trascorsi fuori per gli studi e per il lavoro. Sono cresciuto nel rione “Petto”, a pochi metri dall’ingresso laterale della chiesa di Sant’Eufemia, dove c’erano i locali dell’Azione Cattolica”: un punto di ritrovo per me e per tanti altri ragazzi con i quali ho condiviso momenti di pace, serenità, spensieratezza e tante risate. Una sorta di porta magica che ci teneva uniti. Sant’Eufemia sta sulla prima riga del mio curriculum artistico, ne vado fiero. Con le sue strade, il pane di “Tita”, le fontane della “Pirina” e della “Nucarabella”, i posti dove da ragazzini andavamo a raccogliere l’origano, sotto il ponte della ferrovia: un luogo che ho sempre immaginato come ideale per girarci un film western. Le interminabili partite a pallone davanti alla chiesa parrocchiale, le sfide con i ragazzi degli altri quartieri, le giocate a carte sui gradini della chiesa. Sono legato intimamente alle nostre tradizioni religiose: la pietà popolare è il ponte indispensabile affinché ogni essere umano si avvicini alla casa del Signore. E poi la nostra amata Sant’Eufemia, che ancora oggi ci parla e ci protegge. Il mio rapporto con “Lei” è iniziato il giorno della mia nascita: mio padre ancora oggi si commuove raccontando che mentre “Lei” usciva dal portone della chiesa per la processione, io venivo al mondo uscendo dal grembo di mia madre. Il giorno della festa cerco sempre di essere presente, anche se ogni tanto non mi riesce. La cerco ovunque, specialmente da quando mi sono trasferito a Roma. Mi affido sempre a Lei. Quando mi distraggo, succede qualcosa che mi fa capire che “Lei” è vicino a me. Non mi sono mai sentito abbandonato, né ho perso la strada che mi conduce a “Lei”. Ricordo con commozione le feste, le “entrate” con i magnifici fuochi d’artificio, le processioni sontuose e partecipate da tutti. So che qualsiasi cosa dovesse accadere, quei momenti li porterò sempre dentro di me. Ormai, da venticinque anni, la mia vita è a Roma: ma, anche se un giorno non dovessi più tornare, per il mio paese pregherò e spererò sempre il meglio.

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È sempre tempo di Resistenza

«È sempre tempo di Resistenza, sono sempre attuali i valori che l’hanno ispirata». Che Dio conservi a lungo la saggezza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il quale non a caso per esprimere il suo pensiero ha scelto Genova, città medaglia d’oro della Resistenza. I tempi, si sa, sono molto tristi. Talmente tristi che qualcuno avrebbe preferito silenziare la ricorrenza con la scusa del lutto nazionale disposto per la morte di Papa Francesco.
Qualche anno fa Claudio Magris scrisse che “è triste dovere difendere la Resistenza”. È proprio così, ma è diventato necessario ora che gli ottanta anni trascorsi e la complicità del particolare momento storico che viviamo operano come la gomma sul tratto della matita. Ciò non significa che esista il pericolo di un ritorno al fascismo. Certamente non nei termini in cui si affermò tra le due guerre. E risultano insopportabili la retorica e l’ipocrisia di certi autoproclamatisi custodi esclusivi dei valori resistenziali. Tuttavia, da un punto di vista storico c’è poco da discutere. C’era una parte giusta e una sbagliata. La lotta partigiana è stata lotta di liberazione dal nazifascismo, per la quale una generazione di italiani sacrificò tutto, anche la vita, pur di consegnare all’Italia la democrazia. Uomini e donne di diversa estrazione politica (comunisti, cattolici, socialisti, azionisti, liberali, repubblicani, monarchici) lottarono per la libertà e riuscirono a trovare una convergenza sulle regole fondanti della democrazia: «Abbiamo vinto noi – spiegò Vittorio Foa al repubblichino Giorgio Pisanò – e sei diventato senatore; se aveste vinto voi io sarei morto o sarei finito in galera». La grandezza politica e morale di quell’avvenimento è tutta in queste parole.
Che poi la Resistenza non sia stata tutta rose e fiori lo sappiamo. Eccessi e crimini sono stati accertati. Ma ciò non toglie che la Liberazione costituisce l’evento fondante della Repubblica e segna il riscatto del popolo italiano, la riconquista dell’onore che il fascismo aveva oltraggiato con la dittatura, la soppressione della libertà, le leggi razziali e l’ingresso in guerra al fianco della Germania nazista.
Le polemiche strumentali, si tratti di Resistenza o del Manifesto di Ventotene, sono indice soltanto della miseria di una classe politica incapace di contestualizzare storicamente i fatti.
È indubbia, tuttavia, l’affermazione di tendenze illiberali alimentate dalla scarsa partecipazione popolare, dalla personalizzazione autoritaria e dal servilismo degli zerbini del potente di turno. Mette tristezza il divieto, in alcuni comuni, di eseguire “Bella ciao” o, addirittura, la cancellazione dei festeggiamenti in nome della raccomandata “sobrietà”. Ma è una questione che non riguarda soltanto il 25 aprile. Se in una scuola viene cancellata la presentazione di un libro perché una docente motiva la propria contrarietà dichiarando che “propone una linea politica non consona alla linea che seguono in questo comune”, il problema diventa serio. Il consenso dà ai vincitori il diritto di governare, non quello di disprezzare vincoli e confronto in nome del consenso popolare. È vile il comportamento di chi si veste di arroganza per non urticare la sensibilità dei potenti di turno.
Nel suo celebre discorso sulla Costituzione, Piero Calamandrei esortava gli studenti di Milano a non abbassare la guardia, perché “la libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare”. Correva l’anno 1955, ma l’attualità di quel monito resta ancora oggi intatta.

*Foto tratta da: genovatoday.it

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Noi detenuti meno soli e disperati durante la pandemia grazie a Francesco

Costretti in tre metri per quattro sentivamo ancora più nostre quelle parole sul Covid pronunciate dal Papa in una piazza San Pietro deserta

Nella sezione c’era un silenzio irreale. L’orologio in mezzo al corridoio segnava le 14:50. Come sempre. Chissà da quanti anni. Il tempo in carcere non esiste, che le lancette stiano ferme o si spostino sul quadrante non fa differenza. È un tempo sospeso tra una battitura e l’altra. Dai camerotti e dai cubicoli arrivava in stereofonia la telecronaca di ciò che stava succedendo in piazza San Pietro. I nostri occhi erano tutti incollati in alto, sopra il cancello serrato, fissi sul teleschermo.
Un uomo vestito di bianco attraversava la piazza deserta, sotto la pioggia, prima di fermarsi sotto un crocifisso: «Come i discepoli del Vangelo siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa. Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda». Parlava del Covid, ma costretti in tre metri per quattro sentivamo ancora più nostre quelle parole. Dalla rete a maglia fittissima delle finestre, nelle ore diurne, anche la luce faticava ad entrare. Ci sentivamo soli, maledettamente soli.
Dal mondo di fuori arrivavano notizie frammentarie, che stentavamo a comprendere. I camion militari con le bare, l’aggiornamento quotidiano delle vittime della pandemia dai telegiornali che divoravamo. Non ci fidavamo di ciò che ci dicevano da casa. I colloqui erano stati sospesi: restavano le lettere, le telefonate e poi, finalmente, l’introduzione delle videochiamate. L’unico lascito positivo di quella terribile catastrofe sanitaria.
Giungevano notizie sui distanziamenti, sulle autorizzazioni per uscire di casa per la spesa, sul controllo poliziesco fino a davanti l’uscio delle porte, sugli inseguimenti, le multe, le denunce. Non capivamo. Paradossalmente, tutte queste precauzioni ci erano state risparmiate. Carcere e distanziamento sono due sostantivi che non possono stare nella stessa frase. Nelle celle, nel cortile: impossibile. Mascherine, neanche a parlarne. Almeno all’inizio. Ma neanche dopo, tranne quando si doveva accedere all’infermeria o alla matricola.
Gli ultimi possono anche morire, non fanno rumore. Se così non fosse, i nostri governanti dovrebbero impazzire per i suicidi che si registrano dietro le sbarre. E agli ultimi pensava Papa Francesco. Nel disorientamento generale, lo sentivamo vicino. Avvertivamo la potenza della preghiera, che non chiede il miracolo, bensì la concessione della forza necessaria per affrontare la burrasca. Ognuno la propria. Ci nutrivamo delle sue parole di speranza e della sua compagnia ogni mattina alle sette, quando appariva sui teleschermi dalla cappella di Santa Marta. Molti di noi appresero allora che visitare i carcerati era una delle sette opere di misericordia corporale.
Papa Francesco veniva a farci visita tutti i giorni. Nel carcere di Palmi suppliva l’assenza forzata di don Silvio, che fino ad allora era stata la nostra ancora di salvezza. Con le sue parole di conforto, lo sguardo di comprensione, l’indignazione per le troppe ingiustizie che da cappellano avvertiva come conficcate nelle sue carni.
In uno degli ultimi incontri prima della cancellazione definitiva di ogni visita, gli avevo proposto di organizzare una via crucis nel cortile. In carcere non mancano i poveri cristi e, fortunatamente, neanche i cirenei compassionevoli, compagni che aiutano l’altro a sorreggere la croce con un gesto di umanità o con una parola di incoraggiamento.
Ovviamente, non se ne fece niente. Riuscì però a fare una sortita il giorno di Pasqua, ad affacciarsi dalla porta sul cortile per un saluto, a fare avere a ciascun detenuto un bocconcino con la crema. Ci restava però Papa Francesco. Il rappresentante di una Chiesa che ciclicamente e inutilmente chiede un gesto di clemenza, denuncia la barbarie del carcere, invita alla compassione e alla carità.
La mia, la nostra, tutte le solitudini del mondo si condensavano in una macchia bianca raccolta in preghiera sotto la croce. Ci sentivamo un po’ meno soli.

IL DUBBIO, 23 aprile 2025

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La Pasqua di solidarietà dell’Agape

Con lo scambio degli auguri con gli ospiti della Residenza sanitaria per anziani “Mons. Prof. Antonino Messina” si sono concluse, oggi pomeriggio, le iniziative dedicate dall’Agape alla “Pasqua di solidarietà”.
Mercoledì 9 si è svolta l’ormai ultraventennale Via Crucis, con i volontari, le operatrici e gli anziani impegnati a ripercorrere le tappe della Passione di Gesù. Un bambino, Carmine, si è soffermato con la croce accanto agli ospiti della RSA, seduti attorno al tavolo circolare della sala ricreativa, mentre si susseguiva la lettura delle riflessioni e la piccola croce con la frase di Papa Francesco “La speranza non muore mai” – portata in dono alla struttura residenziale dalla presidente Iole Luppino – passava di mano in mano, da anziano ad anziano. Cadere e rialzarsi, cadere di nuovo e rialzarsi ancora.
È stato toccante ascoltare la lettura della signora Grazia, contagiosa nell’emozione che è riuscita a trasmettere a tutti i partecipanti. In un luogo che richiama sofferenza e amore, non possono lasciare indifferenti la preghiera e i canti eseguiti da anziani e volontari, in accompagnamento al coro “Cosma Passalacqua”, diretto dal Maestro Angela Luppino. Una collaborazione ormai consolidata nel tempo, capace di regalare momenti di grande pathos, come sempre accade – ad esempio – nel momento della straziante “Stava Maria dolente”, quest’anno intonata da Noemi e Sonia.
Pochi giorni fa, invece, c’era stata la consegna delle uova di Pasqua agli amici dell’Agape che ogni anno partecipano alla colonia estiva, nel corso di una serata di svago trascorsa nel teatro della Scuola dell’infanzia paritaria “Padre Annibale Maria di Francia”. Un’occasione per stare insieme, consumare qualche pizzetta, ballare e cantare al karaoke, abbracciarsi e sorridere. Piccoli gesti, capaci di riempire di senso le nostre piccole vite.
«Di te ha detto il mio cuore: “Cercate il suo volto”/ il tuo volto, Signore, io cerco» (Salmo 26). Dove? Genitori che piangono i figli, popolazioni martoriate dalla guerra, profughi senza più una casa, donne abusate, malati ad un passo dalla verità, anziani abbandonati, bambini che ancora oggi muoiono di fame, giovani con lo sguardo perso sul nulla, disoccupati, vittime dell’ingiustizia, rassegnati senza una speranza da abbracciare. Dove è in tutte le realtà nelle quali una vita diventa nient’altro che un numero. Nei teatri di guerra, negli ospedali, nei luoghi di restrizione, nelle baraccopoli. Dove è negli oppressi da un’economia predatoria, negli ultimi di una società fondata sulle diseguaglianze: da una parte i migliori, quelli considerati utili; dall’altra lo scarto della società, il peso, l’inciampo. Dove è nella forza e nell’amore che sfidano il dolore e la sofferenza. Là bisogna cercare.

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