L’espressione del viso, impressa nella fotografia scattata cinquant’anni fa, conferma la frase vergata sul retro da mio padre: «I due disperati». Tre parole per esprimere con ironia l’affetto, l’amicizia, la condivisione di un riscatto cercato e trovato lontano dall’Italia, in quell’Australia che ha accolto e dato a molti italiani la possibilità di un futuro che non fosse miseria.
La notizia ci è arrivata addosso come una secchiata d’acqua gelida, nonostante il sospetto. I social sono uno strumento utile, ma in casi come questi crudele: è bastato ricordare i nomi dei figli e percorrere a ritroso la cronologia dei loro post per imbattersi in Paolo Rao sorridente accanto alla figlia Agata, a dispetto dell’annuncio della sua morte nel 2021. Da tempo non ricevevamo le sue periodiche telefonate, mentre i nostri tentativi si infrangevano contro il silenzio del suo cellulare. Lo sconvolgimento degli ultimi anni ci aveva impedito di andare più a fondo nella ricerca, ma ora, nonostante tutto, sarebbe stato il momento di una boccata d’ossigeno. Non è andata così ed è un dolore che punge, per quanto differito. Sono gli occhi di mio padre, che dicono tutto di quell’alchimia unica con Paolo e con mio zio Stefano, del vuoto lasciato da entrambi in sua assenza. L’ennesima ingiustizia.
Impetuosa è l’onda dei ricordi, che riaffiorano insieme al tono della voce di Paolo nell’imprecazione “maledetto vento!”, masticata mentre con la mano cercava di sistemarsi i capelli nel deserto australiano.
Si erano conosciuti da “Bendinelli & Carlini”, la ditta di un fiorentino e di un romano che pitturava le case a Melbourne e dintorni. Paolo di origini siciliane, mio padre dall’Aspromonte: entrambi con addosso il culto del lavoro che ha scritto le pagine più belle e dignitose dell’emigrazione italiana.
Tra le altre “imprese”, ricorreva spesso il ricordo del viaggio epico attraverso la “Nullarbor Plain”, oggi proposto nei pacchetti vacanze riservati ai turisti che amano l’avventura.
La notte di Natale del 1974 il Nord Territorio era stato devastato dal ciclone Tracy, le cui raffiche di vento raggiunsero i 240 km/h: l’80% della capitale Darwin (dove morirono 66 persone) fu distrutto, il 94% delle abitazioni dichiarato inabitabile, la stima dei danni ammontò a 837 milioni di dollari.
E a Darwin i due amici decisero di recarsi. A neanche trent’anni e con la storia che si erano lasciati alle spalle, i 9.000 km di strada da percorrere in macchina non erano fonte di apprensione.
Per ricostruire le città servivano muratori, carpentieri, idraulici, elettricisti e ovviamente imbianchini. Come loro due. Uno sguardo d’intesa e via, a bordo della possente Ford Falcon 500 di mio padre.
A Darwin non ci arrivarono. C’era da ricostruire anche a Port Hedland, in Australia Occidentale, raggiunta dopo i circa 7.000 km percorsi per tagliare da Est a Ovest e risalire a Nord. Quattro giorni a snocciolare il rosario delle città attraversate, una volta partiti da Melbourne: Adelaide, Ceduna, Norseman, Perth, Geraldton, Carnarvon, Broome. Sul tavolo, ora, tra le mie mani un cartello indica il 26° Parallelo, un altro segnala la linea del Tropico del Capricorno, Paolo pesca dalla battigia con una lenza i pesci per il sontuoso barbecue da consumare insieme agli altri operai, mio padre pennella dalla scala a forbice, entrambi sorridono con una birra in mano.
La pianura di Nullarbor si estende per oltre 1.200 km di deserto tra Ceduna a Norseman. La “Eyre Highway” che l’attraversa è una linea retta infinita e senza dislivello, dall’effetto ipnotizzante. Non essendo al tempo asfaltata, il passaggio delle auto sollevava un polverone di terra rossa e sottile capace di resistere per mesi anche ai lavaggi più accurati. Ogni 200 km circa, la presenza di una “Road House” dava la possibilità di fare rifornimento, mangiare e bere qualcosa.
A dispetto dell’etimologia (dal latino: “senza alberi”), puntini in lontananza indicavano la presenza di qualche acacia, dall’ombra delle quali potevano saltare fuori aborigeni in costume tradizionale e armati di lance, che andavano incontro all’auto con l’intento di piazzare strumenti musicali tribali (“didgeridoo”, “bullroarer”) e i “boomerang”, dopo una serie di lanci dimostrativi.
A Port Hedland soggiornarono in una roulotte per un mese e, alla fine del lavoro, rientrarono a Melbourne. Per la gioia dei bambini, anche se Fanny – nonostante i tentativi di corruzione con caramelle e cioccolatini – faticò a perdonare il capellone simpatico e pieno di vita che aveva avuto il torto di portare via suo zio.
Il voto di Peppe
«Non ce l’ho fatta a non andare a votare». Peppe ha detto proprio così, a dispetto dell’oltre 50% di italiani che, invece, a non andare ce l’ha fatta benissimo. Un astensionismo sul quale occorrerebbe una seria riflessione, se soltanto a qualcuno importassero i motivi per i quali sempre più elettori disertano le urne.
Peppe, quasi novant’anni, sul tema ha sempre avuto idee chiare, maturate in anni di duro lavoro nelle campagne e di militanza nel partito comunista. Anche se, sottolinea, oggi comunisti non ce ne sono più: «Neanche io lo sono. Mio padre era un comunista vero, non io. Nonostante le battaglie». Quel padre che Peppe seguiva all’alba, zappa in spalla, attraversando il paese – che per comodità collochiamo in Aspromonte, anche se potrebbe trovarsi in qualsiasi angolo del Meridione – per raggiungere le campagne circostanti o addirittura i comuni vicini. Per una giornata di lavoro, a zappare o a “rampare”, quando l’inclemenza del tempo non costringeva la squadra di braccianti a fare rientro a casa, a mani vuote dopo un paio d’ore di cammino all’andata e altrettante al ritorno.
Peppe non gode di ottima salute. Fino a qualche anno fa, nel suo seggio, è stato sempre il primo a votare. Quando arrivavano presidente e scrutatori, lui li aspettava già all’ingresso. Un militante d’altri tempi, che credeva nell’Idea e nella possibilità di riscatto per mezzo della scheda deposta nell’urna: «Al Partito volevo bene come a mio padre».
Questa volta Peppe non ha votato per primo, perché al seggio hanno dovuto accompagnarlo. Stava talmente male che quasi stava per svenire. E allora, in quel preciso istante, si è compiuto il miracolo del buon senso e dell’umanità. I componenti del seggio e le forze dell’ordine si sono sostituiti alla cabina elettorale e hanno fatto da paravento con le proprie spalle, consentendogli così di votare nel corridoio, seduto sulla sedia: «Non votare, per me, sarebbe come non entrare in chiesa per un credente. Lo farò finché avrò la forza di respirare».
Il dopo-voto, come sempre, è stato un profluvio di dichiarazioni azzardate, che non tengono conto della questione principale: qualsiasi percentuale fotografa una realtà minoritaria, in una nazione nella quale vota meno della metà degli aventi diritto al voto. Parole “celebrative del nulla”, direbbe De André.
Su questo vuoto e sulla disillusione che allontana soprattutto i giovani dalla politica si staglia, invece, il profondo senso civico di Peppe, il quale ci ricorda con un solo gesto e con poche parole quanto grande sia stata la conquista di un diritto oggi snobbato. Un esempio, questo sì, da celebrare.
*In foto: “I funerali di Togliatti” (Renato Guttuso)
L’incontro con Carmine Abate a “Primavera di libri”
Per onorare l’evento “Primavera di libri”, anche quest’anno il Terzo Millennio ha scelto molto bene. Non nascondo di essere un po’ di parte, perché Carmine Abate è tra i miei scrittori preferiti. Proprio per questo ho considerato un bel regalo la decisione dell’associazione di affidare a me il compito di conversare con l’autore, al quale ho sottoposto una serie di domande sul suo ultimo romanzo e sui temi centrali della sua più vasta produzione letteraria.
Come i protagonisti del romanzo, ci siamo chiesti come sia stato possibile uno scempio di tale portata. Sarebbe interessante riuscire a comprendere dove finisca il pregiudizio, che esiste e che noi calabresi subiamo quotidianamente, e dove inizi il compiacimento con il quale ci autoassolviamo da responsabilità che sono anche nostre.
Abbiamo parlato di Sud, Calabria, identità, emigrazione, dei soprusi di uno Stato spesso ostile, sin dal 1861. La vicenda narrata in “Un paese felice” è emblematica: 700.000 alberi distrutti e un borgo raso al suolo utilizzando il ricatto del posto di lavoro, in nome di uno sviluppo industriale mai iniziato, sulla base di un progetto antistorico e antieconomico già nel momento in cui il Quinto centro siderurgico veniva sbandierato come la salvezza per l’intero territorio. Troppe poche persone hanno difeso Eranova, mentre partiti e sindacati pendevano dalle labbra di Giulio Andreotti, nello storico discorso tenuto a Gioia Tauro il 25 aprile 1975.
Gli spunti di riflessione offerti dal romanzo sono stati tanti. Il rapporto con la Storia Grande, l’intreccio tra generi letterari, i riferimenti autobiografici, gli autori “omaggiati” da Abate nel romanzo: Gabriel Garcia Marquez e la sua Macondo, alla quale Eranova somiglia poiché racconta le “stesse storie di solitudine, di ingiustizie e di lotta”); Pier Paolo Pasolini e la necessità di prendere coscienza dei problemi del mondo per non fare la fine di Riccetto nel cortometraggio “La sequenza del fiore di carta”; Corrado Alvaro e la denuncia nel suo “Itinerario italiano”: «Sono pochi i paesi d’Italia che abbiano conosciuto meglio della Calabria l’ingiustizia, il sopruso, la violenza».
Mi ha colpito l’attenzione dei presenti, un atteggiamento non consueto quando si parla di libri e quasi subito cominciano a manifestarsi nell’uditorio segnali di stanchezza. Le due ore trascorse con Abate sono invece volate senza distrazioni, con grande soddisfazione per tutti: per lui (lo ha anche sottolineato), per il pubblico e per il Terzo Millennio, cui va il merito di avere organizzato un’iniziativa dal grande valore culturale.
Carmine Abate protagonista della Primavera di libri del Terzo Millennio
Per la settima edizione della “Primavera di libri” l’associazione Terzo Millennio si regala e regala alla comunità di Sant’Eufemia d’Aspromonte Carmine Abate, uno tra i maggiori scrittori contemporanei.
Nato a Carfizzi, piccolo paese arbëresh in provincia di Crotone, da giovane Abate è emigrato in Germania, prima di stabilirsi nel Trentino. Dalla Calabria, in fondo, non è però mai andato via. Nei suoi romanzi, tradotti in tutto il mondo, radici e memoria sono il collante che tengono insieme storie d’amore, di emigrazione, di rassegnazione e di ribellione. Nostalgia non fine a sé stessa, che diventa denuncia sociale quando riporta alla luce vicende drammatiche ma dimenticate o ignorate. Come nel suo ultimo romanzo, Un paese felice (Mondadori, 2023), che racconta l’utopia fallita di Eranova, il paese sorto nel 1896 da un atto di ribellione della popolazione nei confronti del marchese Nunziante di San Ferdinando e raso al suolo nella seconda metà degli anni Settanta del Novecento per fare posto, in nome del progresso, alla costruzione (mai realizzata) del quinto centro siderurgico: «Non può essere vero», ripetono tutti. Invece è stato vero.
Un romanzo corale, di malinconia e di orgoglio, nel quale tutti possono riconoscersi o riconoscere volti familiari: Lina e Lorenzo (l’io narrante che molto ha dell’autore), Mastro Cenzo e Donna Mena, Petraro e una folla anonima sulla quale si abbatte il cinismo dello Stato e di chi indirizza il corso della storia passando sopra i sentimenti, il buon senso, finanche le logiche economiche: «Sono pochi i paesi d’Italia – ricorda l’autore citando il Corrado Alvaro di Itinerario italiano – che abbiano conosciuto meglio della Calabria l’ingiustizia, il sopruso, la violenza».
Abate ha scritto romanzi entrati nella storia della letteratura: Il ballo tondo, Il mosaico del tempo grande, La collina del vento (Premio Campiello 2012), La festa del ritorno, La moto di Scanderbeg, soltanto per citare i titoli ai quali sono personalmente più affezionato.
L’incontro organizzato dall’associazione Terzo Millennio avrà luogo domenica 19 maggio alle 17.30, presso la Biblioteca comunale all’interno del Palazzo municipale. L’evento non costituisce soltanto l’occasione per ascoltare dalla voce dell’autore le considerazioni sul suo ultimo lavoro, ma si preannuncia piuttosto come un prezioso momento di crescita culturale collettiva.
- Copie del libro Un paese felice sono in vendita presso Graphic Design di Tina Sobrio
Una grande prova di generosità
Grazie anche ad un ottimo lavoro di prevendita e alla grande adesione in piazza Matteotti nella mattina di domenica 12 maggio, tutte le azalee dell’AIRC sono state distribuite dai volontari dell’Agape. Con 168 piantine, Sant’Eufemia d’Aspromonte ha conseguito nella provincia di Reggio Calabria il migliore risultato, in proporzione alla popolazione, confermandosi inoltre tra i primi comuni in termini assoluti.
Grazie a tutti per il generoso contributo in favore della ricerca per lotta contro il cancro.
Addio a Tina, la mia amica lontana
Con Tina (Fortunata) Ciccone Sturdevant ci siamo conosciuti su Facebook nel 2016. Grazie allo strumento della condivisione dei post era finita sul mio blog, interessata com’era a tutto ciò che riguardava la storia di Sant’Eufemia, dov’era nata nel 1931 e da dove era partita nel 1950 insieme alla mamma per raggiungere negli Stati Uniti il padre, due fratelli e una sorella. Successivamente sposò Ernest Sturdevant e diede alla luce quattro figli: Gary, Donna, Lisa e Linda. Era ritornata a Sant’Eufemia nel 1970 e aveva recuperato per caso, in fondo ad un baule, lo straordinario racconto del padre Giuseppe sull’esperienza vissuta nella Prima guerra mondiale. Il testo, in inglese con a fronte le pagine originali del diario-poema scritte in un calabrese-italiano stentato, è stato pubblicato grazie anche alla preziosa collaborazione dell’adorato nipote Richard Ciccone, professore di Psichiatria presso l’Università di Rochester. Through the circles of hell: a soldier’s saga. Giuseppe Ciccone – questo il titolo – è l’unica testimonianza diretta di un fante eufemiese sulla carneficina delle trincee del Carso.
Ho avuto il privilegio di recensire il libro per “Il Quotidiano del Sud” e di consegnarne una copia all’Archivio di Stato di Reggio Calabria e alla biblioteca comunale di Sant’Eufemia. Recensione in seguito pubblicata nel mio Sant’Eufemia d’Aspromonte e la Grande guerra.
Stamattina ho saputo che Tina ci ha lasciati tre giorni fa. Ci eravamo scritti l’ultima volta per gli auguri di Pasqua, chiudendo entrambi l’email con la nostra consueta formula “your long distant friend”.
In questi otto anni siamo rimasti sempre in contatto: all’inizio utilizzavamo entrambi l’inglese, poi qualche volta io l’italiano e lei l’inglese, infine entrambi l’italiano. Lingua che, mi ripeteva spesso, aveva sepolto insieme a radici e ricordi: «Ero diventata più americana che italiana». Me ne parlava spesso nelle email e nelle lettere da Silver Spring (Maryland), nonna e bisnonna felice che “al tramonto della vita” (altra frase che utilizzava di frequente), era riuscita a fare in qualche modo pace con un passato più o meno volontariamente dimenticato.
Con il nipote Richard aveva anche tradotto in inglese e pubblicato la Breve monografia su Sant’Eufemia d’Aspromonte di Vincenzo Tripodi e, infine, aveva approfittato della clausura del Covid nel biennio 2020-2021 per ordinare i suoi ricordi nel prezioso Once upon a time in Calabria: stories of Sant’Eufemia, uno spaccato su personaggi e consuetudini degli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso a Sant’Eufemia d’Aspromonte: «Appena ho appoggiato le dita sui tasti del computer, le storie si sono scritte da sole. Tutte le memorie, nomi e luoghi – mi scrisse – sono ritornati in modo straordinario».
Tina era curiosa di sapere come il paese era cambiato. Apprezzava le attività di volontariato dell’Agape e si entusiasmava per i giovani che si spendono per fare crescere Sant’Eufemia. Da Oltreoceano mi è stata accanto quando mi candidai nelle elezioni comunali e nei sette mesi bui del 2020. Leggevo con piacere le sue email, le sue domande, le sue considerazioni, i suoi progetti. Pensava al futuro con una grande energia vitale, preoccupata non per sé ma per i giovani. Non temeva la morte perché – diceva – aveva avuto una vita piena di soddisfazioni e di affetto. Era in pace. Mi mancherà.
L’azalea della ricerca per la festa della mamma
Domenica 12 maggio, in occasione della Festa della Mamma, oltre 20.000 volontari saranno presenti in 3.500 piazze italiane con l’azalea della ricerca AIRC, che quest’anno festeggia il suo quarantesimo compleanno.
Insieme all’azalea verrà offerta una guida che ripercorre i principali traguardi raggiunti: «Le conquiste della ricerca si traducono in vite salvate e negli ultimi quarant’anni in Europa – ricorda l’Airc – sono state salvate dal cancro le vite di oltre due milioni di donne».
A Sant’Eufemia d’Aspromonte saranno i volontari dell’Agape ad occuparsi della distribuzione della piantina simbolo della battaglia contro i tumori femminili.
Con una donazione di 18 euro, potremo festeggiare le nostre mamme e dare un aiuto concreto alla lotta contro il cancro.
Chi volesse aderire alla prevendita, può contattare i volontari dell’associazione.
Vi aspettiamo in piazza Matteotti, dalle ore 9.00 alle 13.00.
Il centocinquantesimo anniversario della nascita di Carmelo Tripodi
Il 28 aprile ricorreva il centocinquantesimo anniversario della nascita di Carmelo Tripodi, artista dal “multiforme ingegno”, secondo la calzante definizione del figlio Domenico Antonio, “L’Aspromontano” autore di opere pittoriche esposte in tutto il mondo. Capostipite della “dinastia d’arte” celebrata in un convegno tenuto a Roma nel 2001 (relatori: il fondatore e direttore de “Il Corriere di Roma” Giuseppe Gesualdi, il dantista Tullio Santelli, i critici d’arte Renato Civello e Alberto Trivellini), la sua eredità è stata raccolta da altri due figli (Agostino e Graziadei, “il restauratore al servizio di Dio”, per poi giungere ai giorni nostri con le nipoti Carmelita e Roberta.
Nel 1874 l’aspetto di Sant’Eufemia d’Aspromonte era molto diverso dall’attuale. Il censimento del 1871 attesta una popolazione di 6.252 abitanti, ammassati nelle case prive di acqua e servizi del “Vecchio Abitato” e del “Petto”, i due rioni esistenti prima dell’edificazione della “Pezza Grande” in seguito al terremoto del 1908. Nel 1872 era stato inaugurato il telegrafo elettrico, mentre l’unica strada, che consentiva un collegamento con i paesi vicini, da Bagnara attraversava il paese e proseguiva fino a Delianuova. Le classi della scuola elementare erano dislocate tra locali comunali e abitazioni private.
Figlio di Giuseppe e di Teresa Filardi, da ragazzo Carmelo Tripodi frequentò la bottega d’arte di Giosuè Versace. Nel 1895 si iscrisse all’Accademia di Belle Arti di Messina e, completati gli studi, aprì uno studio di pittura e scultura. Nel 1906 due sue opere furono presentate all’Esposizione Campionaria Internazionale di Palermo: “Galileo Galileo” e “Sant’Antonio abate”. I due quadri gli procurarono le più alte onorificenze: Premio dell’Esposizione “Gran Premio e Croce Insigne”, Premio Concorso Universale “Gran Corona d’oro con medaglia al merito artistico”, Premio Concorso Nazionale “Targa della Città di Padova”. L’anno successivo Tripodi si impose nel Premio Concorso Internazionale “Gran Coppa d’Italia” e, nel 1912-1913, fu componente della Giuria d’Onore all’Esposizione Internazionale di Parigi.
Il terremoto del 1908 distrusse gran parte dei suoi lavori: in particolare, il monumentale altare della chiesa di Santa Maria delle Grazie, con il bassorilievo rettangolare sopra la nicchia della Madonna e le statue di San Pietro e di San Paolo poste sui due lati.
Della produzione artistica giunta ai giorni nostri, oltre ai due quadri già menzionati, hanno riscosso l’apprezzamento dei critici l’olio giovanile “San Rocco e gli appestati” (1894), i dipinti e i disegni della maturità: “Marie al sepolcro”, “Deposizione”, “Gesù che cammina sulle acque”, “Monaco in meditazione”, “Testa di Gesù”, “Mosè e il roveto ardente”, “Padre dell’artista”, “Suonatore sulla neve”, “Testa di frate”, “Testa di vecchia”.
Carmelo Tripodi sviluppò una sua personalissima arte nella lavorazione di stucchi, creta e cartapesta, ancora oggi apprezzabile nel “Sacro Cuore di Gesù” della chiesa di Sant’Eufemia e nel “Cristo alla Colonna” della Processione dei Misteri. Altre sue opere sono custodite in alcune chiese della provincia di Reggio Calabria: “Il battesimo di Gesù”, “Abramo sacrifica Isacco”, “Giuditta e Oloferne” nella chiesa di San Rocco ad Acquaro di Cosoleto; “Le pie donne al sepolcro” nella chiesa della Pietà di Gioiosa Ionica. Per la chiesa dell’Addolorata di San Procopio realizzò invece l’Altare del Crocifisso; per la chiesa del Soccorso di Palmi, quattordici pannelli raffiguranti la Via Crucis (1937) e la pala d’altare “I miracoli di Santa Rita” (1940). Tra i lavori di architettura va ricordata la progettazione e la costruzione della chiesa in legno della Madonna del Carmelo, a Solano (1911).
La realizzazione di numerosi ritratti, oltre a farci “vedere” i volti del tempo, costituiva una fonte importante per il sostentamento della famiglia, al pari del restauro delle tele e delle statue di diverse chiese della provincia o delle commissioni, che non erano soltanto di carattere religioso. Tra il 1926 e il 1929, Tripodi a Sant’Eufemia realizzò in stucco l’intercolunnio e le decorazioni interne della chiesa del Suffragio e di quella del SS. Rosario; nel 1927, decorò le pareti delle sale del “Podestà” e della “Segreteria”.
I suoi interessi si estendevano inoltre ai campi della musica e della fotografia, che a inizio Novecento incominciò a raggiungere anche i piccoli comuni. Straordinari sotto il profilo tecnico e dall’elevatissimo valore storiografico gli scatti che testimoniano la distruzione del paese e la sofferenza della popolazione eufemiese nel terremoto del 1908.
Carmelo Tripodi è stato un artista poliedrico, la cui memoria va perpetuata: «Deve rispondere a un imperativo morale – ha scritto Renato Civello – sottrarre alla impietosa coltre del silenzio una identità che ebbe voce e sostanza totale di vita. Riscoprire personaggi come Carmelo Tripodi potrà concorrere, fra le devianze e gli smarrimenti del nostro tempo, a rintracciare una presenza salvifica perché tutto quello che egli creò fu dono di verità».
Primo Maggio
Sarebbe più onesto parlare di commemorazione, visto che c’è poco da celebrare. Non solo per il dato spaventoso dei morti sul lavoro nel 2023: 1.041, quasi tre al giorno. Mai come nel quarto articolo è evidente lo scarto tra le nobili intenzioni dei padri costituenti e l’attuazione dei principi costituzionali: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società». Belle parole, le più belle che potessero essere scritte. Buoni propositi che si scontrano però con la realtà.
La realtà dei circa 3 milioni di precari o dei 5 milioni di sottopagati (il 30% del totale).
La realtà di quasi 6 milioni di individui in povertà assoluta.
La realtà dei 21 punti di differenza tra il tasso di occupazione nel Nord (69,4%) e quello del Mezzogiorno (48,2%), dove il tasso di disoccupazione è circa tre volte superiore rispetto alle regioni settentrionali.
La realtà del caro affitti, che a Milano ha raggiunto l’aumento record del 19,2% nel biennio 2022-2023.
La realtà del 20% delle lavoratrici costrette a licenziarsi quando diventano madri, perché è impossibile conciliare lavoro e assistenza ai figli laddove sono scarsi i servizi di supporto, se non si può contare sul sostegno di una rete familiare.
La realtà del carovita, del calo dei risparmi e della perdita spaventosa del potere d’acquisto dei salari. Mentre i carrelli della spesa delle famiglie sono sempre più vuoti, 4,5 milioni di italiani rinunciano a curarsi, perché non ne hanno la possibilità e perché il sistema sanitario nazionale non riesce a soddisfare le richieste in tempi decenti.
La realtà di una frattura sempre più profonda tra lavoratori tutelati e lavoratori non tutelati, tra privilegiati e sfruttati.
La realtà della vittoria del capitalismo e del suo modello culturale fondato sulla società dei consumi, del suo cinismo e della sua arroganza.
La realtà della compressione progressiva di ogni spazio di sicurezza, libertà e dignità.
Alla faccia dell’articolo quattro della Costituzione.
Condannati a morire in cella: quando lo Stato dimentica i detenuti malati
Novanta morti all’anno. Uno ogni quattro giorni. Una strage di malati che si consuma tra le sbarre delle carceri italiane nel silenzio quasi assoluto. Già fanno fatica a guadagnare qualche titolo di giornale i casi, più eclatanti, dei suicidi: già 32 in questo infausto primo quadrimestre del 2024. Figurarsi lo spazio che possono ricevere i detenuti morti nei penitenziari italiani per “cause naturali”: il conteggio di Ristretti Orizzonti è al momento fermo a quota 44. Uomini e donne senza volto e senza nome, per i quali non è concesso il sentimento dell’umana pietà. Un dato che in realtà sarebbe ancora più drammatico, se solo si potesse disporre dei numeri sui decessi che avvengono quando, finalmente, vengono applicati gli articoli 146 e 147 del codice penale sul differimento della pena per le persone gravemente ammalate, che finiscono per morire poco dopo il loro arrivo a casa. I fautori del “buttate le chiavi”, cinicamente, sostengono: sarebbero morte ugualmente. Eppure è notoria la correlazione tra stato detentivo e scatenamento o peggioramento delle malattie.
In prigione si muore di infarto, per le complicazioni di patologie mal curate, per malattie croniche. Muoiono i giovani; ma ancor più – è ovvio – muoiono gli anziani. In carcere si muore da soli, senza il conforto di un familiare, perché lo Stato italiano non riesce a conciliare il diritto soggettivo di morire dignitosamente con la pulsione securitaria di una larga fetta della popolazione.
Le ragioni di questa ecatombe sono molteplici. Il pregiudizio per il quale il detenuto che lamenta qualche malessere generalmente viene considerato un simulatore in cerca di qualche beneficio. La carenza drammatica di personale e attrezzature sanitarie, più volte denunciata sulle colonne de “Il Dubbio” da Damiano Aliprandi: medici precari e difficoltà nell’assegnazione sulle 24 ore, turni infernali, con un solo infermiere responsabile anche di 600 detenuti; liste di attese infinite per visite specialistiche o interventi chirurgici. A tal proposito, dovrebbero pesare come un macigno sulle coscienze dei nostri governanti le parole severissime del garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello: «Credo che la nostra società e le nostre Istituzioni non siano rispettose dei diritti umani dei detenuti».
Non possono esserlo, quando i Tribunali si rifugiano in dichiarazioni di compatibilità con lo stato di detenzione perché “il quadro polipatologico è caratterizzato da patologie di natura cronica, certamente meritevoli di controlli periodici, alcuni anche quotidiani, agevolmente (il sottolineato è mio) gestibili all’interno del circuito penitenziario”. Così agevolmente che un detenuto può morire appena ottiene la sostituzione della misura coercitiva della custodia cautelare in carcere con quella degli arresti domiciliari, o andarci vicino.
L’accanimento dello Stato nei confronti dei detenuti malati è a volte indecente, oltre che incostituzionale, se si tiene a mente il senso di umanità cui fa riferimento l’articolo 27 della nostra Carta. Senza che si abbia nemmeno l’onestà di ammettere che in Italia è ancora in vigore la pena di morte, in una variante ipocrita, vigliacca e per questo ancora più intollerabile.