Sette mesi in cella per errore. Lo Stato risarcisce Forgione

Articolo di Simona Musco (Il Dubbio, 25 gennaio 2025)
Ha trascorso sette mesi in carcere ingiustamente, a causa di uno scambio di persona che poteva essere chiarito con una semplice perizia fonica, che ha chiesto sin dal primo momento. E cinque anni dopo, la Corte d’Appello di Reggio Calabria ha risarcito Domenico Forgione, storico calabrese, giornalista e autore di diversi saggi, accusato ingiustamente di associazione mafiosa.
Forgione era finito agli arresti il 25 febbraio 2020, giorno in cui in cui gli abitanti di Sant’Eufemia d’Aspromonte, poco meno di 4mila anime in provincia di Reggio Calabria, hanno visto portar via in manette il sindaco, il vicesindaco, il presidente del consiglio comunale e lui, consigliere di minoranza. Forgione si è però sempre dichiarato estraneo ad ogni accusa, fornendo prove e documenti della sua innocenza. La sua posizione si trovava in sole 17 pagine su 4mila, in un’intercettazione tra tre soggetti, uno dei quali è tale “Dominique”. Lui, nato in Australia, tra gli affetti più cari è conosciuto proprio con questo nomignolo. Ma l’uomo intercettato non era lui.
Da qui la richiesta immediata di una perizia fonica, mai concessa causa covid. La difesa, allora, ne produce una propria, comparando l’interrogatorio di garanzia con l’audio dell’intercettazione. E il risultato è scontato: la voce non è la sua. Ma non solo: il giorno in cui “Dominique” viene intercettato, infatti, Forgione è a giocare una partita di calcetto. E non ci sarebbe il tempo materiale per arrivare al ristorante dove i tre conversanti si trovano. La perizia arriva solo a settembre, usando lo stesso metodo utilizzato dalla difesa. E il risultato è identico: la voce non è la sua. Così, sette mesi dopo, Forgione esce dal carcere e la sua posizione, dopo poco, viene archiviata. Sebbene sarebbe bastato poco per evitare un trauma inutile.
La Corte d’Appello di Reggio Calabria, il 23 dicembre scorso, ha dunque accolto la richiesta di risarcimento presentata dall’avvocato Pasquale Condello, riconoscendo il danno subito a causa della ingiusta custodia cautelare nell’ambito dell’operazione “Eyphemos”. «Ad avviso della Corte – si legge nell’ordinanza -. non sono rinvenibili nella condotta del ricorrente profili di colpa grave ostativi al riconoscimento dell’indennizzo». Forgione, infatti, sia in sede di interrogatorio di garanzia che durante l’interrogatorio del 14 dicembre 2020 davanti al pm, chiesto dallo stesso Forgione dopo la chiusura delle indagini, «ha sempre professato la propria estraneità agli addebiti contestati, affermando di non essere lui il “Dominique” dialogante nelle conversazioni captate, fornendo specifiche spiegazioni in ordine alle condotte contestate e respingendo con fermezza gli addebiti mossi nei suoi confronti». Inoltre, a sostegno della propria versione, «aveva prodotto documentazione probatoria e adottato sin da subito un comportamento collaborativo».
Quanto al pregiudizio subito, la Corte ha adeguato la somma liquidata con una maggiorazione per «le sofferenze morali patite a causa della diffusione mediatica dell’arresto». A ciò si aggiunge «il maggior patimento che è disceso a Forgione dall’aver sin da subito professato la propria estraneità ai fatti e dall’essersi adoperato in tal senso, anche attraverso la sua difesa». Un aumento motivato anche dal “disturbo d’ansia con stress psicofisico e deflessione dell’umore” sviluppato a seguito dell’arresto.
Infine, la Corte ha riconosciuto anche il danno all’immagine conseguente allo “strepitus fori”, data la diffusione mediatica della notizia del suo arresto. «Nella valutazione di detto pregiudizio, infatti, non potrà non considerarsi la gravità dell’ipotesi delittuosa prospettata a carico del ricorrente e l’attività di giornalista pubblicista esercitata dallo stesso – si legge -. È evidente, pertanto, la maggiore propagazione mediatica della notizia derivata dalla notorietà del personaggio, necessariamente e intrinsecamente connessa alla “visibilità” e “popolarità” che caratterizza il ruolo di giornalista esercitato da Forgione e la relativa categoria professionale di appartenenza».
«Il cratere aperto dalla bomba che mi è esplosa dentro il 25 febbraio 2020 non si chiuderà mai – commenta al Dubbio Forgione -. Prendo atto dell’accoglimento dell’istanza, ma non posso nascondere che si è rotto qualcosa a livello sentimentale nei confronti di uno Stato che, pur avendo riconosciuto l’errore, è stato ed è capace di una violenza cieca nei confronti dei suoi cittadini. Ho toccato con mano e l’unico aspetto positivo della mia vicenda sta proprio nella consapevolezza della necessità di denunciare una giustizia che spesso si rivela ingiusta, con il corollario di un trattamento penitenziario disumano. Ma delle condizioni carcerarie, della barbarie della carcerazione preventiva, degli abusi delle misure di prevenzione, realmente non importa quasi a nessuno. L’Italia non sarà mai un Paese normale fino a quando ci sarà questa destra, capace solo di introdurre nuovi reati e di proporre la costruzione di nuove prigioni per risolvere il problema del sovraffollamento carcerario, e questa sinistra ipocrita, pronta a cavalcare l’onda giustizialista per qualche misero voto in più».

Sito originale: Il Dubbio (Sette mesi in cella per errore. Lo Stato risarcisce Forgione)

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Il calendario del Dado Galeotto

Dado Galeotto è il protagonista del calendario da tavolo di Ristretti Orizzonti, appuntamento ormai tradizionale per chi si occupa di tematiche carcerarie. Ristretti Orizzonti è un bimestrale che racconta la vita del carcere, scritto da persone detenute e edito dall’associazione Granello di Senape di Padova. L’associazione è attiva nella promozione di percorsi di reinserimento dei detenuti, fedele al significato della parabola biblica: il più piccolo dei semi diventa una pianta sui cui rami gli uccelli si posano. Attività portata avanti anche da AltraCittà, cooperativa padovana nella quale sono occupati una quarantina di ex detenuti: lavoro per conto terzi, legatoria e cartotecnica artigianale, rilegatura e restauro libri, servizi archivistici, gestione biblioteche, digitalizzazione.
Alla rivista si affianca il progetto “A scuola di libertà”, grazie al quale ogni anno circa 5.000 studenti entrano in carcere e i detenuti nelle scuole, alla ricerca di un dialogo necessario per comprendere che le persone non sono il reato commesso e che il superamento dello stigma può dare buoni risultati nella prevenzione dei reati.
Nella cooperativa AltraCittà lavorava come grafico il freelance Graziano Scialpi, entrato in carcere nel 1996 e morto nel 2010 per un tumore al polmone diagnosticato con molto ritardo, dopo una serie di rifiuti alle richieste di essere sottoposto a visita medica: si sa, chi in carcere dice di stare male è soltanto un simulatore.
Redattore di Ristretti Orizzonti e “disegnatore per caso”, Scialpi è stato il creatore di Dado. Le sue vignette avvalorano le celebri parole di Dostoevskij («La tragedia e la satira sono sorelle e vanno di pari passo; tutte e due prese insieme si chiamano verità») e raccontano il carcere con l’arma dell’ironia, facendo ridere e riflettere su tematiche gravi e ataviche: sovraffollamento, autolesionismo, benefici, recidiva, rieducazione e reinserimento sociale.
Nel 2008 Scialpi ribadiva la necessità di «Fare in modo che il carcere, se ci deve essere, abbia un senso. Perché, così come è ora, il carcere genera esso stesso vittime, ed è da questo dato di fatto che bisogna partire». Diciassette anni dopo, il carcere in Italia non è cambiato di molto. Il dossier “Morire di carcere”, aggiornato quotidianamente da Ristretti Orizzonti, dimostra che il 2024 è stato l’anno peggiore, con 90 suicidi e 156 detenuti morti per “altre cause” (malattia, overdose, omicidio, cause “da accertare”). E l’inizio del 2025, con già 19 decessi registrati in totale, non sembra affatto indicare un’inversione di tendenza.
Chi entra in carcere si scontra con una realtà che stride con il dettato costituzionale. Il calendario accende i riflettori, sensibilizza: «Il Dado Galeotto – ha dichiarato Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti e responsabile del volontariato nazionale nelle carceri – ci ricorda che le condizioni del carcere non migliorano. I numeri del sovraffollamento e dei suicidi crescono drammaticamente. Questo calendario è uno strumento di denuncia e speranza».

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Il nuovo logo dell’Agape

Per l’anno appena iniziato, l’Associazione di volontariato cristiano “Agape” non ha soltanto voluto regalarsi un nuovo logo, realizzato con la sua riconosciuta maestria da Gresy Luppino. La nuova veste impegna i volontari ad un impegno ulteriore rispetto a quanto è stato ben fatto da chi c’è stato e da chi ancora c’è, dopo oltre trent’anni di attività al servizio della comunità eufemiese.
Sono volontario dell’Agape da 27 anni, l’associazione è parte importante della mia vita. Siamo cresciuti insieme, insieme abbiamo affrontato e superato le difficoltà che si sono nel tempo presentate. Ricordo riunioni in tre, o visite effettuate in due, senza per questo avere mai pensato di mollare. Vedere che in questo ultimo anno ci sono stati nuovi ingressi, non può che fare piacere.
Abbiamo sempre sentito la responsabilità e l’onore di fare qualcosa che va oltre le nostre stesse persone. Quando c’è da fare una cosa, va fatta e basta. La molla è sempre quella. Perché i campi di intervento sono tanti, ma i modi per farci fronte spesso sono più a portata di mano di quanto possa sembrare. Serve solo capacità d’ascolto e buona volontà.
Spesso ci rendiamo conto che basta poco, che l’attenzione è davvero ciò di cui c’è bisogno. Ma non si può leggere una comunità restando chiusi in casa. Nelle case – piuttosto – occorre entrarci. Per un volontario è questo il più grande motivo di orgoglio. Senza la fiducia dell’altro, senza una solida credibilità, non si entra da nessuna parte; e non si dura trent’anni e passa.
Non è stata una decisione presa a cuor leggero. Al vecchio logo, molto bello e realizzato da Sarino Surace, eravamo parecchio affezionati. Inciso su una croce di legno, ci ha accompagnato in tutti questi anni ovunque. Mi piace ricordare, tra i tanti momenti, quelli per me più significativi: il pellegrinaggio a Lourdes nel 2011 e il Giubileo degli ammalati e delle persone disabili nel 2016.
Però era necessario cambiare. I motivi li ha spiegati bene Gresy nel post di presentazione del logo: «Nell’era del cambiamento e della crescente globalizzazione avevamo bisogno di una nuova rappresentazione visuale che comunicasse, specie a chi ancora non ci conosce o ci conosce poco, chi siamo e cosa facciamo. […] abbiamo voluto che il cuore simbolo per eccellenza dell’amore, sede dei sentimenti e delle emozioni, rappresentasse la nostra nuova identità. A rafforzare il concetto una mano che è segno invece, di azione, fiducia e sicurezza».
Al logo è seguita la creazione delle pagine Facebook e Instagram, che nella nostra idea dovranno diventare non soltanto lo strumento di diffusione delle attività dell’Agape, ma anche una sorta di finestra sul mondo del volontariato nel suo complesso e sulle tante “buone azioni” che si registrano un po’ ovunque, anche se fanno meno notizia rispetto al brutto che ci circonda.

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Il pescatore di De André

La giornata volge al termine, un sole pallido sta per intascarsi dietro la linea dell’orizzonte. Un vecchio pescatore approfitta del tepore serale per riposare le stanche membra. La sabbia della spiaggia non scotta più. I suoi occhi si chiudono come in una tregua dalla fatica di vivere, sul viso solcato da rughe profonde. Una in particolare sembra esprimere serenità, “come una specie di sorriso”. Ricorda i vecchi mummioni di D’Arrigo, legni secchi e impregnati di salsedine che leggono il tempo e detestano lo scirocco, vento subdolo e cascittone.
A violare la pace del tramonto, irrompe sulla scena un assassino, arrivato da chissà dove. Non è dato sapere cosa esattamente gli sia successo. Sappiamo però che è un uomo in fuga, con due occhi grandi da bambino. Un indizio che rimanda ad una condizione di innocenza. I bambini sono innocenti. Occhi grandi di paura, spaventati dall’enormità commessa, forse per necessità, o dalle conseguenze che l’azione delittuosa potrebbe comportare. Un delitto è un delitto, ma Fabrizio De André non si erge mai a giudice: «al vostro posto non ci so stare», dirà anni dopo il detenuto di “Nella mia ora di libertà”, rivolto a uomini e donne di tribunale.
Sulla spiaggia ora ci sono soltanto due uomini. Un vecchio pescatore e un assassino affamato e assetato. L’assassino chiede da bere e da mangiare, il pescatore apre appena gli occhi e “senza neppure guardarsi intorno”, versa da bere e spezza il pane “per chi diceva ho sete, ho fame”. Non importa cosa l’assassino avesse fatto prima: ora, al cospetto del pescatore, c’è un uomo bisognoso d’aiuto.
“Il pescatore” è una parabola laica. I riferimenti evangelici sono evidenti: siate pescatori di anime, dice Cristo agli apostoli, molti dei quali erano effettivamente pescatori. E il pescatore ha molto del Gesù che scrive distrattamente per terra, mentre la giustizia umana vorrebbe lapidare la Maddalena, prima delle fatidiche parole: «Chi di voi è senza peccato, scagli la prima pietra». D’altronde il brano esce nel 1970, poco prima dell’album “La buona novella”, esito artistico di un intenso studio dei Vangeli apocrifi.
Il conforto dura un momento, poi l’assassino riprende il suo cammino verso il vento (la libertà), la mente affollata da ricordi dolorosi e dalla nostalgia per l’infanzia, quando ancora la felicità era a portata di mano: «il rimpianto di un aprile giocato all’ombra di un cortile».
Ma c’è anche una chiave di lettura politica. L’insofferenza dell’anarchico De André nei confronti del potere costituito, dell’autorità con e senza divisa: «non esistono poteri buoni», sarà la conclusione del protagonista di “Nella mia ora di libertà”.
Se di fronte all’uomo in fuga il pescatore esce dal suo torpore, altrettanto non accade quando due gendarmi trafelati gli chiedono se da lì fosse passato un assassino. Il pescatore finge infatti di dormire e non dà alcuna risposta; i gendarmi proseguiranno invano l’inseguimento, imboccando probabilmente la direzione sbagliata.
Un atto rivoluzionario, come fu la vita di Gesù di Nazareth (“è stato ed è rimasto il più grande rivoluzionario di tutti i tempi”, dirà il cantautore introducendo “La buona novella”), che trasforma “un” pescatore ne “il” pescatore della strofa finale, archetipo universale di una visione scandalosa della giustizia, capace finalmente di inverarsi in carità e pietà.

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Buon 2025

Erri De Luca ricorda che – secondo un vecchio proverbio – tre anni dura una siepe, tre siepi un cane, tre cani un cavallo, tre cavalli un uomo. Nelle sue tre fasi, l’andatura della vita umana ricalca il ritmo del cavallo: al galoppo nella gioventù, al trotto in età adulta, al passo quando gli anni cominciano a pesare. «Ma il tempo, il tempo chi me lo rende?», si chiede Francesco Guccini nell’intimo brano “Lettera”.
Senza il tempo non ci sarebbe la vita, costretti come siamo tra un inizio e una fine. Ed è inevitabile – ogni volta che la punta della biro punge il foglio – riflettere sugli anni che passano, con il loro carico di nostalgia. Con assenze che diventano buchi neri nei quali si rischia di affogare, quando sulle sedie vuote lampeggia il conto alla rovescia di una ricorrenza. Chiedersi se sia andata come avremmo desiderato, o se piuttosto il punto sia una liberazione, da trasformare in un trampolino dal quale saltare in groppa al futuro.
Chiunque commette errori, ha rimpianti, riscriverebbe qualche pagina scarabocchiata male. Ma viviamo nel presente e, ogni volta, è sempre una novità. Siamo ciò che siamo in una determinata circostanza, non le inutili ruminazioni del senno di poi.
Non ha senso la camicia di Nesso di ciò che poteva essere e non è stato. Vivere “bene” presuppone una buona dosa di accettazione, che non è rassegnazione, bensì la consapevolezza che l’esperienza è un’invenzione del giorno dopo.
Bisognerebbe abbandonarsi al mistero del viaggio, ai suoi incontri e alle sue emozioni. Gustare il bicchiere mezzo pieno, non recriminare sulla metà vuota. Riscoprire il fascino della lentezza per riuscire ad apprezzare il paesaggio, ascoltare il vento, avvertire colori e odori di un’avventura comunque affascinante. Farne post-it da attaccare all’anima, come gli attimi collezionati da Heinrich Böll.
“Richiamare in cuore” è l’etimologia della parola ricordo, che procede a passo lento, ma deciso, per contrastare l’oblio che incombe sul frenetico usa e getta di giornate uguali. Un viaggio, anche questo, che richiede occhi indomabili.
E allora buon anno a chi ha un motivo per non arrendersi e a chi, pur non intravedendolo tra i nuvoloni gravidi di pioggia, non smette mai di cercarlo.

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Il Natale di solidarietà dell’Agape

Si è concluso con la tradizionale tombolata il ciclo di iniziative del “Natale di solidarietà dell’Agape”. La serata è stata anche l’occasione per fare una sorta di consuntivo delle attività svolte nel corso dell’anno, grazie soprattutto – giova ribadirlo – al contributo e al credito che la comunità accorda oramai da più di trent’anni all’associazione. Affetto, generosità e fiducia spiegano ciò che l’Agape è riuscita a costruire nel tempo, con l’impegno dei suoi volontari e con il supporto morale ed economico dei cittadini comuni, degli esercenti e delle istituzioni. Altra parola chiave è “sinergia”, la collaborazione cioè con associazioni e realtà impegnate nel sociale. Il “Natale di solidarietà” ne è stata concreta prova in tutte le sue fasi. A partire dalla consegna dei doni natalizi ai partecipanti alla colonia estiva, che si è svolta nel teatro della Scuola dell’infanzia paritaria “Padre Annibale Maria di Francia”. Una serata all’insegna del divertimento, con canti, balli e l’apparizione di Babbo Natale.
A seguire, la visita agli ospiti della residenza sanitaria per anziani “Prof. Mons. Antonino Messina” in collaborazione con il Coro polifonico “Cosma Passalacqua”, che ha eseguito brani natalizi, mentre i volontari dell’associazione presieduta da Iole Luppino hanno recitato alcune poesie sul Natale. E sempre il coro parrocchiale, in occasione del concerto di Natale in vernacolo “A bona novella”, ha voluto dimostrare la propria vicinanza all’Agape destinandole il ricavo di una riffa.
Ancora, la sorpresa organizzata per un bambino che nella letterina a Babbo Natale aveva confessato di non avere mai ricevuto regali: «Ti prego, vieni a casa mia con gli elfi e portami i Lego, tanti vestiti, caramelle, quaderni, penne colorate». Desiderio che è stato possibile esaudire grazie alla disponibilità dei “Ragazzi di quartiere”, con i quali è stato preparato l’incontro presso il teatro della “Annibale Maria di Francia”.
La tombolata chiude un anno difficile per diversi volontari, colpiti negli ultimi dodici mesi da pesanti lutti familiari. Ad Adelina Luppino, che manca dal 2007 e che oggi avrebbe compiuto sessant’anni (non a caso la tombolata cade intorno a tale data), si sono aggiunte nel 2024 persone molto care all’Agape: «Ci siamo lasciati lo scorso anno – si leggeva nel video proiettato nel montaggio di fotografie proiettato all’inizio della serata – così numerosi, pieni di buoni propositi e speranze per l’anno che sarebbe da lì a poco arrivato. Abbiamo stilato programmi nuovi e fatto viaggi interessanti, ma abbiamo anche pianto per aver perso persone a noi tanto care. Il ricordo della loro preziosa amicizia difficilmente svanirà ma soprattutto di un sorriso in particolare non ci dimenticheremo». Sullo sfondo, il sorriso del piccolo Giuseppe. Ci piace pensare che lui e gli altri amici venuti a mancare siano stati, ieri sera, felici insieme a noi. Come un tempo.

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La panchina di Vincenzo

Ho perso un amico. Può apparire insolito adoperare un termine, già di per sé impegnativo al giorno d’oggi, in riferimento al rapporto istauratosi tra due uomini anagraficamente così distanti. Eppure gli ottantacinque anni di Vincenzo Martino non sono stati di ostacolo alla bella amicizia che c’è stata tra noi. Merito suo, uomo d’altri tempi capace di misurarsi con questi tempi senza recedere un centimetro dalle sue salde convinzioni, dal valore irrinunciabile del rispetto e dalla sacralità della parola data. Un uomo austero, intransigente, essenziale come le frasi non sprecate, mai fuori luogo. Ho avuto il privilegio di apprezzarne la coerenza e il rigore morale grazie ad una frequentazione diventata via via assidua. Quotidiana come il caffè consumato al bar ogni mattina, o seduti sulla panchina sotto casa sua: un piacevole pretesto per vedersi, per stare un po’ insieme e per confrontarsi su ciò che leggevamo sui giornali, ascoltavamo in televisione, vedevamo accadere in paese. Dal globale al locale, il suo punto di vista mi interessava; la stessa cosa valeva per lui.
Quando poi il passato prendeva il sopravvento, i suoi racconti mi portavano in un mondo che non ho conosciuto ma che ho potuto rivivere attraverso i suoi occhi. Ho ascoltato con riverenza i suoi ricordi degli anni Quaranta e Cinquanta del secolo scorso, la dura vita dei contadini, il sudore e il sangue di esistenze che hanno regalato a chi è venuto dopo un orizzonte diverso. Il lavoro nei campi con il padre («Lui sì che era un comunista vero. Oggi non ce ne sono più; neanche io lo sono»), a zappare la terra o a “rampare” gli uliveti. Il paese attraversato zappa in spalla di buon mattino, a volte inutilmente se il maltempo costringeva la squadra dei braccianti a fare ritorno a casa, a mani vuote dopo un paio d’ore di cammino all’andata e altrettante al ritorno. I muri tirati su a Gambarie, dove ci eravamo riproposti un giorno di andare, affinché io vedessi. Le stagioni alla guida dell’Ape per portare nei mercati i prodotti dei contadini delle nostre campagne. Gli anni da operaio delle Ferrovie, inizialmente sulla ionica, poi a Gioia Tauro.
Alla propria famiglia ha donato tutto sé stesso, dai figli e dai nipoti ha ricevuto amore smisurato, attenzione e cura.
Comunista tutto d’un pezzo, la sua più grande passione è stata la politica intesa come appartenenza («Al Partito volevo bene come a mio padre»), lotta contro le ingiustizie sociali e per il riscatto degli ultimi. Il voto come diritto, ma soprattutto dovere («Non votare, per me, sarebbe come per un credente non entrare in chiesa. Lo farò finché avrò la forza di respirare»), da assolvere il prima possibile, magari aspettando all’ingresso della sezione l’arrivo dei componenti del seggio elettorale.
Fu al mio fianco quando fui candidato a sindaco. Ci mise cuore ed impegno senza risparmiarsi, con coraggio e lealtà perché ci credeva. E questo è stato per me il più bel regalo. Abbiamo parlato molto negli ultimi anni: delle sue parole spero di fare tesoro, ora che mi mancheranno.

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Nel nome di Sant’Ambrogio

Un lungo filo rosso tiene insieme solidarietà e memoria, facendo rivivere una storia lontana ma viva, una prova di umanità che da oltre un secolo lega Sant’Eufemia a Milano e al culto di Sant’Ambrogio.
Il terremoto del 28 dicembre 1908 distrusse l’intero paese. Il numero delle vittime non è mai stato accertato con esattezza: l’elenco stilato dall’arciprete Luigi Bagnato si ferma a 530 vittime, che diventano circa 700 per la giunta comunale del tempo; ma secondo altre fonti, i morti potrebbero essere stati molti di più, superiori al migliaio. Duemila i feriti, una percentuale di patrimonio edilizio perduto pari all’85%.
Nella testimonianza del medico eufemiese Bruno Gioffrè il primo ad arrivare a Sant’Eufemia fu il vescovo di Mileto, Giuseppe Morabito: «Solo il primo gennaio del 1909, Capodanno tristissimo, si vide la prima faccia umana, e fu il Vescovo della Diocesi, Monsignor Morabito, con un carro di viveri e con parole di soave conforto».
Il giorno dopo giunsero i volontari del Comitato Lombardo di Soccorso. L’ingegnere Antonio Pellegrini, che redasse la relazione sul lavoro svolto dal comitato, illustrò la divisione dei compiti tra medici, ingegneri e semplici volontari: «Ingegneri e muratori alle demolizioni, all’estrazione dei cadaveri, al recupero di masserizie; medici, volontari, infermieri alla ricerca dei feriti e degli ammalati, alle medicazioni, alla disinfezione dei cadaveri. Né solo questo fu l’aiuto primo portato agli eufemiesi; la povera popolazione, affamata e lacera, ebbe in quantità pane, galletta, carne, pasta, biancheria, coperte, abiti».
Nei terreni della Pezza Grande, sui quali inizialmente erano state sistemate le tende della Croce Rossa, furono costruite tre strade lunghe 140 metri e larghe 10. Enorme fu anche il contributo della Croce Verde, la quale – oltre alle numerose casse di medicazione, medicinali, tende e coperte – aveva inviato sui luoghi del disastro l’Automobile Ospedale “Pompeo Confalonieri”: «Centro dell’ambulatorio – si legge in una relazione del tempo – era l’automobile ospedale, che con i suoi fianchi aperti e colle larghe tende, riparava i malati più gravi, ricoverava le donne ferite per le medicazioni; e sembrava dimostrare che la fraternità di Milano era venuta grande e premurosa ad allargare le sue braccia in sollievo degli sventurati».
Nel mese di marzo fu inaugurato l’ospedale “Milano”. Al completamento dei lavori, il nuovissimo rione “Città di Milano” contava 759 baracche, capaci di ospitare 2.000 sfollati. Il comitato lombardo di soccorso costruì inoltre l’acquedotto, tre fontane pubbliche, un lavatoio coperto e una piccola chiesa (6 metri per 16), al cui interno fu collocata la statua di Sant’Ambrogio, patrono di Milano, donata alla comunità eufemiese dall’allora cardinale meneghino, Andrea Carlo Ferrari.
Il 9 marzo, dopo avere ricevuto il parere favorevole dell’amministrazione comunale milanese guidata dal senatore Ettore Ponti, il commissario prefettizio Consalvo Cappelli deliberò che la bandiera della Città di Milano, Croce Rossa in campo bianco, fosse da quel giorno la bandiera del Comune di Sant’Eufemia.
Il vincolo di solidarietà e di amicizia che lega Milano e Sant’Eufemia è stato per quasi quattro decenni rinvigorito dall’attività dell’Associazione culturale “Sant’Ambrogio”, costituita nel dicembre del 1975 e promotrice sul finire degli anni Settanta del gemellaggio tra le due città. Più volte una sua delegazione ha partecipato come “ospite d’onore” alle celebrazioni ambrosiane che si tengono a Milano presso la Basilica di Sant’Ambrogio. Nell’edizione del 2001, il presidente Vincenzino Fedele ritirò, a nome dell’associazione, il prestigioso “Ambrogino d’Oro”.

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Tutto è bene quel che finisce bene

Sant’Eufemia è tornata al suo posto. Nei giorni scorsi avevo dato la spiacevole notizia della scomparsa della statuetta di Sant’Eufemia che da tre anni si trova nella chiesa di Ognissanti a Londra. Con la statua, erano anche scomparsi il piccolo altare, le piante e i fiori: un trafugamento inspiegabile, ma anche misterioso per le sue modalità.
Ad aggiungere mistero al mistero, è di oggi la bella notizia che altare, statuetta, piante e fiori sono nuovamente al centro di una delle finestre della All Saints Church New Cross.
Può darsi che chi ha commesso il furto sacrilego si sia in un secondo momento ravveduto. Chissà, forse come nel Canto di Natale di Dickens, l’avvicinarsi del Natale ha aperto il cuore del novello Scrooge.
Oppure che abbia ragione Padre Grant, il quale ha così commentato la scoperta fatta una volta entrato in chiesa: «Forse qualcuno ha avuto bisogno di averla accanto per qualche giorno, per trovare conforto nella sua presenza. Il suo ritorno è un invito a non perdere mai la speranza sulla natura generalmente benigna dell’essere umano».

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Rubata a Londra la statuetta di Sant’Eufemia

Del piccolo altare è rimasta solo l’ombra sul muro, come i segni lasciati sulle pareti del castello Voltaire dai mobili che non ci sono più, nel celebre romanzo Atlante occidentale di Daniele Del Giudice.
Accostato di lato, anche il pannello illustrativo che racconta la storia di Sant’Eufemia infonde mestizia. Spariti anche i fiori e le piante. Sparita, ovviamente, soprattutto lei, la statuetta della patrona che tre anni fa con mio fratello Mario avevamo deciso di fare arrivare a Londra (Sant’Eufemia a Londra) e che era stata collocata al centro di una delle finestre della All Saints Church New Cross, la chiesa di Ognissanti in stile neogotico distante una trentina di minuti da Trafalgar Square.
Grande accoglienza allora, sintetizzabile nelle parole di una parrocchiana della multietnica comunità di New Cross: «È bellissima, ha l’aspetto di una che ascolta. Le porterò dei fiori: tutti meritiamo di essere ascoltati».
E grande amarezza oggi, che il giovane parroco Padre Grant non ha nascosto nel momento in cui ha dovuto comunicare l’accaduto: «Purtroppo questo è il mondo in cui viviamo, dove una cosa del genere diventa accettabile, perché non sorprende».
In effetti, i tempi questi sono… Ma ci riproveremo.

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