
Caro Totò,
sembra ieri e invece sono trascorsi già dieci anni. Sapessi quante cose ti sei perse. Per alcuni versi forse è meglio così. Ti vedo, Totò: l’immagine è quella consueta, ripetuta negli anni. Arrivi con la tua Punto (sì, sempre lei: più scassata di allora, ma tenace come te), accosti e vai subito al sodo: «Dai, facciamo una chiacchierata, che argomenti di discussione ce ne sono». Quindi accendi una sigaretta, giochi con l’accendino sul tavolino del bar e inizi a parlare, con quel tuo inconfondibile timbro di voce.
La prima stoccata è per qualche collega autore di strafalcioni grammaticali e sintattici. Roba da marchiare con un bel tratto di penna rossa. O da riderci su, come a te piaceva fare nonostante l’incazzatura. Pensa, Totò: oggi è peggio di ieri. Nell’ultimo decennio c’è stato un impazzimento generale. Dieci anni fa ancora i social non avevano completamente invaso le nostre vite; per alcuni oggi diventati la vita vera. Sappiamo tutto: cosa la gente mangia o non mangia, quando esce e con chi, dove trascorre le vacanze, la straordinarietà della vita di ognuno, costellata – ça va sans dire – di successi memorabili che dovremmo, pare, tutti memorare. Chiunque scrive su qualsiasi argomento, fotografa, documenta, posta in maniera compulsiva. E pazienza se la lingua italiana ormai è diventata un optional per “professoroni” da perculare. Si indigna la gente, Totò: soprattutto si indigna. Peppe Voltarelli dovrebbe aggiornare la sua celebre canzone: “lamentarsi come ipotesi” non basta più. Bisogna indignarsi. Indignarsi. Indignarsi ancora.
Lo so, ora inizierai a parlarmi di università. Lascia stare, non pensare alla tua facoltà di Magistero ai tempi del preside Mazzarino. Molte università – ahinoi anche pubbliche – sono diventate dei laureifici. E poi oggi c’è l’intelligenza artificiale, con quella puoi fare tutto. Scrivere un articolo, una relazione, una tesi, un libro. Qualsiasi cosa. Cioè, te le scrive lei tutte queste cose, ma tu ci fai un figurone anche se di veramente tuo non c’è niente. Né studio, né sudore, né sentimenti. Mica come te, che andavi a cercare le notizie con le tue gambe, che volevi vedere con i tuoi occhi prima di scrivere. Anni fa Mimmo Rositano mi fece vedere una foto di voi due nei pressi della discarica di Melicuccà, avvolti dalla nebbia del mattino. Eri là per documentare ciò che stava succedendo, come dovrebbe fare ogni giornalista degno di questo nome. Giornalisti disposti a buscarsi un raffreddore, oggi, se ne vedono pochi per strada. Chi scrive, chi parla con cognizione di causa? Eppure viviamo in un mondo cacofonico. Dove ognuno pensa di conoscere fatti e persone e parla, parla, parla. Spara-sentenze evidentemente ignare del celebre adagio: «Un bel tacer non fu mai scritto».
Di te, invece, si dovrebbe scrivere. Per farti conoscere a coloro ai quali il tuo nome non dice niente. Affinché ai più giovani giunga l’eredità degli articoli da te dedicati alle storie degli umili, che grazie alla tua penna trovavano riscatto e dignità. Non era solo opera di memoria, era un atto di amore per questi nostri territori. Ai lettori della “Gazzetta del Sud” hai offerto ritratti indimenticabili di personaggi di paese, in particolare della tua Melicuccà, la Bagolaro del tuo romanzo Sabbia.
Da dieci anni anche tu sei un personaggio di Bagolaro. Per questo scrivo di te. Perché scrivere può diventare atto di giustizia, quando tenta di strappare le ragnatele dell’oblio che avvolgono le storie e le persone.
Forse l’ho fatta lunga, Totò. Magari continuiamo un’altra volta. Ora finisci di fumare, calca bene il cappello sulla testa e vai. Quando ripassi, però, fermati ancora. Come allora.
Mi piace ricordare quando, ancora studenti , percorrevamo in treno la ferroviaria calabro lucana Sinopoli-Palmi per frequentare i rispettivi Istituti scolastici . A Melicucca’ saliva sul nostro vagone il compianto Toto’ Ligato. Seduto vicino al finestrino utilizzava la parte bassa come percussione per accompagnare le mie esecuzioni, a cappella, delle canzoni dell’epoca, in particolare ” Let twist again “. Ciao Toto’