Le babbucce di Carminuzza

Sono nato in Australia nel mese di luglio, ed era inverno. Un inverno senza feste comandate, senza quei crudeli segnatempo carichi di malinconia per gli anni volati via, per volti e ricordi in dissolvenza. E sempre d’inverno sono arrivato, a quattro anni e mezzo, in questo paese che è diventato il mio guscio, alla vigilia di un ormai lontanissimo Natale. Non conoscevo nessuno, ma le rrughe di un tempo conoscevano i bambini prima ancora che nascessero. Così, le babbucce di lana lavorate ai ferri da Carminuzza hanno tenuto caldi i miei piedi, difendendoli dal freddo. C’era la neve: non l’avevo mai vista, né avevo mai sentito al tatto il suo gelo. Cominciai allora a sviluppare l’interesse per ciò che non conosco.
Oggi che porto sulle spalle il peso di parecchi anni in più, mi rassicura verificare intatta la curiosità di quel bambino. Lei muove tutto. Spinge a guardare dietro, oltre e in profondità. Raramente ciò che appare chiaro è verità: quando va bene è parte di una verità, che ha tante facce quante sono le angolazioni dalle quali si osservano fatti e persone. L’illusione di possederne una a portata di tasca è la presunzione di Icaro, con le sue ali di cera squagliate dal Sole.
La vita sa essere sorprendente, nel bene e nel male. È polvere e altare. La ricerca spasmodica della Felicità con la effe maiuscola crea insoddisfazione e incapacità di coglierne l’essenza, che è intrisa di normalità.
«Perché dovrebbe essere felice? Chi le ha detto che si viene al mondo per essere felici?», risponde il Cardinale al regista in crisi («Eminenza, io non sono felice»), in una celebre scena del film “8½” di Federico Fellini. Spesso siamo felici, ma non ce ne accorgiamo, salvo rimpiangere molto tempo dopo ciò che è stato, quando realizziamo di non averne saputo godere mentre la sua routine svanita si srotolava. Il paesaggio osservato sfrecciando a 180 all’ora non è uguale a quello che assaporiamo attraversandolo a piedi. La differenza sta nella fretta, nell’ansia di fare e di arrivare. Dove?
Tiziano Terzani ci ha insegnato che “contento” è un vocabolo molto più calzante di “felice”. Accontentarsi significa non sottomettersi ad un sistema che produce sempre nuovi desideri, per lo più inutili, che generano frustrazione e tristezza. È il legno al quale aggrapparsi per non affondare quando le onde incombono altissime e minacciose, pronte a travolgere tutto.
Non si può scappare dalla vita, bisogna viverla qui e ora. Inseguendo la propria serenità, cercando di rendersi utili per qualcosa o per qualcuno. Tenendo a mente – con Georges Clemenceau – che i cimiteri sono pieni di persone indispensabili. Ostinandosi ad abbracciare l’umanità delle strade storte, a trarre insegnamenti dal prossimo e da ciò che accade (perché desiderato o contro la propria volontà), dagli errori, dalla miriade degli impercettibili miracoli quotidiani.
Mantenendosi seri, senza prendersi troppo sul serio.

Condividi

Quello che conta

Non credo che la felicità sia l’altra faccia del dolore, che gioia e sofferenza vadano intese in contrapposizione, né – tantomeno – che la vita possa considerarsi un gioco a somma zero, un flipper dalla pallina sballottata tra sentimenti così lontani. Talmente estremi da potersi toccare, piuttosto: una sorta di convivenza necessaria. Nonostante oggi si faccia molta fatica ad accettare ciò che genera malessere. Abbiamo confezionato un mondo perfetto e falso, e ci sguazziamo come pesci dentro l’acquario, senza neanche accorgerci di quanto le nostre menti siano offuscate dal bisogno di apparire uomini e donne felici, dalla vita piena e soddisfacente.
Da ciò che di noi facciamo vedere, celebriamo vite invidiabili. Sul posto di lavoro, in famiglia, nella società. Con la cannuccia del cocktail stretta tra i denti, spettatori di tramonti incantevoli o sotto un palco a cantare a squarciagola, passiamo da un successo all’altro. Una tensione spasmodica alla competizione e all’affermazione al fine di soddisfare l’urgenza di dimostrarci i migliori, dal momento che, nelle nostre ammirevoli esistenze, non può esserci spazio per la tristezza e per il fallimento.
Sappiamo che non è così. Ne siamo consapevoli, ma non lo accettiamo. Apparenza e reputazione sono il nuovo oppio dei popoli, una gabbia mentale dalla quale è difficile evadere. Ma lo iato fra realtà e aspettative produce frustrazione e rancore. Si fatica a valutare obiettivamente ciò che si muove attorno a noi, al di là di noi, perfino contro di noi che – chini su noi stessi – ci contempliamo l’ombelico, addirittura convinti di essere gli unici al mondo a possederne un esemplare così bello.
Andrebbe invece reclamato il diritto a non essere i migliori, a non soffrire ansie da prestazione. A rivendicare l’utilità della sconfitta nel percorso di crescita personale, la sua dignità e la grandezza morale dell’averci provato a trovare una strada. Che esiste, dietro una curva imprevista, nemmeno immaginata.
Vantiamo radici greche e dimentichiamo che gli eroi del mito sono dei perdenti: Achille, Ettore, Agamennone. Tutti mortali, tutti vinti. Angosciati e fragili.
Fragili come chi lotta ogni giorno per aggiungere tempo al proprio tempo. Eppure in grado di convivere con la sofferenza che accompagna il declino. Pronti ad amare e a sorridere, a gioire di ogni conquista in apparenza insignificante: riuscire a portare la forchetta alla bocca, muovere qualche passo, godere di un’ora d’aria, essere presenza per qualcun altro. Incantati dal prodigio di una vita ridotta alla sua essenza, che nel poco riesce ad ammirare il tutto. Capaci di bastarsi.

Condividi

A Paolo

L’espressione del viso, impressa nella fotografia scattata cinquant’anni fa, conferma la frase vergata sul retro da mio padre: «I due disperati». Tre parole per esprimere con ironia l’affetto, l’amicizia, la condivisione di un riscatto cercato e trovato lontano dall’Italia, in quell’Australia che ha accolto e dato a molti italiani la possibilità di un futuro che non fosse miseria.
La notizia ci è arrivata addosso come una secchiata d’acqua gelida, nonostante il sospetto. I social sono uno strumento utile, ma in casi come questi crudele: è bastato ricordare i nomi dei figli e percorrere a ritroso la cronologia dei loro post per imbattersi in Paolo Rao sorridente accanto alla figlia Agata, a dispetto dell’annuncio della sua morte nel 2021. Da tempo non ricevevamo le sue periodiche telefonate, mentre i nostri tentativi si infrangevano contro il silenzio del suo cellulare. Lo sconvolgimento degli ultimi anni ci aveva impedito di andare più a fondo nella ricerca, ma ora, nonostante tutto, sarebbe stato il momento di una boccata d’ossigeno. Non è andata così ed è un dolore che punge, per quanto differito. Sono gli occhi di mio padre, che dicono tutto di quell’alchimia unica con Paolo e con mio zio Stefano, del vuoto lasciato da entrambi in sua assenza. L’ennesima ingiustizia.
Impetuosa è l’onda dei ricordi, che riaffiorano insieme al tono della voce di Paolo nell’imprecazione “maledetto vento!”, masticata mentre con la mano cercava di sistemarsi i capelli nel deserto australiano.
Si erano conosciuti da “Bendinelli & Carlini”, la ditta di un fiorentino e di un romano che pitturava le case a Melbourne e dintorni. Paolo di origini siciliane, mio padre dall’Aspromonte: entrambi con addosso il culto del lavoro che ha scritto le pagine più belle e dignitose dell’emigrazione italiana.
Tra le altre “imprese”, ricorreva spesso il ricordo del viaggio epico attraverso la “Nullarbor Plain”, oggi proposto nei pacchetti vacanze riservati ai turisti che amano l’avventura.
La notte di Natale del 1974 il Nord Territorio era stato devastato dal ciclone Tracy, le cui raffiche di vento raggiunsero i 240 km/h: l’80% della capitale Darwin (dove morirono 66 persone) fu distrutto, il 94% delle abitazioni dichiarato inabitabile, la stima dei danni ammontò a 837 milioni di dollari.
E a Darwin i due amici decisero di recarsi. A neanche trent’anni e con la storia che si erano lasciati alle spalle, i 9.000 km di strada da percorrere in macchina non erano fonte di apprensione.
Per ricostruire le città servivano muratori, carpentieri, idraulici, elettricisti e ovviamente imbianchini. Come loro due. Uno sguardo d’intesa e via, a bordo della possente Ford Falcon 500 di mio padre.
A Darwin non ci arrivarono. C’era da ricostruire anche a Port Hedland, in Australia Occidentale, raggiunta dopo i circa 7.000 km percorsi per tagliare da Est a Ovest e risalire a Nord. Quattro giorni a snocciolare il rosario delle città attraversate, una volta partiti da Melbourne: Adelaide, Ceduna, Norseman, Perth, Geraldton, Carnarvon, Broome. Sul tavolo, ora, tra le mie mani un cartello indica il 26° Parallelo, un altro segnala la linea del Tropico del Capricorno, Paolo pesca dalla battigia con una lenza i pesci per il sontuoso barbecue da consumare insieme agli altri operai, mio padre pennella dalla scala a forbice, entrambi sorridono con una birra in mano.
La pianura di Nullarbor si estende per oltre 1.200 km di deserto tra Ceduna a Norseman. La “Eyre Highway” che l’attraversa è una linea retta infinita e senza dislivello, dall’effetto ipnotizzante. Non essendo al tempo asfaltata, il passaggio delle auto sollevava un polverone di terra rossa e sottile capace di resistere per mesi anche ai lavaggi più accurati. Ogni 200 km circa, la presenza di una “Road House” dava la possibilità di fare rifornimento, mangiare e bere qualcosa.
A dispetto dell’etimologia (dal latino: “senza alberi”), puntini in lontananza indicavano la presenza di qualche acacia, dall’ombra delle quali potevano saltare fuori aborigeni in costume tradizionale e armati di lance, che andavano incontro all’auto con l’intento di piazzare strumenti musicali tribali (“didgeridoo”, “bullroarer”) e i “boomerang”, dopo una serie di lanci dimostrativi.
A Port Hedland soggiornarono in una roulotte per un mese e, alla fine del lavoro, rientrarono a Melbourne. Per la gioia dei bambini, anche se Fanny – nonostante i tentativi di corruzione con caramelle e cioccolatini – faticò a perdonare il capellone simpatico e pieno di vita che aveva avuto il torto di portare via suo zio.

Condividi

Addio a Tina, la mia amica lontana

Con Tina (Fortunata) Ciccone Sturdevant ci siamo conosciuti su Facebook nel 2016. Grazie allo strumento della condivisione dei post era finita sul mio blog, interessata com’era a tutto ciò che riguardava la storia di Sant’Eufemia, dov’era nata nel 1931 e da dove era partita nel 1950 insieme alla mamma per raggiungere negli Stati Uniti il padre, due fratelli e una sorella. Successivamente sposò Ernest Sturdevant e diede alla luce quattro figli: Gary, Donna, Lisa e Linda. Era ritornata a Sant’Eufemia nel 1970 e aveva recuperato per caso, in fondo ad un baule, lo straordinario racconto del padre Giuseppe sull’esperienza vissuta nella Prima guerra mondiale. Il testo, in inglese con a fronte le pagine originali del diario-poema scritte in un calabrese-italiano stentato, è stato pubblicato grazie anche alla preziosa collaborazione dell’adorato nipote Richard Ciccone, professore di Psichiatria presso l’Università di Rochester. Through the circles of hell: a soldier’s saga. Giuseppe Ciccone – questo il titolo – è l’unica testimonianza diretta di un fante eufemiese sulla carneficina delle trincee del Carso.
Ho avuto il privilegio di recensire il libro per “Il Quotidiano del Sud” e di consegnarne una copia all’Archivio di Stato di Reggio Calabria e alla biblioteca comunale di Sant’Eufemia. Recensione in seguito pubblicata nel mio Sant’Eufemia d’Aspromonte e la Grande guerra.
Stamattina ho saputo che Tina ci ha lasciati tre giorni fa. Ci eravamo scritti l’ultima volta per gli auguri di Pasqua, chiudendo entrambi l’email con la nostra consueta formula “your long distant friend”.
In questi otto anni siamo rimasti sempre in contatto: all’inizio utilizzavamo entrambi l’inglese, poi qualche volta io l’italiano e lei l’inglese, infine entrambi l’italiano. Lingua che, mi ripeteva spesso, aveva sepolto insieme a radici e ricordi: «Ero diventata più americana che italiana». Me ne parlava spesso nelle email e nelle lettere da Silver Spring (Maryland), nonna e bisnonna felice che “al tramonto della vita” (altra frase che utilizzava di frequente), era riuscita a fare in qualche modo pace con un passato più o meno volontariamente dimenticato.
Con il nipote Richard aveva anche tradotto in inglese e pubblicato la Breve monografia su Sant’Eufemia d’Aspromonte di Vincenzo Tripodi e, infine, aveva approfittato della clausura del Covid nel biennio 2020-2021 per ordinare i suoi ricordi nel prezioso Once upon a time in Calabria: stories of Sant’Eufemia, uno spaccato su personaggi e consuetudini degli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso a Sant’Eufemia d’Aspromonte: «Appena ho appoggiato le dita sui tasti del computer, le storie si sono scritte da sole. Tutte le memorie, nomi e luoghi – mi scrisse – sono ritornati in modo straordinario».
Tina era curiosa di sapere come il paese era cambiato. Apprezzava le attività di volontariato dell’Agape e si entusiasmava per i giovani che si spendono per fare crescere Sant’Eufemia. Da Oltreoceano mi è stata accanto quando mi candidai nelle elezioni comunali e nei sette mesi bui del 2020. Leggevo con piacere le sue email, le sue domande, le sue considerazioni, i suoi progetti. Pensava al futuro con una grande energia vitale, preoccupata non per sé ma per i giovani. Non temeva la morte perché – diceva – aveva avuto una vita piena di soddisfazioni e di affetto. Era in pace. Mi mancherà.

Condividi

Dietro la curva

La notte che te ne sei andato, ti ho sognato. Eri con uno dei tuoi amici più cari: alcuni mesi fa vi avevo visti insieme: non guidavi più da molto tempo ormai, e lui ti portava in giro con la macchina. Per distrarti, o soltanto per starti vicino: senza il bisogno di tante parole, con il gesto silenzioso che è il dono dei veri amici. Allora pensai a quanto amore, a quanta attenzione, a quanta delicatezza contenga il sentimento dell’amicizia. Capace di bastarsi e di brillare nel buio più nero.
Nel sogno giocavate a biliardo nella sala dell’ex cinema, cosa che credo non abbiate mai fatto. Mi sei passato davanti e a me, che ti guardavo stupito, la tua amata sorella Sara ha detto: «Lo vedi, ora sta bene». Al risveglio, ho appreso la triste notizia.
Una coincidenza. Una coincidenza come quella che ti vede raggiungere, dopo appena due settimane, un altro tuo grande amico. Due coincidenze che però fanno riflettere sulla bellezza di questo sentimento. Avevi molti amici perché sapevi farti volere bene, perché nella compagnia avevi la battuta pronta, perché la tua presenza in questi troppo pochi anni è stata discreta ma sostanziale. Io stesso ho avuto modo di sperimentarlo, quando ti sei fatto fermare davanti al bar per salutarmi, alla fine di una mia spiacevole esperienza. Non potevi scendere dall’auto, non ce la facevi già: eppure, dal tuo calvario hai pensato a me. Avevi sofferto per me e ora eri felice per me.
Hai abbracciato la Croce e l’hai portata sulla cima del Golgota, con coraggio e dignità. Senza cedimenti. L’ha abbracciata con te tua moglie Maria, infaticabile: una lottatrice dal volto gentile anche mentre il mondo le stava crollando addosso, che ha dato a tutti noi una lezione su come si possano affrontare le tempeste della vita senza perdere la tenerezza. Senza lasciarsi andare allo sconforto; senza commiserarsi. L’ha abbracciata con te Rita. I suoi occhi grandi e neri non avrebbero dovuto assorbire tutta questa sofferenza: «C’era tutto un programma futuro/ che non abbiamo avverato». Chissà. Noi, stretti dalle corde dei nostri limiti umani, non possiamo decifrare gli imperscrutabili disegni di Dio. Cosa la sua matita ha disegnato e quale sia l’interpretazione degli schizzi sul foglio.
Sappiamo però che il dolore di questi anni ha avuto il suo luminoso contraltare in un amore altrettanto grande. Quello che ha tenuto avvinghiati in un unico abbraccio te, Maria e Rita. E con voi i vostri familiari: un battito solo, le ali spiegate al di sopra delle angosce quotidiane.
Ha scritto un Poeta: «La morte è la curva della strada, morire è solo non essere visto. Se ascolto, sento i tuoi passi esistere come io esisto».
La tua vita è volata via in fretta, ma ora tu sei lì, dietro la curva della strada. Chi ti ha voluto bene sentirà ancora i tuoi passi. La vita, nei momenti decisivi, sgrossa del superfluo e riduce all’essenziale. A ciò che conta veramente: l’amore di chi ci lascia, l’amore di chi resta.
Fai buon viaggio, Cosimo

Condividi

La sedia vuota

Ci sono assenze che non riusciamo ad accettare, ma abbiamo imparato a convivere con le sedie vuote, riempendo d’amore l’aria rarefatta e la nebbia del ricordo. Pazienza se fino ad un certo punto sembrava tutta discesa, una corsa senza freni verso un traguardo qualsiasi, reale o immaginario. Ma comunque a portata di mano. Così almeno credevamo. Come quando dai nostri pochi anni guardavamo al 2000, lontanissimo. Chissà cosa saremmo stati e dove. Cosa avrebbe portato. Poi di colpo il 2000 è arrivato e non ce ne siamo neanche accorti. Tanto che stiamo per planare sul 2024. Per certi aspetti senza averci capito molto, sballottati dalle onde del tempo. Impegnati a tenere la testa a pelo d’acqua. Per non affogare. Oppure, avendoci capito fin troppo. Su come gira e su quanto la vita sappia essere sorprendente, nel bene e nel male. Individuando la chiave di senso proprio in questa imprevedibilità, che richiede riflessi e spirito di adattamento. Che non è rassegnazione, ma consapevolezza che la vita è questa, e tocca viverla oggi. Alzando un altare agli attimi di felicità, abbracciando il dolore per addomesticarlo. Anche se l’ieri ha fatto di noi ciò che adesso siamo; anche se il domani è la tensione che dà linfa alle nostre idee, alle nostre azioni. Potremo essere migliori o peggiori, dipende da noi ma non soltanto da noi. Perché con gli altri e con le circostanze bisogna farci i conti: «È tutto un complesso di cose/ che fa sì che io mi fermi qui», suggerisce il poeta. Prendere atto dello scarto tra aspettative e realtà mi sembra già un buon punto di partenza. Un compromesso onorevole con la propria coscienza è il fondamento della pacificazione con sé stessi. E solo se si è in pace con sé stessi si può vivere in pace con il mondo, trovarci residenza. Qui e ora.
Buon anno a tutti

Condividi

Una volta qui c’era il Bar Mario

Da diversi giorni mi martellano la testa i versi di una canzone di Ligabue, Anime in plexiglass: «Una volta qui c’era il Bar Mario/ l’han tirato giù tanti anni fa/ e i vecchi sono ancora lì/ che dicono che senza non si fa». Invece si fa, si deve fare. Cercando di tenere a bada una tempesta emotiva comprensibile, se penso a quante vite vi sono passate dentro, dal lontano 1982. A partire dalle nostre, quelle della mia famiglia. La mia, un bambino di neanche dieci anni che saliva sulla cassa della Peroni per preparare il caffè, perché altrimenti non riusciva ad agganciare il braccetto portafiltro alla macchina. Quella dei miei fratelli, con i quali si faceva a gara per chi doveva servire ai tavoli perché, in fondo, in quegli anni per noi il bar era un gioco. Il sacrificio di mia mamma e di mio papà, alla cui intuizione si deve la nascita del circolo ricreativo, seguita alla trasformazione dei locali del vecchio cinema (del quale fu l’ultimo gestore al rientro dagli undici anni vissuti in Australia) in un moderno punto di aggregazione per i giovani del paese.
Il Bar Mario è stato la nostra vita. Non è stato facile, si è dovuto stipare il cuore in un cassetto e tapparsi le orecchie. Ma credo sia giusto così, senza bisogno di ulteriori spiegazioni.
Preferisco pensare a tutto ciò che il circolo ricreativo gestito dalla mia famiglia ha significato, al tanto che abbiamo dato e al tanto che abbiamo ricevuto. Il mio pensiero va ai tanti amici che purtroppo non ci sono più, alle lezioni di vita che ho appreso da tutti coloro che lo hanno frequentato in oltre quarant’anni di attività. Là dentro ho imparato cosa è giusto fare e cosa è giusto non fare. Il contatto quotidiano con la gente, i problemi di giovani e meno giovani, l’instaurazione di rapporti di sincera amicizia sono stati per me una palestra di vita e un tesoro di umanità che conserverò gelosamente per sempre. Dal Bar Mario sono transitate generazioni di ragazzi diventati adulti, molti costretti ad emigrare, ma che ad ogni estate hanno continuato a passare dal circolo per un saluto, per ricordare vecchi aneddoti e per tenere così vivo il ricordo dei giorni felici. Anni d’oro, con oltre 200 soci che affollavano il locale dalla mattina alla sera, distribuiti nei diversi ambienti: la sala biliardi con tre tavoli (prima Mari, poi Hartes, infine MBM), per occupare i quali occorreva la prenotazione; il palcoscenico del teatro chiuso da un tendone, con cinque tavoli riservati al gioco delle carte (scala 40, ramino, tressette, scopa, briscola); la sala giochi con il calciobalilla, il flipper e oltre dieci videogiochi cabinati, da SuperMario Bros a Pac-Man, da Street Fighter a Space Invaders, il mio preferito. Gli anni dei tornei di biliardo, di calcio, delle gare di ciclismo, della sagra delle ciliegie.
Ringraziamo chi in questi giorni ha espresso dispiacere per la chiusura del circolo. Ringraziamo coloro che ci sono stati vicino in questi anni, molti dei quali nel tempo sono diventati amici di famiglia: i fornitori di bevande Raffaele Fazzari e Giuseppe Carbone, Tonino Rizzitano (Gelati Algida), Carmelo De Leo (Caffè Moca), Arturo Nastasi (AICS Reggio Calabria).
Quattro decenni vissuti con umiltà possono ora lasciare il campo all’orgoglio per essere stati un punto di riferimento importante nella comunità eufemiese. Alla mia famiglia mancherà il Bar Mario, ma in questo momento è una piccola consolazione sapere che non mancherà soltanto a noi. Abbiamo voluto bene, siamo stati voluti bene. Questo conta, questo ci fa essere ciò che siamo. Grazie a tutti.

Condividi

Ancora sulla barbarie delle intercettazioni

Grazie ad un articolo di Strettoweb, ho scoperto che ieri sera sono finito su una slide del programma Controcorrente (Rete 4). Non sono avvocato, come erroneamente riportava il cartello, ma non è ovviamente questa inesattezza che voglio commentare dopo avere guardato sul sito di Mediaset la trasmissione.
Probabilmente la redazione ha preso spunto dal mio recente articolo pubblicato su “Il Dubbio” e mi ha accostato, in maniera secondo me impropria, alla vicenda che coinvolse l’ex ministra dello Sviluppo economico Federica Guidi come esempio della stortura che a volte si registra nell’uso delle intercettazioni. Cosa che accade, ad esempio (e di questo gli ospiti in studio hanno dibattuto), quando un magistrato allega agli atti un’intercettazione di natura privata, che non ha attinenza con l’imputazione, e quando il giornalista che si ritrova quella intercettazione la pubblica sul giornale. Il dibattito, insomma, era incentrato sulla questione della pubblicazione. Per questo sostengo che la mia vicenda è stata citata in maniera impropria.
A volte mi sembra di essere un disco rotto e di questo mi scuso. Ma il mio caso ha a che fare con una questione preliminare, a monte – diciamo – dell’utilizzo delle intercettazioni: e cioè sul fatto che prima di arrestare una persona intercettata, della quale si ha la voce registrata, il minimo sindacale sarebbe di verificare se quella voce è effettivamente sua. La terribilità delle manette sta proprio nell’uso disinvolto e approssimativo degli strumenti di indagine intercettivi che caratterizzano alcune inchieste antimafia.

Link dell’articolo di Monia Sangermano per Strettoweb: Inchiesta Eyphemos, il clamoroso errore giudiziario ai danni di Domenico Forgione finisce su Rete 4

Condividi

Vi spiego io la barbarie delle intercettazioni

Il Dubbio, 21 gennaio 2023

“Il Dubbio” di oggi ospita una mia riflessione su intercettazioni e trojan

La relazione al Senato del guardasigilli Nordio ha innescato la prevedibile reazione di chi, da decenni, intossica il dibattito sul tema della giustizia in Italia con considerazioni per lo più strumentali, che passano come un carrarmato sulla vita delle persone. Io credo, invece, che occorra un alto livello di umanità, quando si affrontano temi che incidono fortemente sulla libertà, sulla dignità e sulla rispettabilità degli individui.
Il ministro della Giustizia afferma, e noi gli crediamo, che «il nostro fermo proposito è di attuare nel modo più rapido ed efficace il garantismo del diritto penale». Però dice anche, per stoppare le urla scomposte del fronte giustizialista, che «non sarà mai abbastanza ribadito che non vi saranno riforme che toccheranno le intercettazioni su mafia e terrorismo».
Mi permetto di dissentire e di portare ad esempio, ahimè, la mia esperienza personale: un caso forse limite, ma comunque utile – spero – per centrare e meglio evidenziare i contorni della discussione, quando si parla di intercettazioni e di 416 bis. Sono stato arrestato il 25 febbraio 2020, sulla base di una conversazione (11 pagine sulle 3651 complessive dell’indagine) intercettata tramite il trojan installato sul telefonino di un altro indagato, che si trovava a cena con due persone, ad una delle quali era stata attribuita la mia identità. Nonostante la mia dichiarazione di assoluta estraneità, già in sede di interrogatorio di garanzia (due giorni dopo l’arresto e senza avere ancora ascoltato l’audio della conversazione), e la contestuale richiesta di effettuare una comparazione fonica (non accordata nell’immediato; mentre in nessuna considerazione il Tribunale della libertà ha tenuto la perizia fonica presentata dalla difesa), ho dovuto subire sette mesi di custodia cautelare in carcere, fino a quando il Ris di Messina, su incarico della Procura di Reggio Calabria, non ha stabilito che la voce intercettata non era la mia. Duecentocinque giorni dopo il mio arresto, trascorsi negli “hotel” a cinque stelle di Palmi e di Santa Maria Capua Vetere. Successivamente, la mia posizione è stata archiviata.
La questione, dal mio punto di vista, è quindi un’altra, più profonda e grave. Può la lotta alla mafia giustificare la sospensione dello stato di diritto in vaste aree del Paese? L’Italia è uno stato di diritto o uno stato di polizia, nel quale le garanzie individuali possono essere calpestate? Sono queste le domande per le quali io e migliaia e migliaia di altre vittime attendiamo risposte, anche per riuscire ad avere nuovamente fiducia nella giustizia.
La sensazione è che il populismo penale di parte della magistratura e dell’informazione spinga all’accettazione del fatto che la lotta alla criminalità organizzata possa avere come effetto collaterale un numero cospicuo di innocenti in manette. Per motivi ideologici, ma anche per una questione all’apparenza banale: chi parla di carceri, di buttare le chiavi, di innalzare forche nelle pubbliche piazze, lo afferma senza cognizione di causa; senza avere cioè la minima idea del terremoto emotivo che si scatena nell’animo di chi varca il cancello di un carcere, soprattutto se sa di essere innocente. Senza, inoltre, avere la minima idea della condizione disumana delle carceri italiane.
Ecco perché, pur riconoscendo l’importanza e l’efficacia dell’utilizzo di trojan e intercettazioni telefoniche per assicurare alla giustizia i rei, sarebbe auspicabile una rivisitazione del loro impiego, nel senso di ribadirne la validità come strumento di indagine attorno al quale costruire la prova vera e propria.
Prendere atto che su questa delicata materia occorre intervenire, al di là delle caciare strumentali che si sollevano ogni qual volta qualcuno pone con spirito costruttivo la questione, sarebbe già un passo in avanti, a tutela della giustizia e della dignità delle persone, poiché “non c’è tirannia peggiore di quella esercitata all’ombra della legge e sotto il calore della giustizia” (Montesquieu).

Link: Il Dubbio

Condividi

Buon anno

A volte sembra di avere vissuto troppo. Abbiamo realizzato tutti i nostri desideri e soddisfatto ogni aspettativa. Vaghiamo, senza fuoco dentro ad ardere, perché ogni cosa è diventata stanca abitudine. Non è una questione di età: Ninuzzo aveva quasi un secolo quando piantò un albero e immaginava di raccoglierne lui i frutti, nel giro di pochi anni.
Oppure siamo stati talmente messi alla prova da sentirci sfibrati. Ogni azione, ogni pensiero ci risultano faticosi. Rimaniamo inchiodati al nulla, vorremmo soltanto dormire e non svegliarci più.
Altre volte si ha invece l’impressione che il tempo non sarà mai abbastanza. Eppure ancora abbiamo libri da leggere, viaggi da intraprendere, incontri da godere. Una vita sola non può bastarci. Avremmo bisogno del treno arrugginito richiamato con feroce disincanto da De Andrè per ritornare indietro, al punto di partenza. Un treno che non esiste; ed è bene che sia così.
Da qualche parte ho letto che la vita è quella cosa che ci accade mentre siamo impegnati in altri progetti. Succede nonostante noi, anche contro di noi.
Ecco perché non faccio più bilanci. Non mi va di dividere il foglio in colonne di dare e avere. Separare le cose belle da quelle brutte, le giuste dalle sbagliate. Tutto ha un senso, anche le favole tristi che opprimono e fanno mancare il respiro, come certe assenze conficcate nel cuore. Ma quel senso dobbiamo sforzarci di trovarlo noi, con tenacia da esploratore.
Aggrappiamoci alla vita, cerchiamola ovunque. Sempre.
Buon anno a tutti.

Condividi