In fondo al pozzo

“Cosa c’è di diverso nel vostro morire?”, chiede il chimico dell’omonima canzone di Fabrizio De André nella straordinaria trasposizione musicale del capolavoro di Edgar Lee Masters. Cosa c’è di diverso nelle morti che ci circondano, che interrogano soprattutto sul senso della vita.
La morte fisica, certo. Il sipario che cala lasciando al di qua della tela ricordi, sorrisi, rimpianti. Con la quale, chi resta, deve in qualche modo imparare a convivere. Elaborando il lutto, raccomandano gli psicologi. Superando vuoti e assenze che trafiggono l’anima con i loro tuttoèfinito. Il tempo, in questi casi, può diventare un prezioso alleato. Perché riesce a colorare il buio con i colori dell’allegria passata, della condivisione dei momenti di felicità, delle tante lezioni imparate. La medicina del cuore confina in un angolo la sofferenza, esalta la gratitudine per ciò che è stato e per ciò che è rimasto. Il tempo stempera, diluisce, accarezza. È mano di mamma. La morte fisica è un punto di non ritorno, se c’è un aspetto sopportabile è proprio la sua irrimediabilità. Bisogna farsene una ragione. Se non sarà subito, accadrà dopo.
Altro avviene con la morte sociale. Chi muore fisicamente, è altrove: niente sente e niente vede. Un lungo sonno. Chi vive la condizione dell’appestato, avverte invece sulla propria pelle la morte vera: l’abbandono, l’emarginazione, il pregiudizio. È un morire diverso. E a nulla vale la resurrezione di un momento. La condizione prevalente è quella dell’oblio. Non si è più ciò che si è stati. Lo stigma è coperchio di bara che tutto esclude. Non se ne parla e basta. Per non compromettersi, per evitare imbarazzi in chi chiede e in chi risponde. Succede quando c’è di mezzo una malattia irreversibile, quando non si è più in grado o liberi di uscire di casa, di parlare, di coltivare relazioni.
Poi c’è la verità. Che sta sempre in fondo al pozzo, ricorda Leonardo Sciascia. Chi osserva da sopra, sporgendosi appena sul baratro, ci vede il sole o la luna. Si sente confortato da una certezza che è soltanto un riflesso. Un inganno. Ma soltanto chi cade dentro al pozzo conosce la verità. Al prezzo di fratture e con il rischio concreto di non riuscire più a risalire dal fondo. Di restarci.
Nel confino scuro che la memoria dissolve, vita e morte si abbracciano senza più niente aspettarsi. Impastandosi con il sangue e con le lacrime di giornate sempre uguali. E non sai più se è un giorno di festa o un giorno di lutto.

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Il poco che rimane

Nel silenzio ovattato della stanza una mano si tiene e non trattiene. Resta testardamente aggrappata alla coda della vita, che non può fermare mentre scivola via, in caduta libera. Il dorso è una mappa di sentieri che si incrociano e scivolano assecondando i bordi. Nei gonfi rivoli bluastri scorre la piena dei giorni andati, un soffio di tempo sbuffato tra due lamenti. Il palmo ricamato di cicatrici contiene una sola infinitesimale briciola di futuro, profezia finale che attende di inverarsi.
Due gambe mulinano nel sogno, ma non vanno da nessuna parte. Sono lontani i tempi delle lunghe inerpicate. Ogni passo era sudore e traguardo, la bandierina spostata un metro più in alto, fino alla vetta. La discesa è stata rovinosa, un proteggersi il capo dagli urti facendosi scudo con le braccia. Attutire per non soccombere, per riuscire ad arrivare a valle in qualche modo. Questo era necessario. Questo è stato fatto.
Ora è un camminare insicuro che squarcia la bruma imperforabile dell’ultimo viaggio. Potesse lo sgomento farsi raggio e rischiarare i contorni indefiniti del mistero. Ma è un taglio sull’abisso, nessuna luce segnala il percorso di un altrove di là dalla fessura. E la stanchezza ha un peso che nessuna bilancia dell’anima può pesare.
Gli occhi guardano ma non vedono. Galleggiano nel mare aperto che non conosce orizzonti e mescola cielo e acqua. Sul piano infinito le figure si scontrano e scartano di lato, senza dichiararsi. Senza averci capito molto di vento e di schiuma, di finzione e di realtà. L’onda dei ricordi è uno sciacallo che azzanna alla cieca, infierisce e scaraventa lontano, per precludere ogni ritorno. La memoria è un flipper impazzito, una cacofonia di voci che si accavallano prive di ordine e senso.
Padri diventati figli accoltellano l’aria, mamme bambine accarezzano un peluche o stuzzicano l’orlo sgualcito del maglione, prima di attaccarci un bottone immaginario. Uno stallo di bonaccia illude che dopo sarà pace. Per chi andrà e per chi resterà. Gli uni e gli altri dispersi sul campo: accanto, distanti.
Come un’epifania, il poco che rimane disvela il senso della vita. Diventa tutto.

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Dieci anni senza Totò Ligato

Caro Totò,
sembra ieri e invece sono trascorsi già dieci anni. Sapessi quante cose ti sei perse. Per alcuni versi forse è meglio così. Ti vedo, Totò: l’immagine è quella consueta, ripetuta negli anni. Arrivi con la tua Punto (sì, sempre lei: più scassata di allora, ma tenace come te), accosti e vai subito al sodo: «Dai, facciamo una chiacchierata, che argomenti di discussione ce ne sono». Quindi accendi una sigaretta, giochi con l’accendino sul tavolino del bar e inizi a parlare, con quel tuo inconfondibile timbro di voce.
La prima stoccata è per qualche collega autore di strafalcioni grammaticali e sintattici. Roba da marchiare con un bel tratto di penna rossa. O da riderci su, come a te piaceva fare nonostante l’incazzatura. Pensa, Totò: oggi è peggio di ieri. Nell’ultimo decennio c’è stato un impazzimento generale. Dieci anni fa ancora i social non avevano completamente invaso le nostre vite; per alcuni oggi diventati la vita vera. Sappiamo tutto: cosa la gente mangia o non mangia, quando esce e con chi, dove trascorre le vacanze, la straordinarietà della vita di ognuno, costellata – ça va sans dire – di successi memorabili che dovremmo, pare, tutti memorare. Chiunque scrive su qualsiasi argomento, fotografa, documenta, posta in maniera compulsiva. E pazienza se la lingua italiana ormai è diventata un optional per “professoroni” da perculare. Si indigna la gente, Totò: soprattutto si indigna. Peppe Voltarelli dovrebbe aggiornare la sua celebre canzone: “lamentarsi come ipotesi” non basta più. Bisogna indignarsi. Indignarsi. Indignarsi ancora.
Lo so, ora inizierai a parlarmi di università. Lascia stare, non pensare alla tua facoltà di Magistero ai tempi del preside Mazzarino. Molte università – ahinoi anche pubbliche – sono diventate dei laureifici. E poi oggi c’è l’intelligenza artificiale, con quella puoi fare tutto. Scrivere un articolo, una relazione, una tesi, un libro. Qualsiasi cosa. Cioè, te le scrive lei tutte queste cose, ma tu ci fai un figurone anche se di veramente tuo non c’è niente. Né studio, né sudore, né sentimenti. Mica come te, che andavi a cercare le notizie con le tue gambe, che volevi vedere con i tuoi occhi prima di scrivere. Anni fa Mimmo Rositano mi fece vedere una foto di voi due nei pressi della discarica di Melicuccà, avvolti dalla nebbia del mattino. Eri là per documentare ciò che stava succedendo, come dovrebbe fare ogni giornalista degno di questo nome. Giornalisti disposti a buscarsi un raffreddore, oggi, se ne vedono pochi per strada. Chi scrive, chi parla con cognizione di causa? Eppure viviamo in un mondo cacofonico. Dove ognuno pensa di conoscere fatti e persone e parla, parla, parla. Spara-sentenze evidentemente ignare del celebre adagio: «Un bel tacer non fu mai scritto».
Di te, invece, si dovrebbe scrivere. Per farti conoscere a coloro ai quali il tuo nome non dice niente. Affinché ai più giovani giunga l’eredità degli articoli da te dedicati alle storie degli umili, che grazie alla tua penna trovavano riscatto e dignità. Non era solo opera di memoria, era un atto di amore per questi nostri territori. Ai lettori della “Gazzetta del Sud” hai offerto ritratti indimenticabili di personaggi di paese, in particolare della tua Melicuccà, la Bagolaro del tuo romanzo Sabbia.
Da dieci anni anche tu sei un personaggio di Bagolaro. Per questo scrivo di te. Perché scrivere può diventare atto di giustizia, quando tenta di strappare le ragnatele dell’oblio che avvolgono le storie e le persone.
Forse l’ho fatta lunga, Totò. Magari continuiamo un’altra volta. Ora finisci di fumare, calca bene il cappello sulla testa e vai. Quando ripassi, però, fermati ancora. Come allora.

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Parole legate strette

Che ne potevo sapere di cosa significasse affrontare un viaggio di 2.000 chilometri, risalire la penisola e oltrepassare le Alpi? Sopra un’automobile non ci ero nemmeno salita, prima. Anche se in paese qualche macchina in più cominciava a vedersi già da un po’ di tempo. Non era più come nei miei primi anni di infanzia, quando solo gli ’gnuri ce l’avevano. Ora era diverso. Anche con i televisori è stato così e sempre di meno ci si raduna nei cortili. Ripenso con nostalgia all’atmosfera magica che si respirava con gli altri bambini e con gli adulti della rruga quando guardavamo “Il musichiere”, gli sceneggiati e “Carosello”.
La Peugeot 403 blu di mio zio sembrava un carro, eppure era troppo stretta per otto passeggeri, le valigie, i cartoni legati con lo spago e due materassi. Zia Mica è fatta così. Pensa che in Francia molte cose non si trovano, o comunque non hanno la qualità dei prodotti del paese. Quindi carica nel cofano e sul portabagagli di tutto, persino il sapone fatto in casa e le essenze per preparare i liquori. Il suo cordiale è buonissimo, zio Diego dopo il pranzo lo sorseggia con gusto, soddisfatto.
Portavo in Francia i miei quattordici anni incorniciati da lunghi capelli neri, con la frangetta che mio padre non ha mai tollerato: «La fronte deve rimanere scoperta», ripete sempre. A un certo punto non sono stata più la bambina che gli cantava “O sarracino”, anche se mia mamma continuava a portarmi il latte caldo e le fette di pane a letto per la colazione. Lei è sempre stata premurosa, nelle fredde notti d’inverno metteva sotto le mie coperte un mattone riscaldato nel braciere e se avevo mal di gola arrotolava un calzino riempito di cenere calda attorno al mio collo, come una sciarpa.
Lasciavo a casa le attenzioni alla piccola della famiglia per soddisfare il desiderio di stare con mio fratello Carmelo, che si era trasferito in Francia l’anno precedente. E poi in paese non avevo niente da fare, da quando avevo smesso di andare a scuola. Zio Diego già garantiva per mio fratello, avrebbe garantito anche per me. Per lui non era un problema avere sei figli invece di quattro.
L’afa era insopportabile, il mio stomaco sottosopra. Sfidavamo la legge fisica sull’impenetrabilità dei corpi e Gaetano era costretto a fermarsi in continuazione perché avevo bisogno di scendere e vomitare, sotto il sole rovente. Loro erano abituati, i miei zii hanno una tempra inossidabile. In Aspromonte erano entrambi carbonai, come mio padre del resto: le loro mani sono di ferro, la loro schiena fortissima. Non si lamentano mai. In Francia hanno iniziato a faticare nei campi di barbabietola a nord di Parigi. Anche Gaetano che aveva meno di diciott’anni zappava, seminava e si occupava del raccolto fino a quando non ha trovato lavoro in una fabbrica che produce compensato. La caldaia deve essere alimentata sempre, per questo ha avuto diritto ad un alloggio accanto. Ci ha portato i genitori e le tre sorelle e tutti badano di tenere accesa la caldaia giorno e notte, stando attenti a che non si spenga. Da sorveglianti di una carbonaia in Aspromonte a sorveglianti di una caldaia in Francia, ma tant’è. Non sarà per sempre, qua i figli potranno costruirsi un futuro.
Con Mimma, Francesca ed Eufemia trapiantavamo gerani in una serra. Mi piaceva, ma purtroppo dopo un anno sono dovuta rientrare in paese. Mi è dispiaciuto separarmi da Carmelo e da Gismonde, la ragazza dai riccioli d’oro che ha conosciuto in fabbrica e che sposerà.
Eppure niente succede per caso. A casa ho trovato l’amore, forse Dio ha voluto ricompensare l’allontanamento da mio fratello mettendomi al fianco l’uomo della vita, che proprio allora aveva concluso il servizio militare. In partenza anche lui, però, verso una destinazione ancora più lontana. Però mi ha raccomandato di aspettarlo, perché ritornerà non appena rulli e pennelli gli consentiranno di raccogliere qualche soldino. Ed io gli credo.
Gli credo mentre torno per la seconda volta in Francia, accompagnata da qualche fotografia e dalle lettere che ricevo dall’altra parte del mondo. Ho stampato sul cuore un giuramento che quindicimila chilometri di distanza non scalfiranno: la promessa che metteremo su famiglia. Me l’ha giurato aspirando l’ultima boccata prima di spegnere la cicca che conservo dentro una bustina di plastica trasparente, insieme alla rosa essiccata e ricevuta come pegno d’amore il giorno della sua partenza. Gli credo. Andrà così.
Ora vivo di nuovo con la mia famiglia francese. Faccio la “macchinista” in una fabbrichetta che confeziona vestiario per donne incinte. Faccio andare veloce la macchina da cucire e assemblo i vestiti insieme a Mimma e a due operaie portoghesi, Dolores e Teresa, che mi vogliono un bene dell’anima. Ogni mattina nel prato attorno trovo un quadrifoglio, lo considero di buon auspicio per gli anni a venire. Una sorta di garanzia.
Non mi sono scoraggiata neanche quando la Marna esondò e allagò la cantina dell’abitazione di zio Diego, che nel tempo aveva ampliata costruendo altre due stanze. Con lui mi sento sempre al sicuro, anche quella volta non ebbi paura. In quattro e quattr’otto realizzò due ponti in legno: uno per arrivare al bagno, che si trovava all’esterno della casa, l’altro per permetterci di raggiungere la strada. Zio Diego è in grado di risolvere qualsiasi problema.
La domenica ci svaghiamo recandoci nelle giostre che passano di paese in paese. Mi piace l’autoscontro perché c’è la possibilità di ottenere un gettone gratis gridando più forte il nome di Hallyday, l’idolo rock dei ragazzi francesi: “Johnny”, urlo con tutto il fiato che ho in corpo. Io e Carmelo abbiamo tutti i suoi dischi, lo adoriamo e abbiamo pure visto due suoi concerti. Quando canta “Que je t’aime” la mia mente plana lontano, sorvola gli oceani e i continenti e atterra in Australia. Va a fare visita a una promessa da mantenere. Che sarà mantenuta.

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Ciao, Pino

È proprio vero che la morte ci sorprende alle spalle. Non si è mai pronti. Inevitabilmente, poi, si associano volti cari ad esperienze condivise, a momenti vissuti insieme che sono stati più o meno felici. Si raccolgono i ricordi propri e quelli altrui, come per rubare un po’ di tempo a ciò che non ha più tempo, che non è tempo; per prolungare una vita che non è più vita, strappata a un saluto non scambiato nell’ultimo incontro.
Chi ci pensava. Chi poteva saperlo che quello sarebbe stato il nostro addio.
Pino, te ne sei andato in silenzio e scoprirlo è stata una deflagrazione. Da ieri si parla e si scrive di te, scavando nei ricordi sigillati dal sipario del tuo sorriso e dalle tue parole, che erano sentenze perché i principi nei quali credevi non erano per te barattabili. Perché essere idealista non può essere un demerito.
Si poteva essere d’accordo o in disaccordo con te, ma non si potevano mettere in dubbio, mai, la tua genuinità e la tua libertà di pensiero. Non dovevi niente a nessuno e da nessuno hai mai preteso niente. La tua forza, che qualcuno ha potuto equivocare considerandola scontrosità caratteriale, era tutta qua. È stata questa forza a consentirti di non essere etichettabile, di non sentirti vincolato al pensiero e alle azioni di nessuno, di poterti allontanare e di allontanare a tua volta senza traumi, di non trovarti nell’imbarazzante situazione di dovere rinunciare ai tuoi ideali, che sono stati la tua unica bussola: uguaglianza, giustizia sociale, attenzione per i più deboli.
Per me sei stato tante cose. Da bambino, sei stato il dio del calcio. Non ho potuto ammirarti sul rettangolo di gioco nei tuoi anni migliori, ma la leggenda sulle prodezze di Pino Pangallo l’ho ascoltata. Alcuni sostengono che sei stato il calciatore eufemiese più bravo di tutti. Ho fatto in tempo a giocare una sola volta con te, in una partita estiva tra una selezione locale e una di “oriundi”. Neanche a dirlo, per la nostra squadra segnasti tu, di gran lunga il più vecchio della squadra.
Ti vedevo però sempre nel “Bar Mario”, buon giocatore di biliardo (quante partite a goriziana abbiamo fatto nell’ultimo periodo di attività del circolo?) e presenza costante in quel microcosmo che ha innaffiato le mie amicizie più belle, facendole sopravvivere alla sua chiusura. Rapporti di affetto che sono state stampelle importanti per me e per la mia famiglia quando il mare si è gonfiato travolgendo tutto. Tu ci sei stato anche allora, con la tua amabile discrezione.
Negli anni, ci siamo spesso confrontati sulle questioni che più avevamo a cuore e che ruotavano attorno alla politica intesa come servizio, al tuo impegno nel sindacato, al particolare momento storico a livello nazionale, internazionale e locale. Grazie a questo dialogo, da te ho ricevuto uno tra i più belli attestati di stima quando fui candidato a sindaco nel 2017. Con la tua consueta sincerità mi dicesti che, se io lo avessi desiderato, ti saresti candidato nella mia lista, pur precisando che non disponevi di molti voti. Le dinamiche del voto, nei piccoli paesi, mi sono sempre state note. Così come mi era noto che tu, soggettivamente e oggettivamente, eri ciò che di più lontano da quelle logiche poteva esistere. Accettai, perché – come te – penso che alcuni valori vanno anteposti a qualsiasi ragionamento utilitaristico. E perdemmo, io per primo: ma che lezione hai dato a tutti. Di amicizia, di moralità e di lealtà.
Grazie di tutto, Pino: fai buon viaggio.

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Parole da man-tenere

Hanno ragione Nanni Moretti e il suo alter ego Michele Apicella, in “Palombella rossa”: «Le parole sono importanti». Sono anche pietre, ricorda il titolo dello splendido reportage di Carlo Levi sulla Sicilia della prima metà degli anni Cinquanta. Per cui non è vano, ogni tanto, ribadire che andrebbero maneggiate con cura. Soprattutto quando l’aura di sacralità che dovrebbe connotarle è uno sbuffo d’aria che si perde nel chiasso. Ancor di più ora che sono assimilabili ad un prodotto usa e getta, il cui significato può essere stravolto a convenienza.
Parole sputate dalla pancia, che non passano dal cranio prima del lancio. Ballon d’essai per testare l’effetto che fa, da smentire o contraddire senza imbarazzo. Parole in libertà. Non quella, sacrosanta, di esprimere la propria opinione. Piuttosto, l’arroganza della “commentite cronica” su ogni argomento di discussione, supportata da un’ignoranza di fondo che non considera contesti, coordinate spazio-temporali, relazioni causa-effetto delle questioni affrontate, di volta in volta, con sconfortante approssimazione.
Conoscere il valore intimo delle parole introduce, invece, al campo della pedagogia. È esercizio educativo utile per la formazione di buoni cittadini. Tra i tanti, un verbo mi sembra significativo per la potenza evocativa della sua etimologia: “mantenere”, dal latino “manu tenere” (“tenere con la mano”).
Mantenere può essere opera di resistenza, come in San Paolo, il quale al termine della sua corsa e dopo avere combattuto la buona battaglia, conserva la fede. È il sostegno offerto prestando gambe e braccia a chi non riesce a muovere un passo: «Ti mantengo in piedi io». È il bambino che si addormenta con più facilità se il suo dito è al sicuro, nell’incavo della mano del genitore. È il filo sfibrato che impedisce alla corda di spezzarsi. Che regge nonostante la fatica.
Mantenere una promessa richiede rispetto per sé e per l’altro, la parola acquista la sacralità di una reliquia. Nel mantenere la dignità la mano si stringe a pugno, in difesa del bene più prezioso che ci è dato possedere. Per mantenere in vita una speranza la mano sospinge il sogno mezzo metro in avanti, come la brezza una foglia. Chi mantiene un’idea contrappone il muro del palmo aperto al tentativo di comprimerne la libertà, e non cede di un passo.
Dal verbo deriva il sostantivo “manutenzione”, in riferimento all’insieme delle azioni necessarie per “mantenere” in efficienza qualsiasi oggetto. Un bisogno che si avverte anche con le parole, oggi che sembrano essere più vomitate che pronunciate.

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La roccia sul mare

I ricordi sono cardi che pungono rimpianti. Anche il ricordo della felicità, quando non è gioia ma nostalgia desolante della rosa appassita. Come una vertigine sull’abisso. Con un appiglio a portata di mano un equilibrio precario potrebbe trovarsi, ma la dimensione dei ricordi è da acrobata senza rete. Un tuffo nel vuoto che fa tremare il cuore, nell’infinita sospensione degli occhi distolti dallo sguardo di Medusa. Non è il sogno dai contorni sfocati che al risveglio lascia una condizione di inspiegabile serenità; che fa stare bene nonostante non si conosca il motivo della calmerìa. Non aiuta a scalare la montagna dell’indefinita tristezza del giorno dopo.
Felicità e dolore sono sentimenti soggettivi. Quante volte ci siamo sentiti morire, e invece siamo poi sopravvissuti? Quante volte abbiamo creduto di accarezzare le nuvole con l’indice, per poi scoprire la ferocia della nostra vanità?
Così come non si è felici in modo uguale, si è infelici ognuno a modo proprio. Imboccare l’uscita d’emergenza è esercizio di sopravvivenza che richiede ali da volo migratorio e muscoli allenati all’urto.
Di quanto fummo felici ce ne accorgiamo quando non lo siamo più, a incanto svanito. Forse perché la felicità è condizione eccezionale, che appare e scompare senza annunciarsi, che non saluta prima di allontanarsi con le mani in tasca. Che non si lascia scoprire: se non dopo, quando sulla sabbia rimane l’impronta dei suoi passi. O mentre si insegue tra le onde la striatura di un miraggio illusorio che approda al nulla. Alla donna che il detenuto di Lucio Dalla, in “Una casa in riva al mare”, dalla cella del penitenziario di un isolotto immagina alla finestra, sulla sponda opposta della lingua di mare che li separa, e che mai incontrerà.

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Quindici anni di messaggi nella bottiglia

Quindici anni sono voci e volti, chi c’era e chi non c’è più, le parole dette e rimangiate, quelle non dette e sotterrate. Sono conferme e mutamenti, personali e generali. Chiudo gli occhi, li riapro e sono qua. A sopravvivere allo stordimento del vortice della vita che scorre inarrestabile. Con più rughe e capelli bianchi, con qualche ferita, in questo presente destinato a diventare passato come il 24 marzo 2010, quando il blog “Messaggi nella bottiglia” emise il primo vagito: “Minita”. Il nome con il quale mi presentavo da bambino, in Australia, non riuscendo ancora pronunciare bene “Domenic” (e a questo punto, il sublime Totò esclamerebbe: «Hai aperto la parente? Chiudila»).
Da quasi novecento articoli sono passate alcune esperienze personali e la vita degli altri, vista o ascoltata. Inseguita per soddisfare la curiosità nei confronti di ciò che si muove nella società, per imparare qualcosa da avvenimenti e persone scavando sotto la crosta di apparenze spesso fuorvianti. Non esiste una verità assoluta, ma tante verità. Buono/cattivo e giusto/sbagliato sono contrapposizioni tanto semplificatrici quanto insufficienti, poiché il manicheismo non ci tira fuori dal mischione intricato della realtà. Occorre piuttosto guardare i colori “da dietro”, come Antonio Albanese in un celebre monologo. Provare altri punti di osservazione, porsi interrogativi capaci di aprire a prospettive non previste che possono rivelarsi reali, in grado di mandare gambe all’aria incrollabili certezze.
“Messaggi nella bottiglia” è un diario personale, post-it su libri letti, canzoni ascoltate e film visti. È cronaca locale e globale. È un baule di ricordi, riempito da storie vissute o tramandate nel tempo. Ma è principalmente uno spazio di libertà assoluta, che non risponde a nessuno di contenuti e considerazioni dettati esclusivamente da interessi e gusti personali. Nella consapevolezza, comunque, che scrivere comporta sempre un’assunzione di responsabilità.
Il blog mi ha dato la possibilità di coltivare la passione per la storia, di scrivere di fatti e personaggi finiti nelle pagine dei libri che ho dedicato a Sant’Eufemia d’Aspromonte. Consentendomi così di fare opera di memoria attraverso la scoperta o la riscoperta di vicende minime che si incastrano come tessere del mosaico della storia grande.
Quindici anni fa il primo post, nel considerare come potesse risultare utile affidare alle onde virtuali della rete un messaggio dentro la bottiglia, si concludeva con la citazione del titolo di un libro di Leonardo Sciascia: “A futura memoria”. Pubblicata nel 1989, la raccolta di articoli scritti dal maestro di Racalmuto recava come sottotitolo “se la memoria ha un futuro”. Una preoccupazione – si parva licet – che di certo non è estranea a chi, concentrandosi sulla dimensione locale degli avvenimenti, svolge attività che si prefiggono di mantenere vivo il senso di appartenenza alla propria comunità.

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Redemption Song

Oggi Bob Marley avrebbe compiuto ottant’anni. Come molti miti ci ha lasciati ancora giovane, a trentasei anni nel 1981. D’altronde, si sa, “gli eroi son tutti giovani e belli” (La locomotiva, Francesco Guccini). C’è stato un momento preciso nel quale le sue parole mi hanno aiutato a sperare, facendomi sentire libero anche quando libero non ero, in un afoso pomeriggio di fine luglio. Tra gente impegnata a riempire in qualche modo giornate sempre uguali.

«Riusciamo finalmente ad organizzare una partita di calcio, nel cortile grande. Mi sembra di essere tornato ragazzino, quando davo calci al pallone ovunque: in piazza, nei cortili, in pineta, per strada. Giochiamo cinque contro cinque, le porte sono dipinte sul muro. Come nel film “Ragazzi fuori”, di Marco Risi.
Le squadre sono multietniche. I ragazzi di colore, nigeriani, sono strutturalmente piazzati bene: alti, grossi e palestratissimi. Tutti i giorni dedicano qualche ora agli esercizi fisici nelle “palestre” improvvisate in cella. Tre giocano nella mia squadra. Domenique somiglia al giocatore del Milan, Kessie. Patrick a fine partita mi chiede l’età e pompa il mio ego osservando che gioco proprio bene. Piccole soddisfazioni. Con Luky ogni tanto facciamo anche una partita a scopone nella saletta.
Quasi tutti i giorni i detenuti nigeriani intonano qualche pezzo di Bob Marley mentre giocano a carte. Durante un’esecuzione sono intervenuto per sostenere che, secondo me, la più bella canzone del mito giamaicano è “Redemption Song”. La canto insieme a Luky: “Won’t you help to sing/ these songs of freedom/ ’cause all I ever have/ redemption songs”.
Chissà quando arriverà per me il canto della liberazione».
(Luglio 2020)

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Buon 2025

Erri De Luca ricorda che – secondo un vecchio proverbio – tre anni dura una siepe, tre siepi un cane, tre cani un cavallo, tre cavalli un uomo. Nelle sue tre fasi, l’andatura della vita umana ricalca il ritmo del cavallo: al galoppo nella gioventù, al trotto in età adulta, al passo quando gli anni cominciano a pesare. «Ma il tempo, il tempo chi me lo rende?», si chiede Francesco Guccini nell’intimo brano “Lettera”.
Senza il tempo non ci sarebbe la vita, costretti come siamo tra un inizio e una fine. Ed è inevitabile – ogni volta che la punta della biro punge il foglio – riflettere sugli anni che passano, con il loro carico di nostalgia. Con assenze che diventano buchi neri nei quali si rischia di affogare, quando sulle sedie vuote lampeggia il conto alla rovescia di una ricorrenza. Chiedersi se sia andata come avremmo desiderato, o se piuttosto il punto sia una liberazione, da trasformare in un trampolino dal quale saltare in groppa al futuro.
Chiunque commette errori, ha rimpianti, riscriverebbe qualche pagina scarabocchiata male. Ma viviamo nel presente e, ogni volta, è sempre una novità. Siamo ciò che siamo in una determinata circostanza, non le inutili ruminazioni del senno di poi.
Non ha senso la camicia di Nesso di ciò che poteva essere e non è stato. Vivere “bene” presuppone una buona dosa di accettazione, che non è rassegnazione, bensì la consapevolezza che l’esperienza è un’invenzione del giorno dopo.
Bisognerebbe abbandonarsi al mistero del viaggio, ai suoi incontri e alle sue emozioni. Gustare il bicchiere mezzo pieno, non recriminare sulla metà vuota. Riscoprire il fascino della lentezza per riuscire ad apprezzare il paesaggio, ascoltare il vento, avvertire colori e odori di un’avventura comunque affascinante. Farne post-it da attaccare all’anima, come gli attimi collezionati da Heinrich Böll.
“Richiamare in cuore” è l’etimologia della parola ricordo, che procede a passo lento, ma deciso, per contrastare l’oblio che incombe sul frenetico usa e getta di giornate uguali. Un viaggio, anche questo, che richiede occhi indomabili.
E allora buon anno a chi ha un motivo per non arrendersi e a chi, pur non intravedendolo tra i nuvoloni gravidi di pioggia, non smette mai di cercarlo.

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