Una padella come forno e una cravatta di carta. Ecco il nostro Natale in cella

Eccoci. Anche noi siamo pronti per il pranzo di Natale. Il direttore ci ha concesso la “socialità”: i detenuti potranno pranzare insieme, fino ad otto in un’unica cella, dove solitamente si sta in due. È uno dei “privilegi” dell’Alta sicurezza: almeno in questo carcere, le sezioni riservate ai carcerati più pericolosi (noi; io) non sono sovraffollate. Tra i comuni è diverso, in una cella vivono ammassati sei, sette detenuti; a volte di più. Il corridoio è un via vai di uomini con lo sgabello sotto il braccio, ognuno porta il proprio, altrimenti gli tocca mangiare in piedi. Sembra un trasloco.

In galera il giorno di Natale è pesante. La mente è affollata dai ricordi, da lontananze che provocano sofferenza. Non è festa, non lo è nemmeno a casa, dove il pensiero di noi è lacerante. Fa ancora più male sentirsi responsabili del dolore dei familiari.

Comunque ci proviamo. Per l’occasione ci vestiamo bene: pantaloni, camicia e giubbottino invece della consueta tuta sportiva sotto lo smanicato. Gianni, che conserva una sua inspiegabile ironia nonostante una condanna all’ergastolo in primo grado, sfoggia una cravatta realizzata con un foglio di giornale ripiegato. Gigi e Antonio hanno invece modellato i capelli con il gel e odorano di Paco Rabanne, come quando hanno il colloquio con i parenti e si profumano per scacciare via il tanfo di carcere che sentono appiccicato sulla pelle.

Ci è andata bene. La socialità non è un diritto riconosciuto ovunque all’interno del sistema penitenziario, è piuttosto un gentile omaggio che dipende dalla sensibilità di chi qua dentro regna come un sovrano assoluto. Ogni carcere è uno Stato a sé e ciò che è consentito al Pagliarelli può non esserlo a Poggioreale. Vale per la socialità, per il numero e la durata di telefonate e videochiamate, per gli acquisti del sopravvitto. Senza alcuna logica apparente, è il caso (capitare in un posto anziché in un altro) a rendere più o meno pesante la detenzione di questa umanità invisibile e dimenticata.

Qualche giorno fa il cappellano ha celebrato la messa nella chiesetta adornata di figure religiose dipinte negli anni dagli stessi detenuti. Un quadro riproduce l’immagine di San Leonardo di Noblac, il liberatore dei prigionieri, che compaiono in ginocchio al suo fianco, in catene. Siamo sempre nei pensieri di don Elio: «Ricordatevi dei carcerati, come se foste loro compagni di carcere» (Ebrei 13:3). Stamattina ha fatto arrivare vassoi di bocconcini alla crema, ne mangeremo come minino uno a testa. Non ne assaggio da mesi. Non si possono acquistare dolci di pasticceria, né si può ricevere del torrone con il pacco da casa. I panettoni invece si possono ordinare con la spesa settimanale. Ne abbiamo comprati in buon numero, in modo da scambiarli con altri detenuti, come regalo.

Per le torte non abbiamo problemi. Franco si diletta a preparare cheesecake favolose impiegando le confetture monodose che passano la mattina con la colazione. Il portavitto lo sa e gli lascia pure quelle che altri detenuti non ritirano. Oggi ha però elaborato una torta con le gocce di cioccolato, ottenute riducendo in frantumi – a colpi di caldaia della moka – una tavoletta di fondente. Il “forno” consiste in una padella sulla quale va appoggiata la “campana”, una pentola bucherellata come la padella delle caldarroste. Viene posto sopra un fornellino da campeggio, mentre i bruciatori di due fornellini ai quali è stato smontato il piatto vengono inseriti in due fessure realizzate ai lati della campana. Ciò consente di cuocere la torta sia di sopra che di sotto. Un capolavoro di ingegneria carceraria.

Inalando il gas della bomboletta di un fornellino, pochi giorni fa, Giulio ha deciso di farla finita, nella sezione dei comuni. Con l’avvicinarsi di una ricorrenza, per i più fragili tutto diventa più opprimente e qualcuno finisce per lasciarsi sopraffare dalla disperazione.

Franco ha voluto fare le cose in grande, ha cucinato per metà sezione la carne di agnello ricevuta con il pacco da casa, disossata e confezionata sottovuoto dopo una leggera cottura, suddivisa in pezzi conformi alle indicazioni dell’amministrazione penitenziaria. Anche noi viviamo sottovuoto, come le cotolette e gli insaccati che mamme, mogli e sorelle preparano e imbustano tra le lacrime, con un’attenzione religiosa.

Dividiamo il pane, ma non possiamo ripetere la stessa operazione con il vino, che è stato tolto dalla lista della spesa dopo una rissa scoppiata tra diversi detenuti ubriachi. L’alchimista della sezione ha però prodotto un surrogato di limoncello, per la verità imbevibile. Ad essere scoperti si rischia qualche giorno di cella di isolamento, ma un dito di liquido giallognolo, da dividere in otto, è giunto anche a noi. Brindiamo con quello alla nascita del Bambinello e al suo messaggio di salvezza, inumidendoci appena le labbra. Buon Natale.

Link: «Una padella come forno e una cravatta di carta. Ecco il nostro Natale in cella» (ildubbio.news)

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Totò, ci manchi

Con il trascorrere del tempo, inevitabilmente Facebook diventa un luogo di nostalgia. La funzione “ricordi”, con i vecchi post che il social ogni mattina consiglia di condividere, riproponendo avvenimenti e persone ci riporta indietro negli anni. Come eravamo, cosa facevamo, con chi eravamo in quel preciso giorno. Nostalgia che aumenta quando Facebook ci segnala il compleanno di amici che purtroppo non sono più tra di noi, ma il cui profilo risulta ancora attivo.
Mentre si è impegnati a vivere, non si pensa alla morte. Per cui in pochi utilizzano l’opzione che predispone la cancellazione automatica dell’account dopo un periodo di inutilizzazione. Certamente non ci aveva pensato Totò Ligato, il quale oggi – mi ricorda appunto Facebook – avrebbe compiuto 75 anni.
Totò, purtroppo, manca da sette anni. Per il dizionario della Treccani, mancare significa: “essere meno di quanto sarebbe necessario o conveniente o desiderabile; o non esserci affatto, di cosa che invece dovrebbe esserci”. Necessario, desiderabile, dovrebbe esserci: il verbo definisce in maniera esauriente il vuoto lasciato da Totò.
Sono tra i tanti che gli hanno voluto bene. Apprezzavo le sue corrispondenze per la Gazzetta del Sud da Melicuccà, Seminara, Sinopoli e San Procopio, rigorosamente firmate a.l.: Antonio Ligato. Ma per tutti noi è sempre stato “Totòligato”, tutto attaccato. L’avevo conosciuto intorno al 2000, lui corrispondente per la «Gazzetta del Sud», io per «Il Quotidiano della Calabria». Da allora e fino alla sua morte non abbiamo mai smesso di “frequentarci”, di scandagliare quelle piccole storie che affascinavano entrambi, che io ho finito per raccontare sul blog e nei libri, lui sulle pagine della Gazzetta, in un esercizio appassionante di custodia della memoria dei nostri luoghi.
Conservo con orgoglio le sue recensioni ai miei primi due libri sulla storia di Sant’Eufemia: Sant’Eufemia d’Aspromonte. Politica e amministrazione nei documenti dell’Archivio di Stato di Reggio Calabria. 1861-1922 (2008) e Il cavallo di Chiuminatto. Strade e storie di Sant’Eufemia d’Aspromonte (2013).
I corrispondenti locali danno visibilità a posti dei quali spesso, se non ci fossero loro a scriverne, non si saprebbe niente. Sono la voce dei territori che non hanno voce e di coloro che ci vivono. Svolgono una funzione sociale e civile tanto preziosa quanto misconosciuta.
Totò Ligato ha svolto questa “missione” in maniera alta. Nella sua lunga attività di cronista curioso del mondo e dell’infinita varietà umana, ha regalato ai lettori della “Gazzetta del Sud” ritratti indimenticabili di personaggi di paese, in particolare della sua Melicuccà nel Novecento: protagonisti di vicende paradigmatiche di un’epoca ricordata con la nostalgia che naturalmente si prova per gli anni che furono. A quelle storie ha dedicato anche un romanzo breve: Sabbia, uno scritto introvabile che qualche anno fa ho avuto la fortuna di recuperare in formato pdf e che meriterebbe di essere ripubblicato, insieme ad una selezione dei suoi articoli più significativi.
Totò era un giornalista romantico, al quale la dimensione di corrispondente locale andava bene, nonostante avesse una solidità culturale e uno stile di scrittura da cronista di razza. Mi mancano le sue osservazioni mai banali e la sua capacità di analisi, il suo amore per i nostri territori e per le storie delle umili genti, che soltanto nella penna di chi ha una sensibilità particolare trovano riscatto.

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Buon compleanno, professore Coloprisco

Un appuntamento fisso delle mie estati è l’abbraccio con Aldo Coloprisco, ex insegnante di lettere nella scuola media “Vittorio Visalli”, che oggi ha tagliato il traguardo degli ottant’anni.
Stento a crederci. La mia impressione è che la sua età sia rimasta ferma al periodo del nostro “incontro”, nella metà degli anni Ottanta. Ed è molto probabile che sia così, visto che ancora oggi scrive libri, organizza eventi culturali, fa teatro con la sua “Compagnia dei Capocotti” a Frascati (e non solo), dove risiede da tre decenni.
Il segreto dell’eterna giovinezza sta nel dedicarsi alle attività che più si amano. Coloprisco lo sa e si regola di conseguenza, potendo oltretutto contare sulla complicità della moglie Carmelita Tripodi, un vulcano di iniziative culturali e sociali.
Professore “bizzarro”, faceva sistemare i banchi a ferro di cavallo lungo il perimetro dell’aula e, in terza media, ci trasmise i rudimenti della lingua latina: «Serviranno a chi deciderà di iscriversi al classico o allo scientifico». Nella scampagnata di fine anno guidava la fila che a piedi percorreva i sentieri verso l’Aspromonte, dove ci raggiungeva Carmelita con l’auto carica di ogni ben di Dio.
Sono molti coloro che devono qualcosa a quest’uomo mite ma determinato, coerente con i valori della sua vita. Aldo Coloprisco è stato per lunghi anni un solidissimo punto di riferimento culturale, non soltanto per la libreria che gestiva e che, da allora, Sant’Eufemia non ha più avuto. La recitazione, da occasione di aggregazione e di responsabilizzazione, si è rivelata per molti ragazzi un potente strumento di liberazione. Le rappresentazioni non erano affatto una “pacchia”, per via del tempo che le prove sottraevano alle lezioni, nel teatro di “confine” con le file delle sedie dell’ex cinema, trasportate a scuola da noi studenti. Generazioni di eufemiesi hanno avuto modo di maturare una coscienza civile e di comprendere quanto sia nobile impegnarsi per migliorare, migliorando sé stessi, il posto in cui si vive. Buon cittadino è colui che si spende per contribuire alla crescita socio-culturale della sua comunità.
L’attività teatrale esaltava la funzione emancipatrice della cultura, nel solco di quel socialismo umanitario che ha costituito il fulcro della sua formazione politica. Se chiudo gli occhi, mi appare davanti il cofanetto della Laterza contenente i sette volumi giallo ocra della Storia del pensiero socialista di George D.H. Cole, che per la prima volta vidi nel suo studio. Non a caso, uno dei libri di narrativa adottati nel triennio scolastico, Tibi e Tascia di Saverio Strati, racconta il sogno di evasione dei protagonisti dal contesto angusto della realtà contadina calabrese. Coloprisco ci ha insegnato che i sogni sono parte importante della vita. Ma soprattutto ci ha insegnato il valore della libertà, un bene non negoziabile per nessuna ragione al mondo.
Buon compleanno, mio caro professore.

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Farewell

Il commediografo greco Menandro sosteneva che “il più dolce degli amori è l’amore che unisce due fratelli”. Ora che te ne sei andato, caro zio Stefano, non posso non pensare al sentimento fortissimo che ti legava a tuo fratello, mio padre. Ho assorbito come una spugna i vostri racconti, le vostre parole continuano a riscaldarmi.
Un autore che prediligo, Erri De Luca, ha scritto che “tutti gli occhi per vedere hanno bisogno di lacrime, se no diventano come quelli dei pesci che all’asciutto non vedono niente e si seccano ciechi. Sono le lacrime che permettono di vedere”. A tutti noi che ti abbiamo voluto bene, le lacrime di questi giorni hanno permesso di vedere, come in una rivelazione, ciò che sapevamo ma su cui spesso si sorvola, catturati come siamo dall’urgenza del quotidiano, dalla materialità dei giorni che si succedono ai giorni. Nella vita conta l’amore, conta ciò che di bello e di profondo riusciamo a costruire nel rapporto con gli altri e che sempre ritorna, come un’onda, quando abbiamo bisogno di capire chi siamo e cosa desideriamo.
La nostalgia è qualcosa che, facendo rivivere persone e luoghi, tiene compagnia. Ho nostalgia di te e della tua bonaria allegria. Ho nostalgia di te e di mio papà insieme, di quel rapporto simbiotico che poteva indurre a confondere un fratello con l’altro. Nel mio ricordo siete giovani e caparbi, pronti a prendere a morsi la vita per non soccombere alle avversità.
Conoscevate la miseria perché il suo volto vi era stato familiare. Da questa consapevolezza nasce la capacità di attribuire il giusto valore ad ogni cosa, anche a ciò che può sembrare insignificante agli occhi di chi ha tutto. Per voi non è stato così e se noi, oggi, comprendiamo la grandezza del sacrificio e la dignità del lavoro, lo dobbiamo al vostro esempio.
Nei vostri racconti ho cercato di cogliere l’epica della lotta. Quella di bambini cresciuti sotto le lamiere di una piccola baracca: corpo contro corpo, nel letto condiviso con adulti e piccini, per riscaldarsi in inverno. Senza acqua, se non quella prelevata dalla fontana pubblica. Senza luce, se non quella debole del lume ad olio. Senza molto da mangiare, dentro la pentola messa a bollire sul fusto alimentato con la segatura.
L’emigrazione in Australia è stato il prezzo da pagare per tendere con dignità ad una prospettiva diversa, che risparmiasse ai figli gli stenti dell’adolescenza dei padri. Con rulli e pennelli avete donato al loro futuro il colore di una speranza nuova. Affondiamo le nostre radici in questa storia, che sa di fame, di orgoglio, di coraggio e di riscatto; che ci ricorda da dove veniamo e ci esorta a non smettere mai di inseguire una possibilità.
Dal giorno della tua morte, tra le pieghe dei miei ricordi fa capolino un episodio di allegra spensieratezza, risalente all’estate che molti anni fa trascorresti a Sant’Eufemia. Ogni mattina si andava al mare e ogni mattina, arrivati nella curva che costeggia il castello di Scilla, nel punto esatto in cui la spiaggia sottostante si presenta e la bocca del mare si spalanca, puntualmente canticchiavi l’attacco di un vecchio successo di Edoardo Vianello: «Con le pinne, il fucile e gli occhiali/ mentre il mare è una tavola blu…». Mi aggrappo al tuo sorriso di allora, all’immagine di te felice insieme ai tuoi “niputeddi”, come fino alla fine ci hai sempre affettuosamente chiamati.
Buon viaggio, zio.

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Preferisco di no

Rompo il silenzio che mi sono imposto sulle vicende politiche di Sant’Eufemia per rispondere definitivamente alle tante voci che negli ultimi mesi sono circolate rispetto ad un mio impegno nelle prossime elezioni amministrative, che dovrebbero tenersi in autunno.
Non mi candiderò, come sa bene chi ha chiesto direttamente a me; né mi fa piacere essere accostato a questo o a quel gruppo. Nel momento in cui saranno presentate le liste, se saranno più di una, leggerò i nomi dei candidati e, nel segreto dell’urna, sceglierò chi a mio avviso considero capace di dare qualcosa al paese.
Ho ricevuto diverse sollecitazioni, che mi hanno lusingato, ed ho molto riflettuto. Non nego che forte è stata la tentazione di cedere all’opera di convincimento di diversi amici, sia per ricambiare il loro attestato di stima e di affetto, sia per un senso personale di rivalsa rispetto alla disavventura che ha prodotto la mia assurda carcerazione tra febbraio e settembre 2020. L’orgoglio, però, non è mai una medicina efficace contro gli acciacchi dell’anima.
La mia decisione nasce da motivi personali e di carattere generale. Sorvolo sulle ragioni personali, mentre credo possa essere utile soffermarsi su quelle che attengono ad una questione di carattere generale molto grave, fintantoché il legislatore non produrrà una riforma che a parole è invocata da tutti, mentre nei fatti risulta ancora inevasa.
Nelle aule del tribunale si sta svolgendo il processo scaturito dall’inchiesta che ha provocato lo scioglimento per mafia del comune di Sant’Eufemia, sulla base di una legge antidemocratica che eleva a parametro di valutazione il pregiudizio e il sospetto.
Per sciogliere un comune, oggi, non è necessario accertare condizionamenti, infiltrazioni, presenza della criminalità organizzata all’interno del consiglio comunale. È sufficiente che un prefetto, sulla base di informazioni, segnalazioni, risultanze investigative, ritenga possibile che ciò accada. Possibilità che, è di facile intuizione, viene considerata elevata, se non addirittura scontata, quando viene rilevata nel territorio la presenza di una cosca.
Allo stato attuale è diventato quasi impossibile fare politica nei comuni piccoli, dove tutti conoscono tutti, si incontrano più o meno volontariamente, hanno rapporti di parentela con soggetti condannati o imputati per mafia. Fare politica, soltanto per questo, potrebbe comportare l’invio di una commissione di accesso antimafia, la cui attività generalmente si conclude con lo scioglimento del comune.
Voglio essere ancora più chiaro. Non è una questione di coraggio. Non temo niente, così come niente ho temuto nei sette mesi trascorsi ingiustamente in carcere. La verità, presto o tardi, viene sempre a galla. Così è stato per me e così sarà per molti altri, ancora in carcere o liberi ma sotto processo.
Chiunque può determinarsi come meglio ritiene nelle scelte private, mettendo in conto che ciò potrebbe avere effetti negativi sul piano personale. Altra cosa, invece, sono le decisioni che comportano conseguenze non esclusivamente individuali e che potrebbero procurare un danno alla propria comunità, facendo così passare per egoismo e irresponsabilità le proprie legittime aspirazioni.
Fuori dalle istituzioni esistono d’altronde ampi spazi di intervento per contribuire alla crescita sociale e culturale del posto in cui si vive e per condurre, forse addirittura con maggiore libertà, importanti battaglie di civiltà.
«È un tempo che sfugge, niente paura/ che prima o poi ci riprende». Nessuno può sapere cosa ci riserverà il futuro. Ma ora, in questo particolare e delicato momento storico, Sant’Eufemia ha bisogno di tornare alla normalità e di recuperare, anche lei, un po’ di serenità.

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Il signore vale per tutti

«Il signore vale per tutti». Poi partiva il riconoscimento dei ragazzini da parte dell’arbitro, che precedeva l’ingresso in campo. Non tutti avevano la possibilità di pagare per una fototessera, circolavano fotografie surreali: indimenticabile quella, a figura intera, di un bambino che teneva con la mano destra un lungo giglio bianco, nel giorno della prima comunione. L’arbitro pronunciava i cognomi seguendo l’ordine della distinta. I calciatori rispondevano dichiarando il nome e mostrando il numero della maglia, con una veloce torsione del busto. L’ultimo chiamato era il guardalinee, l’uomo più ignorato del pianeta, visto che il direttore di gara non teneva in nessuna considerazione le sue segnalazioni, sapendole spacciatamente di parte. Ma ogni squadra doveva avere il proprio: un dirigente accompagnatore o un tesserato che non figurasse tra i sedici della distinta, perché troppo scarso o perché infortunato.
Corsetta blanda fino a centrocampo, saluto agli spettatori anche quando non c’era nessuno e iniziava il match. Le linee del rettangolo di gioco non sempre erano dritte. Anche dare una mano al custode del campo per “squadrare” il campo era uno spasso. Il gran premio con il carrello segnacampo riempito di calce lasciava sul terreno qualche imperfezione. Soprattutto quando, per fare presto, non si tendeva il filo sul quale occorreva passare con l’attrezzo. O quando si era perso troppo tempo per scavare con la pala il solco necessario per svuotare la pozzanghera d’acqua che immancabilmente si formava dopo la pioggia proprio sulla linea di porta.
Il custode, noto come “il professore”, era un personaggio mitico, artista del tè caldo in inverno e della “limonina” quando le temperature cominciavano a salire. Bevanda da distribuire nell’intervallo tra primo e secondo tempo, per riscaldarsi o per dissetarsi, mentre il mister imprecava. Possedeva un oggetto del quale probabilmente esisteva un unico pezzo, il suo: un’incredibile musicassetta porno che i ragazzini ascoltavano dal suo mangianastri prima degli allenamenti, per ammazzare l’attesa. Era tutto un sospirare e gemere, ma anche un encomiabile lavoro di fantasia. L’uomo più buono del mondo, nonostante i continui richiami ai due ragazzini che non volevano saperne di uscire dalla doccia e andavano via dal campo per ultimi, quando già era buio, perché si dilungavano a chiacchierare seduti sul piatto doccia incrostato di ruggine, sotto il getto dell’acqua bollente che finalmente potevano accogliere tenendo strette le palpebre. Mai chiudere gli occhi, invece, quando si era in tanti, anche a costo di bruciarsi gli occhi con il sapone. Si rischiava di diventare vittime di scherzi atroci. Il più accettabile consisteva nell’arrivo improvviso, su una gamba o altrove, del getto caldissimo della pipì di un compagno. Quando “il professore” si era stancato di urlare che era ora di uscire dalla doccia, staccava la corrente del boiler: fine del film.
Era sempre lui a lavare le divise, che erano quelle della “prima squadra” e dentro le quali i più piccoli scomparivano. La stampa sul petto del nome dello sponsor era una sorta di mattonella che, per caduta, si appoggiava sul bassoventre e diventava pesantissima sotto la pioggia. Come il pallone, anche l’unico mezzo discreto che, se maledettamente un tiro sbagliato gli faceva oltrepassare la recinzione, costringeva a giocare il resto della partita con quello di riserva, scorticato e deformato, dall’eloquente colore grigio scuro. Poteva capitare che non ci fosse il tempo per lavare la divisa utilizzata dai “grandi”, ma per nessuno dei ragazzi è mai stato un problema indossarla sporca. Non era importante, così come non lo erano pantaloni e calzettoni dei più svariati colori. Quelli abbinati alla maglia scomparivano infatti con una certa facilità, anno dopo anno.
L’unica vera preoccupazione la dava il portiere, che veniva a giocare di nascosto, senza che i genitori ne fossero al corrente. Proprio per questo non faceva la doccia, né portava con sé il borsone. Non era il solo a non avercelo. Dentro provvidenziali buste di plastica veniva infilato tutto il necessario, comprese le scarpette mezze scassate, già utilizzate da qualche compagno che aveva acquistato quelle nuove. Memorabile, tuttavia, una tracolla dell’Alitalia adattata allo scopo.
Ragazzini, borsoni e buste si stringevano dentro un’immarcescibile 126 bianca, un fiabesco Maggiolone la cui caratteristica era un buco sotto il tappetino attraverso il quale si poteva osservare l’asfalto della strada, una 127 rossa sulla quale si sfiorò la tragedia quando le piccole pesti svuotarono il plotoncino di fragole incautamente sistemato sopra la mensolina, durante il viaggio di ritorno da Bagnara. E poi lei, la 131 azzurra che non trasportò mai meno di sette calciatori, alcuni dei quali venivano fatti scendere prima dell’arrivo a Gioia Tauro, si arrampicavano sul costone e poi venivano ripresi a bordo della vettura che aveva passato indenne il posto di blocco all’uscita dello svincolo autostradale. Scoppiammo a ridere quando il conducente ci svelò che in Australia aveva imparato il significato dell’acronimo SOS, mentre uno accanto all’altro facevamo la pipì in una piazzola d’emergenza: «Salvate le nostre anime». Aveva ragione lui: Save Our Souls.
Ci abbiamo provato.

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Della felicità

Quanto è transitoria la felicità? Dalla sua impermanenza deriva il manifestarsi a lampi, con bagliori accecanti che nascondono il paesaggio circostante. Quando siamo felici, esistiamo soltanto noi e lei: chiunque o qualsiasi cosa essa sia. Di tutto il resto si percepiscono i contorni imprecisati, quinte sfocate del teatro che calpestiamo.
Sono attimi da respirare a pieni polmoni come dalla cima della montagna; da gustare come nespole succulente. Quando il bagliore si spegne, i ricordi del passato trapuntano di nostalgia la tela buia.
Per questa sua natura effimera, la felicità è la collezione di attimi del clown di Böll, il carpe diem di Orazio, il viaggiare leggero di de Saint-Exupery.
Ciascuno di noi insegue la propria felicità, che «sappiamo soltanto guardare, aspettare, cercare già fatta/ quasi fosse anagramma perfetto di facilità/ barando su un’unica lettera», fa notare Guccini mettendo in guardia su quanto essa sia complicata da raggiungere.
A volte non si è neanche in grado di riconoscerla, bombardati come siamo dal nulla fuorviante che ci opprime. Eppure pretendiamo di essere felici; addirittura rivendichiamo la felicità come un nostro diritto, alla maniera dei padri fondatori degli Stati Uniti che lo scolpirono nella Dichiarazione d’indipendenza. Un principio impegnativo, tanto suggestivo quanto illusorio. Buono per riempire cornici da appendere al muro.
Qualcuno ha affermato che di Federico Fellini sta al cinema come l’Ulisse di James Joyce sta alla letteratura. Il film premio Oscar nel 1964 racconta la crisi esistenziale e professionale del regista Guido Anselmi, interpretato da Marcello Mastroianni. Nella celebre scena del colloquio tra Anselmi/Fellini e il Cardinale, la risposta dell’alto prelato al regista che espone il suo dramma («Eminenza, io non sono felice») è terrificante: «Perché dovrebbe essere felice? Il suo compito non è questo. Chi le ha detto che si viene al mondo per essere felici?».

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Brindo

Brindo
a chi c’è senza esserci,
nell’aria
nella fiamma del camino
nel profumo del caffè.
Brindo
a chi non potrà brindare
a chi attenderà la mezzanotte
spalle sul materasso
gli occhi incollati al soffitto.
Brindo
alla luce spenta
ai televisori muti
all’acqua nei bicchieri di plastica
al sonno che salva.

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Buon Natale

Beati coloro che sanno emozionarsi nell’attesa del miracolo che ogni anno si compie, l’ennesima ri-nascita. Con un inizio testardo da attaccare ad ogni fine con la colla, come la coda colorata del disegno del bambino.
Tra bilanci più o meno impietosi e buoni propositi, contiamo le sedie vuote di chi non c’è più, di chi non ha voluto esserci, di chi non può esserci. Mentre i ricordi trafiggono l’anima. Mentre i ricordi accarezzano l’anima.
Natale è tempo di assenze. Ingombranti nel loro non esserci, assordanti nel loro silenzio. Un tempo sospeso, che svanisce in un giro d’orologio portando con sé addizioni e sottrazioni, successi e fallimenti. Incalzato dall’urgenza di recuperare la coperta che protegga il bambino dal gelo. Perché si è inevitabilmente chiamati a fare i conti con la realtà, non con la sua idea o rappresentazione.
Non si può scappare dalla vita, quella cosa che ti travolge proprio quando pensi di avere tutto sotto controllo. Quando il cammino ha l’aspetto ingannevole di una strada lunga e dritta: senza curve, salite, incroci. Tocca andare e vedere le carte, con il bello e con il cattivo tempo. Con in bocca la preghiera cantata da De Gregori a Gesù Bambino: «Fa che piova un po’ di meno, sopra quelli che non hanno l’ombrello».
Buon Natale

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L’uomo non è il suo reato

Ripensavo a Vincenzo Pinneri proprio ieri, nel giorno del suo compleanno. Era infatti nato il 23 ottobre del 1924 ed è morto nel 2012, quasi novantenne. Un’età che forse nemmeno lui si sarebbe aspettato di raggiungere. Anzi, sono quasi certo che gli è dispiaciuto esserci arrivato.
Gli sono stato amico, come tanti in paese. Nonostante il suo caratteraccio, Pinneri era capace di gesti affettuosi, addirittura commoventi. Perché rispolvero il ricordo di un uomo che in gioventù commise crimini imperdonabili? La sua storia è nota, io stesso ne scrissi anni fa. Non mi interessava allora e non mi interessa adesso il mito che in qualche modo ne ha accompagnato la vita, trascorsa per 36 anni in prigione. Interessante può essere invece ribadire che l’uomo non è il suo reato.
La carriera criminale di Vincenzo Pinneri inizia nel 1942 con l’assassinio del fratello. Caino che uccide Abele. Sangue del proprio sangue. Si può commettere un delitto più grave? No, non si può. Nemmeno se il fratello maggiore era violento nei confronti del minore, sin da quando il ragazzino andava dietro ai muli e agli asini per raccogliere in un secchio gli escrementi da portare agli gnuri del paese, che li utilizzavano come concime per l’orto. Un contesto di degrado e di assoluta povertà, al quale fece da detonatore la fame portata in dote dalla seconda guerra mondiale.
La banda Pinneri, che nacque nello sbandamento economico, sociale e politico-istituzionale vissuto dopo l’8 settembre 1943, è finita sui libri di storia: della faida e delle altre poco sue edificanti gesta si sa tutto. Omicidi, assalto alla caserma dei carabinieri di Sant’Eufemia, attentato contro il questore di Reggio Calabria. Io stesso ho raccolto il suo punto di vista sulle vicende di quel lontano 1944, in una lunghissima intervista che non ho mai pubblicato e che doveva essere il canovaccio di un libro mai scritto.
Pinneri riacquistò la libertà nel 1978, dopo avere girato tutti gli istituti penitenziari di massima sicurezza: da Pianosa all’Asinara, da Porto Azzurro al carcere di Favignana, con le celle scavate nella roccia sotto il livello del mare: prive di finestre e talmente umide da infracidirgli i polmoni e costringerlo, nei suoi ultimi anni, a portarsi appresso la macchina per l’ossigenoterapia. Libero dopo avere conosciuto il morso delle cinghie dei letti di contenzione, i cui segni gli rimasero per sempre impressi sulla pelle.
In ricordo della lunghissima detenzione divenne per tutti “Ceo Galera”, ma del giovane sbandato e violento sopravviveva soltanto un residuo di irascibilità caratteriale. L’ho visto commuoversi per i giovani che non riuscivano a trovare lavoro ed erano costretti ad emigrare; l’ho visto piangere per la morte di una giovane ragazza, alla quale sinceramente avrebbe donato la propria vita, considerata ormai inutile. Ho ammirato la sua imbarazzante generosità. Mi sono emozionato per l’affetto che nutriva nei confronti dei bambini.
Non credo sia rilevante sapere se abbia cercato di riscattarsi rispetto a ciò che era stato nel primo mezzo secolo di vita, se abbia così consumato la sua personale espiazione.
La storia di Pinneri è invece paradigmatica della natura umana. Racconta che ognuno di noi è un mistero affascinante e terribile, capace di grandi nefandezze così come di sorprendenti atti d’amore. Spiega che non siamo una monade inscindibile e immutabile, bensì un caleidoscopio di sentimenti che, nell’arco di una vita, prevalgono o soccombono. Conferma infine che è sbagliato impiccare l’essere umano ad immagini e fatti cristallizzati.
Eraclito ci ha insegnato che se l’acqua del fiume non è mai la stessa, il fiume non è mai lo stesso. E così l’uomo.

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