Da diversi giorni mi martellano la testa i versi di una canzone di Ligabue, Anime in plexiglass: «Una volta qui c’era il Bar Mario/ l’han tirato giù tanti anni fa/ e i vecchi sono ancora lì/ che dicono che senza non si fa». Invece si fa, si deve fare. Cercando di tenere a bada una tempesta emotiva comprensibile, se penso a quante vite vi sono passate dentro, dal lontano 1982. A partire dalle nostre, quelle della mia famiglia. La mia, un bambino di neanche dieci anni che saliva sulla cassa della Peroni per preparare il caffè, perché altrimenti non riusciva ad agganciare il braccetto portafiltro alla macchina. Quella dei miei fratelli, con i quali si faceva a gara per chi doveva servire ai tavoli perché, in fondo, in quegli anni per noi il bar era un gioco. Il sacrificio di mia mamma e di mio papà, alla cui intuizione si deve la nascita del circolo ricreativo, seguita alla trasformazione dei locali del vecchio cinema (del quale fu l’ultimo gestore al rientro dagli undici anni vissuti in Australia) in un moderno punto di aggregazione per i giovani del paese. Il Bar Mario è stato la nostra vita. Non è stato facile, si è dovuto stipare il cuore in un cassetto e tapparsi le orecchie. Ma credo sia giusto così, senza bisogno di ulteriori spiegazioni. Preferisco pensare a tutto ciò che il circolo ricreativo gestito dalla mia famiglia ha significato, al tanto che abbiamo dato e al tanto che abbiamo ricevuto. Il mio pensiero va ai tanti amici che purtroppo non ci sono più, alle lezioni di vita che ho appreso da tutti coloro che lo hanno frequentato in oltre quarant’anni di attività. Là dentro ho imparato cosa è giusto fare e cosa è giusto non fare. Il contatto quotidiano con la gente, i problemi di giovani e meno giovani, l’instaurazione di rapporti di sincera amicizia sono stati per me una palestra di vita e un tesoro di umanità che conserverò gelosamente per sempre. Dal Bar Mario sono transitate generazioni di ragazzi diventati adulti, molti costretti ad emigrare, ma che ad ogni estate hanno continuato a passare dal circolo per un saluto, per ricordare vecchi aneddoti e per tenere così vivo il ricordo dei giorni felici. Anni d’oro, con oltre 200 soci che affollavano il locale dalla mattina alla sera, distribuiti nei diversi ambienti: la sala biliardi con tre tavoli (prima Mari, poi Hartes, infine MBM), per occupare i quali occorreva la prenotazione; il palcoscenico del teatro chiuso da un tendone, con cinque tavoli riservati al gioco delle carte (scala 40, ramino, tressette, scopa, briscola); la sala giochi con il calciobalilla, il flipper e oltre dieci videogiochi cabinati, da SuperMario Bros a Pac-Man, da Street Fighter a Space Invaders, il mio preferito. Gli anni dei tornei di biliardo, di calcio, delle gare di ciclismo, della sagra delle ciliegie. Ringraziamo chi in questi giorni ha espresso dispiacere per la chiusura del circolo. Ringraziamo coloro che ci sono stati vicino in questi anni, molti dei quali nel tempo sono diventati amici di famiglia: i fornitori di bevande Raffaele Fazzari e Giuseppe Carbone, Tonino Rizzitano (Gelati Algida), Carmelo De Leo (Caffè Moca), Arturo Nastasi (AICS Reggio Calabria). Quattro decenni vissuti con umiltà possono ora lasciare il campo all’orgoglio per essere stati un punto di riferimento importante nella comunità eufemiese. Alla mia famiglia mancherà il Bar Mario, ma in questo momento è una piccola consolazione sapere che non mancherà soltanto a noi. Abbiamo voluto bene, siamo stati voluti bene. Questo conta, questo ci fa essere ciò che siamo. Grazie a tutti.
Altri dodici giorni e avrebbe compiuto trent’anni. Chissà se Carlo Muscari pensò a quell’imminente anniversario, mentre infilava la testa dentro al cappio in piazza Mercato, a Napoli, il 6 marzo del 1800. Tra gli ultimi patrioti della Repubblica Napoletana ad essere giustiziato, Muscari era nato a Sant’Eufemia il 18 marzo 1770 da Francesco e Lavinia Pugliatti. Il padre apparteneva ad una ricca ed aristocratica famiglia di proprietari terrieri originaria di Melicuccà, la madre era una nobildonna reggina. Compiuti gli studi ginnasiali a Roma sotto la guida dello zio Giuseppe Maria Muscari, intimo di Pio VI e di Sant’Alfonso de’ Liguori, si laureò in legge a Napoli, dove viveva il fratello maggiore Giuseppe, avvocato, che curò anche la formazione di un altro fratello, Gregorio. Nella capitale borbonica frequentò gli ambienti massonici e nel 1794 fu coinvolto in una congiura giacobina che gli procurò l’arresto e la reclusione nel carcere della Vicaria, con l’accusa di “asportazione d’armi proibite, bestemmie, miscredenze, violenze ed altri eccessi”, oltre che per il possesso di “alcuni libri sediziosi francesi”. Messo in libertà dietro il pagamento di una cauzione di 1.000 ducati, subì un altro deferimento tra il 1795 e il 1797. Con l’arrivo dei francesi a Napoli e la fuga del re Ferdinando IV, Carlo Muscari fu tra i protagonisti degli eventi che portarono alla proclamazione della Repubblica Napoletana, a gennaio del 1799. Inizialmente ebbe il comando della II compagnia della I legione, con il grado di capitano; successivamente, passò prima alla II legione come capo battaglione e infine fu comandante della Legione “Bruzia”, che contava 500 fanti e 200 cavalieri. Il 20 gennaio 1799 partecipò alla presa del castello di Sant’Elmo e alle operazioni che sancirono la vittoria degli insorti filofrancesi, mentre a marzo si distinse nello scontro contro i filoborbonici di Torre Annunziata. Membro della “Commissione pel piano delle Finanze”, insieme al fratello Gregorio fu inoltre componente della Commissione “degl’informi” (23 marzo), che si occupava dell’epurazione dell’apparato burocratico borbonico. Nel frattempo, anche il quarto fratello Muscari, Mercurio, era scappato da Sant’Eufemia in seguito al saccheggio ed al tentativo di incendio della propria abitazione da parte delle truppe sanfediste che stavano risalendo la Calabria e raggiunse i fratelli a Napoli. La guerra civile stava però cambiando segno. Dopo la capitolazione dei giacobini nella difesa del forte di Vigliena (13 giugno 1799), le truppe del cardinale Ruffo guadagnarono il controllo della città. Carlo, Gregorio e Giuseppe Muscari si asserragliarono nei Castelli. Mercurio, che inizialmente aveva trovato rifugio in un convento, da lì fu costretto a scappare travestito da frate, ma fu riconosciuto e arrestato. Il trattato di capitolazione sottoscritto il 19 giugno concedeva agli insorti la facoltà di trasferirsi in Francia. Ma cinque giorni dopo sbarcò a Napoli l’ammiraglio Nelson, il quale come primo atto ordinò la sospensione del trattato. Cosicché dal vascello inglese “Audace”, dove aveva ottenuto di trasferirsi insieme ad altri patrioti calabresi che avevano scelto l’esilio e che era pronto a salpare verso la Francia, Carlo Muscari fu trasbordato sulla corvetta borbonica “Stabia”, riportato a terra e “fatto transitare assieme a tanti altri per le vie di Napoli con un collare al collo” prima di essere imprigionato nei Castelli del Carmine e Castelnuovo, in attesa del processo. Tra le lettere della fitta corrispondenza intercorsa tra Ferdinando IV di Borbone e il cardinale Ruffo, ad agosto, una fa riferimento al condannato eufemiese: «Il Re ha risoluto, e vuole che la Suprema Giunta di Stato proceda in giustizia, e giudichi con tutto il rigore delle leggi i seguenti rei di Stato: Carlo Muscari, Michele Filangieri, Pietro Doria». Per lo storico Vincenzo Cuoco la condanna a morte di Muscari, emessa il 27 gennaio 1800, è paradigmatica del clima giustizialista instauratosi con il ritorno dei Borboni: «Le sentenze erano fatte prima del giudizio. Chi era destinato alla morte doveva morire […]. Dal processo di Muscari nulla si rilevava che potesse farlo condannare; ma troppo zelo avea dimostrato Muscari per la Repubblica, e si voleva morto. La Giunta, dicesi, ebbe ordine di sospender la sentenza assolutoria e di non decidere la causa finché non si fosse trovata una causa di morte. A capo di due mesi è facile indovinare che questa causa si trovò». Ferdinando IV di Borbone, con la “reale determinazione” del 14 febbraio riconfermò la sentenza di morte. Eseguita la sentenza, la salma fu poi sepolta nella chiesa di Santa Caterina ai Funari. Nel centenario della morte il presidente del consiglio provinciale di Reggio Calabria, l’eufemiese Michele Fimmanò, tenne il discorso commemorativo che si concluse con la collocazione, all’interno del municipio di Sant’Eufemia, di una lapide in marmo con sopra scolpite le parole dettate da Vittorio Visalli: «Tradita la fede dei patti/ da bieca voluttà di tiranni/ CARLO MUSCARI/ milite della Repubblica Partenopea/ moriva strangolato a Napoli/ il 6 marzo 1800/ I cittadini eufemiesi dopo 100 anni/ a ricordo ed esempio». Ridotta in macerie nel terremoto del 1908, una riproduzione dell’iscrizione fu posta alla fine degli anni Venti nel nuovo palazzo municipale, ma anch’essa andò distrutta con la demolizione dell’edificio, nella metà degli anni Ottanta.
Circa un mese fa scrissi un post sugli articoli dedicati dal Corriere della Sera a Sant’Eufemia d’Aspromonte in occasione del terremoto del 28 dicembre 1908 e, sulla base delle informazioni storiche inedite così recuperate, un altro sull’attività di soccorso della nobildonna Adele Alfieri di Sostegno. Molto interessante è quello datato 13 marzo 1909, che fa riferimento al consiglio comunale del 9 marzo, nel quale l’amministrazione di Sant’Eufemia, allora retta da un commissario, deliberò di adottare quale bandiera del comune quella del municipio di Milano (croce rossa su sfondo bianco), consegnata dai volontari milanesi alla comunità eufemiese alla fine dei due mesi trascorsi in terra aspromontana: Il Comune di S. Eufemia d’Aspromonte, quale omaggio e manifestazione di gratitudine a Milano, ha deliberato di adottare per la sua bandiera i colori della nostra città. Ottenendone l’adesione dal sindaco sen. Ponti, il Commissario prefettizio Cappelli, ne dava notizia ai cittadini di S. Eufemia, con un nobile manifesto. «Quando voi vedrete – dice questo – sventolare la candida bandiera con la Croce rossa, ricordatevi che quei colori sfolgoravano al sole della vittoria sui campi di Legnano, là dove il valore italiano, e specialmente dei milanesi, seppe piegare e sconfiggere l’oltracotanza dello straniero. Da quel dì risorse a vita nuova la bella e cara città lombarda; da quel dì crebbe nella prosperità e nella potenza la nobilissima regina della valle padana, che nell’ora della sventura vi ha soccorso con regale generosità, ed ora vi conforta permettendovi di adottare nella bandiera i suoi colori». La manifestazione di S. Eufemia d’Aspromonte, alla cui resurrezione lavora il Comitato milanese di soccorso, non poteva essere più nobile e commovente.
La notizia non è nuova, io stesso l’ho riportata in diversi miei libri. Tuttavia, nel tempo la bandiera è scomparsa da un punto di vista “istituzionale”. Lo Statuto comunale attualmente in vigore, approvato nel 2000 e successivamente modificato un paio di volte, all’articolo 6 menziona soltanto lo stemma e il gonfalone, che sono “quelli descritti dal Decreto del Presidente della Repubblica del 16 gennaio 1995”. E cioè: STEMMA: di rosso, alla Santa Eufemia, in maestà, leggermente volta a destra, con il viso, le mani, i piedi di carnagione, aureolata d’oro, capelluta dello stesso, vestita con la lunga tunica d’argento, le spalle coperte dal manto d’azzurro, ricadente sul fianco sinistro, la Santa impugnante con la mano destra la palma del martirio, di verde, posta in palo. Ornamenti esteriori da Comune. GONFALONE: drappo partito di bianco e di azzurro riccamente ornato di ricami d’argento e caricato dallo stemma sopra descritto con la iscrizione centrata in argento, recante la denominazione del Comune. Le parti di metallo ed i cordoni saranno argentati. L’asta verticale sarà ricoperta di velluto dei colori del drappo, alternati, con bullette argentate poste a spirale, Nella freccia sarà rappresentato lo stemma del Comune e sul gambo inciso il nome. Cravatta con nastri tricolorati dai colori nazionali frangiati d’argento.
Non conosco il motivo per cui, a differenza di tanti altri, lo Statuto comunale di Sant’Eufemia non conferisce nobiltà istituzionale alla propria bandiera. Ritengo però che spesso la forma è sostanza e che, pertanto, gli atti ufficiali possono contribuire al rafforzamento della memoria storica di una comunità. Si può rimediare e mi auguro che il sindaco Pietro Violi, al quale va il mio ringraziamento per avermi messo in contatto con Alberto Minissi (colui che mi ha fatto pervenire gli articoli del Corriere della Sera), si faccia promotore dell’iniziativa istituzionale necessaria.
Al netto della gioia per chi è stato restituito ai propri affetti e con la certezza che altre posizioni verranno chiarite nei successivi gradi di giudizio, un dato va sottolineato, urlato direi: l’amministrazione comunale di Sant’Eufemia d’Aspromonte non era in mano a nessuna presunta cosca. Le figure “infiltrate” nel comune, secondo la tesi accusatoria erano cinque: Domenico Creazzo, sindaco – assolto perché il fatto non sussiste; Cosimo Idà, vicesindaco – assolto perché il fatto non sussiste (scambio di persona); Angelo Alati, presidente del consiglio comunale – assolto perché il fatto non sussiste (scambio di persona); Domenico Forgione, consigliere comunale di minoranza – archiviato al termine dell’udienza preliminare (scambio di persona); Domenico Luppino, responsabile dell’ufficio tecnico – assolto perché il fatto non sussiste. Il Tribunale di Palmi ha restituito l’onore al comune inteso come istituzione. Di questo va dato atto e per questo, come comunità, dobbiamo essere contenti e fieri. Il vestito che ci era stato cucito addosso non era della nostra misura. A farne le spese per quasi tre anni, ovviamente, è stata la comunità eufemiese. Che per questo non verrà mai risarcita. Io mi auguro che questo caso eclatante dell’ingiustizia delle misure di prevenzione antimafia possa essere di aiuto per la revisione di una legge, quella sullo scioglimento dei comuni, che è semplicemente barbara e ingiusta. Fino ad ora non ne potevamo nemmeno accennare, perché si sa come funziona in questi casi: non se ne deve parlare, bisogna aspettare che la giustizia faccia il suo corso… insomma, si va avanti per frasi fatte, anche quando, soprattutto in piccoli centri come il nostro, chi ci vive conosce la verità dei fatti al di là di ciò che si legge nelle ordinanze di custodia cautelare, si scrive sui giornali, si pontifica nelle televisioni. Io stesso, nelle interviste rilasciate dopo la mia archiviazione, un anno e mezzo fa avevo dichiarato che il comune era stato sciolto sulla base di tre scambi di persona: quella parte di intervista non è mai andata in onda. Tuttavia comprendo la cautela dei giornalisti. Occorre trovare un modo per fare sentire il grido di dolore di un Sud che ha sì i suoi problemi, ma subisce una criminalizzazione quotidiana e indistinta. Serve una classe politica con le palle, che faccia il bene del proprio territorio, che sappia amarlo e difenderlo, senza retorica e concretamente, pronta a pagare per questo anche un prezzo molto alto.
La Giornata mondiale del malato, giunta alla trentunesima edizione, è tra le iniziative “storiche” dell’Associazione di volontariato cristiano “Agape”. Come ormai da tradizione ogni 11 febbraio, anche quest’anno i volontari si sono recati presso la struttura residenziale per anziani “Mons. Prof. Antonino Messina”, accompagnati dal parroco don Marco Larosa, il quale ha condotto la recita del Santo Rosario e impartito agli ospiti della struttura il sacramento dell’Unzione degli infermi. Tema della trentunesima Giornata del malato è stata “la compassione come esercizio sinodale di guarigione”. Nel suo messaggio Papa Francesco ha sottolineato che «non siamo mai pronti per la malattia. E spesso nemmeno per ammettere l’avanzare dell’età. Temiamo la vulnerabilità e la pervasiva cultura del mercato ci spinge a negarla. Per la fragilità non c’è spazio. E così il male, quando irrompe e ci assale, ci lascia a terra tramortiti. Può accadere, allora, che gli altri ci abbandonino, o che paia a noi di doverli abbandonare, per non sentirci un peso nei loro confronti. Così inizia la solitudine, e ci avvelena il senso amaro di un’ingiustizia per cui sembra chiudersi anche il Cielo. […] Tutti siamo fragili e vulnerabili; tutti abbiamo bisogno di quell’attenzione compassionevole che sa fermarsi, avvicinarsi, curare e sollevare. La condizione degli infermi è quindi un appello che interrompe l’indifferenza e frena il passo di chi avanza come se non avesse sorelle e fratelli». Fermarsi, avvicinarsi, curare e sollevare. Come il Samaritano che raccoglie per strada un uomo mezzo morto e, dopo avergli prestato le prime cure, lo porta in una locanda e lo affida all’albergatore raccomandandogli: «Abbi cura di lui». La presidente dell’Agape, Iole Luppino, ha consegnato il dono dell’associazione alla struttura, un’aureola luminosa per la statua della Madonna di Lourdes, e la “Pergamena di Solidarietà” al Coro parrocchiale “cAntonella gioia”, che ha partecipato all’iniziativa accompagnando con canti religiosi la recita del Rosario. Alle 18:00, presso la chiesa di Sant’Eufemia, don Marco ha infine celebrato la Santa Messa, dedicata dall’Agape ai volontari defunti, nel corso della quale è stata recitata la preghiera predisposta dall’Ufficio Nazionale per la pastorale della salute: «Padre santo, nella nostra fragilità ci fai dono della tua misericordia: perdona i nostri peccati e aumenta la nostra fede. Signore Gesù, che conosci il dolore e la sofferenza: accompagna la nostra esperienza di malattia e aiutaci a servirti in coloro che sono nella prova. Spirito consolatore, che bagni ciò che è arido e sani ciò che sanguina: converti il nostro cuore perché sappiamo riconoscere i tuoi prodigi. Maria, donna del silenzio e della presenza: sostieni le nostre fatiche e donaci di essere testimoni credibili di Cristo Risorto».
Immagine tratta dal sito: www.centrostudibeppefenoglio.it
Come spesso succede in Italia dopo una tragedia, alla diffusione della notizia del terremoto che il 28 dicembre 1908 aveva raso al suolo Reggio e Messina, si mise immediatamente in moto la macchina degli aiuti. Ovunque sorsero comitati di soccorso per la raccolta di beni di prima necessità e, da tutta la Penisola, sui luoghi del disastro accorsero volontari che per giorni interi scavarono anche a mani nude per trarre in salvo chi era rimasto intrappolato sotto le macerie, per estrarre i cadaveri, per puntellare le abitazioni non completamente crollate. Nei comitati massiccia fu la presenza della nobiltà lombarda, piemontese e toscana. Già il 4 gennaio 1909, il “Corriere della Sera” informava che la signora Giulia Baglia-Bambergi, presidentessa dell’Assistenza pubblica milanese, la contessina Giulia Melzi d’Eril e la contessa Emilia Giulini Airoldi, avevano rivolto un appello alle dame milanesi, affinché cooperassero alla preparazione di biancheria e alla confezione di indumenti da recapitare nel centro di raccolta allestito presso l’Istituto pedagogico forense (il riformatorio) di via Bellini a Milano. La contessa Carla Visconti di Modrone (madre del futuro regista Luchino Visconti) aveva invece messo a disposizione villa Librera, nella Bovisa, per l’eventuale ricovero dei feriti. Nelle zone terremotate la situazione era drammatica e la tensione sempre pronta ad esplodere, tanto che gli stessi soccorritori dovettero imporsi con le cattive per ottenere la collaborazione della popolazione, timorosa che la presenza di cadaveri sotto le rovine delle case potesse scatenare un’epidemia. Una corrispondenza da Sant’Eufemia ne dava notizia sul “Corriere della Sera”, il 6 gennaio 1909: «Sono ritornato stamane a Sant’Eufemia. Il disseppellimento dei cadaveri, che è assai faticoso, continua fra l’enorme cumulo di macerie su cui la squadra milanese fa continue disinfezioni. Purtroppo, però, i morti giacciono per ore e ore, perché nessuno vuole prestarsi a trasportarli al cimitero. Non bastano gli incitamenti del Comitato, non l’esempio: bisognerebbe ricorrere alla violenza. Oggi l’ing. Zanetti di Milano dovette puntare la rivoltella su un individuo che si rifiutava di aiutarlo nel trasporto di un cadavere. E l’atto energico ebbe benefici effetti. Ma si può fare sempre così? All’ospedale mancano i mezzi, le materasse e i cuscini, e i poveri feriti sono sul duro suolo. La volenterosa squadra milanese, malgrado i gravi disagi a cui va incontro, lavora indefessamente alle demolizioni, disinfezioni e dissotterramenti. Stanotte i bravi giovani, che sono semplicemente attendati senza paglia e senza coperte per le difficoltà del trasporto, non hanno potuto a lungo stare sul suolo, perché gelava e hanno dovuto passare la notte all’aperto, davanti ad un gran fuoco». Nello stesso articolo, il giornalista evidenziava però anche la grandezza di una nobildonna accorsa in paese insieme ai nipoti, la marchesa Adele Alfieri di Sostegno: «Un’opera che conforta assai ed è da additare a tutte le dame italiane, è quella della marchesa Alfieri di Sostegno, la quale, dalle prime ore del giorno fino ad ora avanzata, è nella tenda di medicazione fra i medici a curare i feriti. Oggi la Regina Madre le ha telegrafato, elogiandola per l’opera sua altamente filantropica e comunicandole l’invio di due suore ai suoi ordini. La marchesa Alfieri ha, dal canto suo, rivolta preghiera alla Principessa Letizia [figlia di Giuseppe Carlo Bonaparte e Maria Clotilde di Savoia, primogenita del primo re d’Italia, Vittorio Emanuele II] perché le mandi una automobile per poter spiegare più facilmente la sua attività». Ma chi era Adele Alfieri di Sostegno? Figlia di Carlo Alfieri di Sostegno e Giuseppina Benso di Cavour, per parte materna era nipote di Gustavo, fratello dello statista Camillo Benso di Cavour; il padre era invece Cesare Alfieri di Sostegno, primo ministro, presidente del Senato del regno di Sardegna e, dopo l’unificazione, senatore del regno d’Italia; nonché cugino di Vittorio Alfieri. Potendo contare sull’eredità di un vasto patrimonio, Adele e la sorella Luisa, moglie del più volte ministro degli esteri marchese Emilio Visconti Venosta, furono molto attive nel campo della beneficienza. Adele istituì in Italia e all’estero scuole materne, scuole elementari, laboratori femminili di cucito e promosse la raccolta di fondi per gli emigrati all’estero. Coltivò inoltre con il grande meridionalista Pasquale Villari un rapporto “profondo e duraturo”, secondo quanto documentato dalla sua biografa Giustina Manica. Alla base del suo impegno in favore delle popolazioni del Mezzogiorno vi fu certamente l’interesse per la “questione meridionale”. In occasione del terremoto del 1905 aveva accolto nell’asilo di Santena (Torino) due orfanelle del catanzarese. Dopo quello del 1908 si recò in Calabria, accompagnata dai nipoti Enrico e Giovannino. Il vescovo di Mileto, Giuseppe Morabito, che secondo la testimonianza del medico eufemiese Bruno Gioffrè fu il primo ad arrivare a Sant’Eufemia («Solo il primo gennaio del 1909, Capodanno tristissimo, si vide la prima faccia umana, e fu il Vescovo della Diocesi, Monsignor Morabito, con un carro di viveri e con parole di soave conforto»), in un telegramma alla sorella Luisa elogiò l’operato dei figli (“impareggiabili, lavorano con generoso ed esemplare slancio”) e sottolineò che Adele era “ammirata da tutti”. Encomio ribadito anche dal colonnello Rostagno, comandante del reggimento dei granatieri di Sardegna: «Ella fu superiore a qualsiasi elogio e parole nostre di riconoscenza non gioverebbero mai a sostituire quelli che mille infermi rivolgono alla Gentile Signora, per l’opera buona umana e generosa da essa prestata». La ricerca storica ha un aspetto etico, che consiste nel fare giustizia dell’oblio immeritato riservato a personaggi eccezionali. L’azione umanitaria in favore della popolazione terremotata assegna alla marchesa Adele Alfieri di Sostegno un posto di rilievo nella storia di Sant’Eufemia d’Aspromonte.
Bibliografia: *Domenico Forgione: Sant’Eufemia nell’età contemporanea. Storia, società, biografie, Il Rifugio Editore, Reggio Calabria 2021. *Giustina Manica, Adele Alfieri di Sostegno: profilo di una nobildonna, in “Rassegna storica toscana”, numero speciale “Elementi di studio dell’identità femminile fra Ottocento e Novecento”, luglio-dicembre 2016 (anno LXII – n. 2), pp. 245-258. Le parole di elogio del vescovo Morabito e del colonnello Rostagno sono a pagina 254. *Bruno Gioffré, Quarant’anni in condotta, Tipografia Ugo Quintily, Roma 1941.
Corriere della Sera, 6 gennaio 1909Monsignor Morabito a Sant’Eufemia d’Aspromonte. Benedizione dei defunti
Il terremoto del 1908 fu il primo avvenimento “mediatico” nella storia italiana. In riva allo Stretto arrivarono gli inviati dei quotidiani più diffusi, con al seguito i fotografi. Le immagini pubblicate sui giornali consentirono alle popolazioni delle province più lontane di “vedere” la devastazione, i morti, i feriti e l’opera dei soccorritori, contribuendo così anche al consolidamento dello spirito nazionale. Nel mio ultimo lavoro sulla storia di Sant’Eufemia ho riportato la relazione dell’ingegnere Antonio Pellegrini sull’attività del comitato lombardo di soccorso, insieme a quelle preparate dalla Croce Rossa Italiana e dalla Croce Verde (Sant’Eufemia d’Aspromonte nell’età contemporanea, Il Rifugio Editore, 2021, pp. 60-66). Il contributo della Croce Verde fu enorme, tanto che alla benemerita associazione il nostro comune aveva dedicato una via del paese, la cui denominazione fu imperdonabilmente cambiata dopo la seconda guerra mondiale. E prima o poi bisognerebbe intervenire sulla censurabile abitudine di cancellare, con un tratto di penna, fatti e personaggi rilevanti nella storia di una comunità: quando basterebbe una targhetta (“già via…”) per salvare la memoria storica del posto in cui si vive. Quando scrissi il libro non possedevo alcuni articoli del “Corriere della Sera” (pubblicati tra il 30 dicembre 1908 e il 13 marzo 1909), nei quali si fa riferimento a Sant’Eufemia d’Aspromonte e all’opera dei soccorritori. Documenti straordinari, che ho potuto visionare grazie alla generosità di Alberto Minissi, volontario e cultore della storia della Croce Verde. Di particolare importanza è il reportage di A. Jannoni, pubblicato il 5 gennaio 1909 con il drammatico titolo “L’agonia dei sepolti vivi a Sant’Eufemia”. Lo riporto integralmente, per il suo alto valore storiografico e umano:
«Mentre nell’accampamento dei soldati del 20° fanteria regna grave il silenzio, un sibilo forte, e poi uno scuotimento come di un treno che passasse vicinissimo, ci sveglia di soprassalto. Tutti siamo in piedi, in preda al panico: la gente raccolta nelle vicine baracche grida terrorizzata. La scossa è stata fortissima: ma la stanchezza è tanta che torniamo a dormire. Per tempo stamane ho ripreso il mio giro, inoltrandomi nella parte più alta del paese: le stesse rovine, le vie scomparse, macerie da per tutto. Solo in via Cremona due case resistono ancora, apparentemente in buono stato; ma all’interno tutto è precipitato: in una di esse abitavano due famiglie di dodici persone ciascuna, e tutti si salvarono da un balcone. In piazza Cavallotti è ancora sulla via la carogna di un mulo, col basto, e un carico di barili di vino sfasciati. Ieri l’altro era stato estratto lì presso il padrone, un contadino sconosciuto. Costui si recava a un paese vicino per vendere del vino; ma giunto colà, sorpreso dal crollo di una casa, restò sepolto. Nella stessa via mi si mostra una casa da cui ieri soltanto fu estratto il cadavere di un certo Tommaso Anastasio, che, sorpreso dal terremoto mentre scendeva le scale, restò con la mano afferrato alla ringhiera. Caduti il giorno dopo, per le successive scosse, un muro e le macerie che ricoprivano il cadavere, questo, irrigidito, restò nella stessa posizione per tre giorni; e tutti si recavano a vederlo. Molti dei sepolti vivi sopravvissero per vari giorni; poi, per mancanza di soccorsi, morirono. Così Giuseppe Passalacqua, ebanista, che rimase sotto le macerie per quattro giorni, con la moglie e quattro figli già cadaveri, fino a venerdì, poté implorare aiuto; ma la sera di quello stesso giorno, per l’enorme cumulo di materiali, morì. Vicino, era Francesco Tripodi con la moglie e sette figli; chiamò aiuto per tre giorni, ma quando s’iniziarono i lavori per il dissotterramento, era già cadavere. Furono salvati tre figli suoi, ma uno è in pericolo di morte. Dalla barella su cui giace, grida agitandosi: «Ecco il terremoto! Salvatevi!». Dalle rovine dell’albergo “Aspromonte” furono estratti in due giorni consecutivi i cadaveri di Antonio Militano, proprietario dell’albergo e quelli del padre suo, della madre, di due zie e di tre figliuoli: mancavano ancora la moglie e un bambino lattante di 9 mesi. Ieri si continuò il lavoro, e si rinvenne alfine il cadavere della povera donna che faceva col suo corpo ponte al figlioletto. Questo era ancor vivo dopo cinque giorni: e fu da alcuni pietosi congiunti raccolto e trasportato a Sinopoli. Dopo quattro giorni sono stati estratti ancora vivi dalle macerie anche certa Maria Cassone con il bambino incolume, che era avvinto al cadavere del padre. Appena estratto, il bimbo cominciò a scherzare. Maria Ascrizzi abitava in via Telesio, in un punto dove si sviluppò l’incendio. Ella udiva le grida strazianti dei feriti e la puzza d’arso, e attendeva la morte rassegnata. Passarono così tre giorni, senza che le venisse dato alcun aiuto; poiché ormai disperava e le sue sofferenze erano enormi, pensò di abbreviarle appiccando il fuoco a poche schegge di legno raccolte con alcuni fiammiferi che aveva in tasca. Stava già per mettere in atto il suo disegno, quando intese dei colpi ripetuti ad un muro vicino. Sperò allora, e gridò: e l’indomani fu salvata. Sta bene relativamente e chiede da mangiare. Due impiegati comunali perdettero la vita in circostanze orribili e quasi identiche. Giuseppe Melardi, segretario-capo, abitava in via Roma. Precipitato nel baratro, gli rimase fuori un braccio, e con voce flebile chiedeva aiuto, mentre agitava nell’aria la mano di tanto in tanto, quasi a mostrare che era ancora vivo. Il fratello Antonio, professore di ginnasio a Monteleone, e che era qui in licenza, uscito sano dalle macerie, accorse subito per tentare il salvataggio; ma l’impresa era impossibile, ed allora egli si diede a confortare il sepolto, standogli vicino. Gli gridava a breve intervallo: «Coraggio! Coraggio!». Fino a che non vide rinserrarsi quella mano per non più riaprirsi. E il povero superstite, senza attendere altro, si allontanò dal paese. Gaetano Zagari era vicesegretario e corrispondente del Giornale d’Italia. Abitava con la vecchia madre, di cui era il sostegno. Travolti tutti e due, la madre si salvò ed è ora impazzita. Il povero giovane restò con ambe le braccia di fuori, e agitò per un paio d’ore le mani per dar segno di vita. Molti tentarono il salvataggio assai difficile: ma quando videro che le mani non si agitarono più, si allontanarono. Allora la povera madre, che sino a quel momento aveva pianto, cessò dal versar lacrime, e accollatasi presso le braccia inerti, si mise a ricoprire di baci. La fine di Rocco Occhiuto è stata anche più straziante. Rimosso il materiale che gli era intorno, uscì fuori con la testa intrisa di fango: e poiché egli era ancora vivo, furono intensificati dai parenti i lavori di dissotterramento. A poco a poco riuscì a metter fuori le spalle, il petto, le braccia: nella caduta egli era rimasto in piedi. Ma ogni sforzo per liberarlo dall’enorme massa di rottami che lo teneva fortemente stretto fu inutile: e il disgraziato, mentre urlava cercando di districarsi, dava intanto precise indicazioni sul posto ove doveva trovarsi un suo figliuolo. Difatti, a pochi metri di distanza, questi veniva salvato e il povero Occhiuto veniva abbandonato al suo destino, dopo aver avuto la cura – per sottrarlo alla furia della pioggia – di innalzare sul suo capo, su due listelle di legno, un riparo di tavole. Egli sopravvisse in simile difficile posizione per oltre due ore dopo lo scavo, ossia fin verso sera… Per i soccorsi ai superstiti provvede qui il Comitato di Milano. Stamane sono qui tornati il maggiore Bassi e l’ing. Stucchi per rifornire l’attendamento».
Sant’Eufemia d’Aspromonte si conferma, ancora una volta, una comunità generosa. Ne abbiamo avuta l’ennesima dimostrazione ieri sera, in occasione della tombolata del “Natale di solidarietà” dell’Agape presso la sala ricevimenti “Il Cagnolino”, che ha registrato un’adesione straordinaria. Circa trecento sono stati infatti i partecipanti alla tradizionale iniziativa di beneficenza con la quale l’Agape raccoglie fondi che poi utilizza per il finanziamento delle proprie attività. Mi ha fatto molto piacere la presenza massiccia dell’associazionismo eufemiese, che per me rappresenta da sempre il fiore all’occhiello del nostro territorio, così come quella delle istituzioni civili e religiose, a partire dal sindaco Pietro Violi e dal parroco don Marco Larosa. Segnale evidente della necessità di fare aggregazione, nonostante questi nostri tempi ci spingano all’isolamento. Sta alle istituzioni e alle associazioni, in sinergia e con spirito propositivo, cogliere e sviluppare occasioni di crescita collettiva. Uno sforzo organizzativo di così vasta portata sarebbe stato insostenibile senza il contributo dei ragazzi del locale liceo scientifico, non nuovi alla partecipazione ad iniziative di solidarietà e che proprio di recente si sono occupati della distribuzione delle stelle di Natale dell’Ail nelle piazze del paese. A loro va il nostro più sentito ringraziamento, accompagnato dall’auspicio che possano abbracciare con sempre maggiore convinzione i valori del volontariato. Un altro doveroso grazie va rivolto ai tanti, cittadini privati e titolari di attività commerciali che hanno generosamente offerto i premi e preparato i dolci. Siamo consapevoli che non ci si salva da soli, occorre fare squadra. Con questo spirito l’Agape, per mano della presidente Iole Luppino, ha omaggiato il Maestro Angela Luppino con la “pergamena della solidarietà” per il Concerto di Natale tenuto dal coro polifonico parrocchiale “Cosma Passalacqua” presso la RSA “Antonino Messina”, in occasione della consegna dei doni di Natale agli ospiti della struttura per anziani. Grazie a tutti.
Il terremoto del 28 dicembre 1908, abbattendosi su abitazioni già colpite dagli eventi sismici del 1894, 1905 e 1907, fu per Sant’Eufemia una tragedia immane. Il numero delle vittime non fu mai accertato con esattezza: per la giunta comunale guidata dal sindaco Pietro Pentimalli furono circa 700, mentre secondo altre fonti potrebbero essere state molte di più, un migliaio o anche oltre. L’elenco stilato dall’arciprete Luigi Bagnato, a sette mesi dall’evento catastrofico, riporta i nominativi di 530 vittime, un dato molto vicino ai 537 riportati da Vincenzo Tripodi nella sua Breve monografia su Sant’Eufemia d’Aspromonte. I feriti furono più di duemila, il patrimonio edilizio perduto pari all’85%. Le abitazioni crollate e quelle demolite in un secondo momento furono complessivamente 1.100, un centinaio quelle parzialmente distrutte. Si salvarono alcune baracche costruite dopo il terremoto del 1894 e qualche costruzione nei pressi della fontana Nucarabella, compreso il macello comunale, che era stato fabbricato nel 1905. Altre case non crollate totalmente si trovavano in via Roma, nel rione Campanella e nel tratto di strada compreso tra piazza del Plebiscito (oggi piazza don Minzoni) e il baraccamento costruito per ospitare gli uffici comunali dopo il 1894, nell’area denominata “Piazzetta”. Nel rione Petto si salvarono soltanto alcune abitazioni ubicate nella zona alta, attorno alla piazza dedicata a Vittorio Emanuele III, mentre le zone più basse del paese (rione Matrice, piazza San Giovanni, ma anche via Pace e via Telesio) furono ridotte a un cumulo di macerie. Nella storia di Sant’Eufemia il terremoto del 1908 rappresenta uno snodo cruciale. Il “prima” racconta di un paese raccolto nei due rioni Paese Vecchio e Petto; il “dopo” è caratterizzato invece dall’espansione edilizia nella vasta area della Pezza Grande, dove vengono trasferiti oltre 2000 cittadini. Il paese com’è oggi, sotto il profilo urbanistico è conseguenza diretta di quella catastrofe. Tra le testimonianze drammatiche del tragico evento, un rilievo particolare va attribuito al racconto del sacerdote Luigi Bagnato, che si trovava nel seminario di Mileto e che immediatamente accorse in paese: «Narrerò i lutti, che grandissimi apportò quella spaventosissima notte, nella quale il grande terremoto riempì tutto di rovine. Io, ora arciprete, ero allora assente, dimorando a Melito quale padre spirituale dei seminaristi, giovani speranze della chiesa. Anche lì abbiamo sentito la terra fortemente scossa, in verità con nessuna perdita di persone, ma solo di edifici. Fuggii atterrito camminando per diverse ore, ahimè! per non vedere più la casa, il fratello, i nipoti, la sorella. Li avevano sepolti le rovine delle case. Ho trovato il padre, vecchio infelice, che piangeva i cari perduti. […] Il 27 dicembre 1908, Domenica, fu una giornata di foschia, cadde una pioggia assidua ed abbondante fino a vespro, cui successe una notte simile. Il cielo offuscato e l’aria pesante. Due ore circa prima dell’alba, e precisamente alle cinque e ventiquattro minuti, la terra prima tremò lievemente, e poi d’improvviso per un minuto intero con un moto veemente sovvertì con ingente fragore le mura ed i tetti delle case. Le grida e i clamori arrivarono alle stelle, mentre nella notte scura, agitata dal vento e dalla pioggia, ciascuno, con voce disperata e piangente, chiamava i suoi. O vera notte di calamità e di sventura, notte lacrimevole, che più presto di un detto così numerose anime, avulse dal corpo, riunì davanti al trono di Dio! Non appena fu giorno, quale miserevole spettacolo! Non più vie, non più case, alte rovine sotterravano ogni cosa, rovine dalle quali uscivano fuori trave rotte, tristi residui di case, con le suppellettili rotte delle stanze. Sant’Eufemia non esiste più, mutata com’è ora in un cimitero. Attraversando le rovine terrificanti per lo squallore, qua e là asperse di sangue, si aggiravano i miseri superstiti che si affrettavano a portare aiuto ai feriti, salvare coloro che si vedevano e le cui voci si sentivano, dissotterrare i sepolti dall’alta congerie per strapparli, se possibile, dalla morte e richiamarli in vita. Crudele spettacolo! Si sviluppò anche un incendio che, col favore del vento e alimentato dalla legna, dal vino, dall’olio, divorò e distrusse due rioni ad oriente dalla piazza, con le macerie e i corpi sepolti, dei quali alcuni ancora vivi. Per due giorni e due notti le alte fiamme, ma il fumo e il fuoco tra le rovine serpeggiò per più di un mese con il terribile puzzo di bruciato. Ciascuno conta i suoi morti: troppe poche famiglie incolumi, e alcune distrutte del tutto. Quanti morti? Le prime voci li portano a mille, a duemila. Circa seicento cadaveri strappati dalle rovine abbiamo trasportato senza alcuna onoranza. Un’ampia fossa fu scavata nel cimitero. Pochi ebbero privata sepoltura. Le chiese crollarono con i loro campanili. Già con ingenti spese, dopo il terremoto del 16 novembre 1894, le avevano restaurate decorosamente: due specialmente, la Chiesa Madre e quella del SS. Rosario; ma questa cadde quasi dalle fondamenta e quella fu tutta sconquassata. Rimase distrutta anche la chiesa delle anime del Purgatorio. Le statue dei Santi, esistenti in tutte le chiese, rimasero mirabilmente incolumi, scampate a qualsiasi danno. […] Per più giorni, anzi per più di un mese, siamo vissuti sotto le tettoie costruite negli orti e sulla pubblica via con legna e tavole estratte da sotto le macerie. Ci siamo tenuti in vita per qualche tempo con la pubblica carità e siamo maggiormente grati alla città di Milano che mandò a noi alcuni suoi egregi concittadini, cibi e casette di legno, o baracche, che furono erette in Pezzagrande per comune designazione». [Luttuosa narrazione del grande terremoto che il 28 dicembre 1908 distrusse tutta questa città, “Libro dei defunti. 1877-1908”, in Archivio parrocchiale Maria SS. delle Grazie]
Da ragazzino mi chiedevo le ragioni dell’esistenza, a Sant’Eufemia d’Aspromonte, di una via dedicata a Milano, che percorrevo quasi quotidianamente per recarmi al campo sportivo, ma anche della chiesa intitolata a Sant’Ambrogio e, addirittura, di un’associazione culturale che portava il nome del patrono della città meneghina. Proprio grazie all’attività culturale della “Sant’Ambrogio”, in particolare gli articoli sulla storia di Sant’Eufemia pubblicati dalla rivista “Incontri”, venni a conoscenza di come la storia del nostro paese sia legata a filo doppio all’umanità dimostrata dal popolo milanese in occasione del terremoto del 28 dicembre del 1908. Una tragedia di dimensioni colossali che provocò circa 700 morti, più di 2000 feriti e la distruzione dell’85% del patrimonio edilizio. Nell’immane tragedia, come spesso accade in Italia, si scatenò una gara di solidarietà senza precedenti. Comitati di soccorso sorsero un po’ in tutta la Penisola e, già il 2 gennaio 1909, giunsero a Sant’Eufemia i volontari del Comitato Lombardo di Soccorso. L’arciprete Luigi Bagnato, autore della “Luttuosa narrazione del grande terremoto che il 28 dicembre 1908 distrusse tutta questa città”, nel descrivere i lutti e la distruzione prodotti dal sisma, consegnò alla storia la riconoscenza degli eufemiesi: «Ci siamo tenuti in vita per qualche tempo con la pubblica carità e siamo maggiormente grati alla città di Milano che mandò a noi alcuni suoi egregi concittadini, cibi e casette di legno, o baracche, che furono erette in Pezzagrande per comune designazione». Nei terreni dell’area denominata “Pezza Grande”, dove già sorgeva il baraccamento edificato in seguito al terremoto del 1894 e dove inizialmente erano state sistemate le tende della Croce Rossa, tra febbraio e aprile del 1909 furono infatti realizzate 54 costruzioni, suddivise in 216 vani e in grado di ospitare oltre 750 persone, ai bordi di tre strade lunghe 140 metri e larghe 10. A marzo fu inaugurato l’ospedale “Milano”, così denominato in segno di gratitudine nei confronti dei soccorritori. Al termine dei lavori, nel nuovissimo rione “Città di Milano” (che contava 759 baracche) si trasferirono oltre 2.000 eufemiesi. Il comitato lombardo di soccorso costruì inoltre l’acquedotto, tre fontane pubbliche, un lavatoio coperto e una piccola chiesa (6 metri per 16), al cui interno fu collocata la statua di Sant’Ambrogio, donata alla comunità eufemiese dall’allora cardinale meneghino, Andrea Carlo Ferrari. Il vincolo di solidarietà e di amicizia che lega Milano e Sant’Eufemia è stato per quasi quattro decenni rinvigorito dall’attività dell’Associazione culturale “Sant’Ambrogio”, promotrice sul finire degli anni Settanta del gemellaggio tra le due città, stipulato formalmente il 7 aprile 1980. Più volte una delegazione dell’Associazione ha partecipato come “ospite d’onore” alle celebrazioni ambrosiane che si tengono a Milano presso la Basilica di Sant’Ambrogio e, nell’edizione del 2001, il presidente Vincenzino Fedele ritirò, a nome dell’associazione, il prestigioso “Ambrogino d’Oro”.
*L’immagine è tratta da Antonio Pellegrini, “La rinascita d’un paese devastato dal terremoto”, ora in Terremoto Calabro-Siculo del 28 dicembre 1908. L’opera della Croce Rossa Italiana e del gruppo indipendente fiorentino, Nuove edizioni Barbaro, Delianuova 2008, p. 228.
*Per una ricostruzione completa delle vicende relative al terremoto del 1908 e alla riedificazione della città, si veda: Domenico Forgione, Sant’Eufemia d’Aspromonte nell’età contemporanea. Storia, società, biografie, Il Rifugio Editore 2021, pp. 55-73.
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