Reddito di cittadinanza, c’è poco da fare ironia

La manifestazione sindacale unitaria di Reggio Calabria mi ha spinto ad una riflessione sulla sinistra di oggi in relazione alla questione del reddito di cittadinanza e, più in generale, sul rapporto tra sinistra e “periferie”.

La coda della manifestazione sindacale unitaria a Reggio Calabria ha presentato lo scambio di battute tra il ministro dello Sviluppo economico Di Maio e il segretario della Cgil Landini sui dati dell’occupazione e sulla “bontà” del reddito di cittadinanza, provvedimento-simbolo dell’esperienza governativa pentastellata.
Non nutro particolare simpatia per il Movimento, rozzo nei modi e incapace nei fatti, oltretutto permeato da quei vizi della “vecchia politica” contro i quali si è scagliato per un decennio: prima di andare a sua volta al governo, si capisce. Nonostante la generosità e, oserei dire, l’idealismo di molti attivisti, la sensazione è di avere a che fare con carrieristi consapevoli di avere vinto un superenalotto che mai più si riproporrà.
Ma il M5S è l’effetto, non la causa, del livello infimo della lotta politica e del desolante quadro culturale in questo che, ahinoi, non è un momento particolarmente favorevole per chi è capace di ragionamenti più complessi di un tweet, è solito approfondire le questioni ed esprimersi con pacatezza, non abbocca alle fake news più improbabili.
Non credo che esista una società civile “buona” e un ceto politico “cattivo”. Il secondo è espressione diretta della prima, la contrapposizione tra due mondi è autoassolutoria, deresponsabilizzante, consolatoria.
Fatta questa premessa, vorrei esprimere il mio disorientamento per le voci che, da sinistra, si sono in questi mesi levate contro il reddito di cittadinanza.
Sono d’accordo quando si sostiene che c’è bisogno di lavoro e non di assistenzialismo. Un grande piano di investimenti pubblici per il Sud, ad esempio.
Tuttavia, ritengo sia un grosso errore politico trattare un problema gravissimo con il sorrisino di chi, come si dice dalle nostre parti, “avi i barchi ’o sciuttu”. È un’offesa al bisogno, sbagliata concettualmente e politicamente. Alla base c’è una mancata percezione del paese reale. D’altronde, se la sinistra perde nelle periferie, ciò accade perché ha abbandonato quei luoghi. La ragione sociale della sinistra deve essere il lavoro, le sue politiche devono investire con forza sul contrasto al disagio socio-economico di una larghissima fetta di popolazione.
Ho suggerito di fare la richiesta per il reddito di cittadinanza ad un mio conoscente che, nonostante si dia da fare in qualsiasi modo, non riesce ad affrontare le spese primarie (bollette, pranzo e cena). La sua domanda è stata accolta e nei suoi occhi ho visto una scintilla di speranza.
La povertà va toccata con mano, non ci si può limitare a qualche ipocrita post di circostanza. In periferia e nelle famiglie con forte disagio socioeconomico si entra se si ha un rapporto e, purtroppo, la sinistra ha sperperato un patrimonio storico, sociale e politico.
Eppure da lì bisogna ricominciare, ricostruendo con pazienza.

*Il Quotidiano del Sud, 25 giugno 2019

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Sabbia: Totò Ligato custode della memoria melicucchese

Nella sua lunga attività di cronista curioso del mondo e dell’infinita varietà umana, Totò Ligato ha regalato ai lettori della “Gazzetta del Sud” ritratti indimenticabili di personaggi di paese, protagonisti di vicende paradigmatiche di un’epoca ricordata con la nostalgia che naturalmente si prova per gli anni che furono. Il periodo storico più setacciato da Ligato, che da qualche anno ci ha lasciato, va dai Quaranta ai Sessanta del Novecento, anni vissuti in un paese piccolo ma vivace come poteva essere in quel tempo Melicuccà, prima che l’emigrazione lo svuotasse della meglio gioventù.
A quelle storie paesane Ligato ha dedicato anche un romanzo breve: Sabbia, uno scritto introvabile che ho avuto la fortuna di recuperare in formato pdf.
Nell’immaginaria ma facilmente identificabile Bagolaro prendono vita i personaggi mitici del ricordo e le care figure dell’infanzia. Come in una pellicola proiettata nel leggendario cinema di don Saro, che per una volta non vede protagonista l’affascinante Amedeo Nazzari, davanti agli occhi del lettore scorrono fatti e volti di un secolo passato in fretta e ormai dimenticato.
La saga familiare si intreccia con gli avvenimenti della storia grande; tutto sembra muoversi con un unico, grande respiro. Tra le pagine di Sabbia fa addirittura capolino il generale Garibaldi, del quale era stato compagno d’arme Gianni, padre di Rosa “a piririca” che – come spesso capitava – aveva dato da sola alla luce Francesco, futuro padre dell’autore del libro. Ancora, le baracche del dopo terremoto e la Grande Guerra, il Ventennio ed il secondo conflitto mondiale, con il ferimento di Francesco in terra libica ed il racconto del suo rocambolesco ritorno in paese, dove sarà assunto come guardia municipale in quanto mutilato di guerra e sposerà la maestra elementare Teresa.
Bagolaro è la metafora di un sud povero ma vitale, che nutre la speranza del proprio riscatto. Quella speranza che oggi sembra latitare, nel clima di generale rassegnazione che attanaglia i piccoli centri aspromontani, condannati al destino di un inesorabile spopolamento. Ligato diventa il testimone di una civiltà scomparsa, quella del sapone fatto in casa e del bucato nel torrente, due operazioni descritte con una maniacale attenzione per i dettagli. Una società dignitosa nelle sue ristrettezze e capace di divertirsi con poco: la musica del grammofono, il cinema di don Saro, la littorina, le trasferte a piedi per disputare una partita di calcio, le esilaranti burle che qua e là puntellano il racconto.
Sarebbe bello se l’amministrazione comunale di Melicuccà, le associazioni culturali e gli amici di Totò Ligato ne onorassero il ricordo e l’opera facendosi promotori della pubblicazione di una selezione dei “ritratti” più significativi apparsi sulle colonne della “Gazzetta del Sud” e della ristampa di Sabbia, l’affresco di una stagione che sopravvive in pagine significative sotto il profilo letterario e storico.

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Elezioni Europee – Sant’Eufemia d’Aspromonte: i risultati delle liste e dei singoli candidati

Votanti: 1211 (32,02%)

Schede bianche 14 (1,15%)
Schede nulle 32 (2,64%)
Voti attribuiti alle liste:
Forza Italia 335 (28,41%)
Lega Salvini Premier 277 (23,49%)
Movimento 5 Stelle 234 (19,84%)
Partito Democratico 168 (14,25%)
Fratelli d’Italia 105 (8,9%)
Partito Comunista 12 (1,01%)
La Sinistra 9 (0,76%)
+ Europa 8 (0,67%)
Federazione dei verdi 7 (0,59%)
Popolo della Famiglia 4 (0,03%)
Partito animalista italiano 2 (0,17%)
Partito Pirata 1 (0,08%)
Destre Unite-Casa Pound Aemn 1 (0,08%)
Popolari per l’Italia 1 (0,08%)
Preferenze assegnate ai candidati dei partiti
che hanno superato lo sbarramento elettorale:
FORZA ITALIA: Lorenzo Cesa (191), Giuseppe
Pedà (51), Alessandra Mussolini (29), Giorgio Magliocca (29), Silvio Berlusconi
(27), Fulvio Martusciello (26), Beatrice De Donato (20), Caligiuri Fulvia
Michela (14), Barbara Matera (1), Aldo Patriciello (1), Antonietta Pecchia (1);
LEGA: Andrea Caroppo (73), Matteo Salvini
(56), Ilaria Antelmi (46), Giancarlo Cerrelli (33), Vincenzo Sofo (28), Massimo
Casanova (11), Francesca Anastasia Porpiglia (8), Aurelio Tommasetti (1);
MOVIMENTO 5 STELLE: Laura Ferrara (148),
Piernicola Pedicini (6), Chiara Maria Gemma (5), Rosa D’Amato (4), Isabella
Adinolfi (2), Mario Furore (2), Vito Avallone (2), Mariano Peluso (1), Enrico Farina
(1), Danilo Della Valle (1), Antimina Di Matteo (1);
PARTITO DEMOCRATICO: Massimo Paolucci
(96), Lucia Anita Nucera (66), Andrea Cozzolino (22), Elena Gentile (17),
Nicola Caputo (13), Francesco Antonio Iacucci 7, Gerarta Ballo (2), Franco
Roberti (1);
FRATELLI D’ITALIA: Denis Domenico Nesci
(33), Caio Giulio Cesare Mussolini (29), Stella Mele (26), Giorgia Meloni (23),
Rosario Achille Aversa (14), Carmela Rescigno (12), Raffaele Fitto (10),
Lucrezia Vinci (5).
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Mariella, la nostra piccola grande artista

Si è svolta stamattina a Palazzo Campanella la premiazione della XIII borsa di studio “Logoteta”, concorso organizzato dall’omonima associazione culturale e riservato agli studenti degli ultimi due anni delle scuole secondarie di II grado della provincia di Reggio Calabria. Due le sezioni del concorso: sezione letteraria (Premio “Giuseppe Logoteta”) e sezione artistica (Premio “Paolo Mallamaci”). I concorrenti hanno dovuto realizzare un’opera letteraria o artistica inerente il tema del concorso, contenuto nelle tracce affidate alle rispettive scuole di appartenenza. Sono stati premiati i primi tre classificati per ogni sezione, mentre altri riconoscimenti sono stati riservati per gli elaborati ritenuti meritevoli. Tra i premiati della sezione artistica c’è stata anche Mariella Gentiluomo, felicissima insieme alla mamma Grazia Cosoleto e ai suoi splendidi compagni di classe, ai quali era stato assegnato il tema: “musica… armonia dell’universo”.
Mariella è una ragazza davvero speciale, che da tantissimi anni fa parte della famiglia allargata dell’Agape. Tra pochi mesi sarà estate, una stagione che attendiamo con ansia noi volontari per primi, per potere godere dell’affetto che questi ragazzi riescono a donarci nelle nostre giornate al mare insieme.
Ed è stata una piacevole sorpresa vedere che nell’opera realizzata da Mariella c’è anche un po’ di Agape: la fotografia che ha voluto inserire nel suo quadro la ritrae infatti abbracciata dalla cantante Alessandra Amoroso e si riferisce alla nostra partecipazione al Giubileo degli ammalati e delle persone disabili, nel giugno del 2016.
Ancora brava a Mariella e complimenti ai docenti ed ai ragazzi del liceo scientifico “E. Fermi”.

*Un ringraziamento particolare alla mamma di Mariella, che mi ha autorizzato a pubblicare le fotografie della premiazione.

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Quale festa

Il primo maggio non è una festa.
Non è la festa di chi deve chinare la testa ed umiliarsi perché in qualche modo ha una famiglia da mantenere.
Non è la festa di chi vede calpestata la propria dignità sull’altare del cinismo: «Se non ti vanno bene queste condizioni, puoi restare a casa. Là fuori ce ne sono migliaia pronti ad accettare ciò che tu rifiuti».
Non è la festa di chi ha dovuto barattare, rinunciare, adattarsi perché “questo è il sistema”.
Non è la festa di chi è sottopagato e dequalificato.
Non è la festa di chi viene sfruttato sedici ore al giorno ed è costretto a vivere in una tendopoli.
Non è la festa di chi ha rinunciato a vivere, divorato dalla depressione nella prigione di casa. Demotivato e spento, in attesa del niente che gli riempia le giornate.
Non è la festa di chi non voleva andare eppure gli è toccato di andare.
Non è la festa di chi voleva andare eppure è dovuto rimanere.
Non è la festa dei genitori che utilizzano pacchi come ponti per accorciare la distanza dai figli.
Non è la festa di chi non poteva rivendicare le più elementari condizioni di sicurezza e sul posto di lavoro ci ha rimesso la vita.
Non è la festa di chi, ricoprendo ruoli di responsabilità, non riesce ad offrire a molti giovani un’alternativa alla delinquenza.
Il primo maggio non è una festa.
Il primo maggio è un monito.

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La matematica non è un’opinione



Nell’edizione odierna Il Quotidiano del Sud ha pubblicato nella rubrica “Lettere e interventi” alcune mie considerazioni relative ad un recente sondaggio sull’operato del presidente della Regione Calabria, Mario Oliverio. Di seguito la mia lettera e la risposta di Annarosa Macrì.

Gentile dott.ssa Macrì, Il Sole 24 Ore ha diffuso i dati di un sondaggio sulla fiducia dei cittadini nei confronti del proprio presidente della Regione. Mario Oliverio ha avuto un gradimento pari al 38,1%, da cui si deduce che il 61,9% ne ha bocciato l’operato.
Sono stato un sostenitore di Oliverio e sarei ingeneroso se non considerassi il disastro che ereditò al momento dell’insediamento. Però non posso negare la grande delusione della sua gestione: nessuno dei problemi strutturali della Calabria è stato, non dico risolto, ma neanche affrontato adeguatamente. Inoltre, qualche scivolone a livello di immagine gli ha parecchio nuociuto: se dici che ti incateni a Roma per protestare contro il commissariamento della sanità, poi devi farlo; se dici che fai lo sciopero della fame contro l’ingiustizia dell’obbligo di dimora, poi devi farlo. Quanto meno per una questione di credibilità personale.
È singolare, ma non sorprende, leggere sui social i commenti al limite dell’entusiasmo dell’inner circle oliveriano. Evidentemente, si tratta di gente che preferisce guardare i 2/5 di bicchiere pieno e ignorare i 3/5 del bicchiere vuoto. Capisco la fedeltà e il senso di appartenenza, ma la freddezza dei numeri non dovrebbe consentire divagazioni sentimentali.
La Calabria è sempre più il paese dei Peppinielli. Certamente ricorderà la scena di “Miseria e nobiltà”, celebre commedia teatrale di Eduardo Scarpetta adattata cinematograficamente da Mario Mattoli con uno strepitoso Totò nei panni del protagonista Felice Sciosciammocca: il maggiordomo don Vincenzo dice a Peppiniello che, per restare nella casa di don Gaetano, deve dire di essere suo figlio. Peppiniello non ha esitazioni: «Don Vince’, basta che mi date da mangiare io vi chiamo pure mamma!».

RISPOSTA
Ho letto anch’io, carissimo. “Miracolo Oliverio”, ha scritto qualcuno, più oliveriano, evidentemente, dello stesso Oliverio, provando contestualmente ad ubriacarsi per la gioia. Invano: il bicchiere è drammaticamente mezzo vuoto. Del 23 per cento di consensi che Oliverio ha perso, strada facendo e governando faticosamente questa, glielo riconosciamo, faticosissima regione. Da dove si continua a partire per lavorare (i giovani), per curarsi (quelli di mezza età), per andare a fare da baby-sitter ai figli dei figli (i vecchi).
E se uno amministra una regione così, e non prova a inventarsi qualcosa, un’idea, un progetto, un’illusione, più che il bravo governatore, può solo aspirare a fare il bravo capostazione. Altro che “miracolo”! a parte il fatto che la parola “miracolo”, così come la sua cuginetta “boom”, mi fa aggricciare la pelle…
Per non parlare dei “peppinielli”, come li chiama lei, signor Forgione… i quali, a dire il vero, tutti i torti non ce l’hanno: il 38 e uno per cento di gradimento, in un sondaggio rilevato peraltro in marzo, quando il Nostro era “al confino” e non erano chiari i contorni di una vicenda giudiziaria che si è rivelata una bolla di sapone, seppure avvelenato, beh, non è poco…
Secondo me, lo stesso Oliverio, detto anche “il lupo”, uno che avrà mille difetti, ma gli altri lupi del branco li conosce benissimo, per non parlare degli agnelli, si sarà sorpreso moltissimo, così tanto da rimanere basito, e non proferire, prudentemente, parola (mi pare che non ci sia nessun suo commento in giro), ma, tra sé e sé, si sarà detto: Sila maiala… il bicchiere è mezzo pieno…
E’ che i “peppinielli” dovrebbero spiegargli (ma lui lo sa benissimo) che quel 38 e uno per cento non è un voto di gradimento a lui, ma di s-gradimento di quelli che potrebbero prendere il suo posto, la Destra, insomma, che sia Forza Italia, o, peggio, la Lega… perché le (cinque) stelle, mi sa, stanno a guardare… chiamasi insomma “sindrome della diligenza”: l’assalto è feroce, serriamo le fila, i vecchi e i nuovi barbari stanno arrivando…
Riuscirà la diligenza a imbarcare – ragiono come la casalinga di Voghera e mi perdoni – l’altro 12 e nove per cento che le serve per superare la Destra? Difficile. Anche perché una bella parte dell’era della giunta oliveriana, la penultima che, insieme allo sprint finale, è tradizionalmente quella pre-elettorale, è stata obbiettivamente azzoppata dalla bolla di sapone avvelenato preparata dai magistrati.
E poi perché non c’è Pagnoncelli o Noto o Ghisleri che tengano: i Calabresi, da che esiste la Regione, hanno sempre votato per l’alternanza, illudendosi che “cambiando il campo”, possano cambiare le cose.
E io dico: a ’sto giro, purtroppo. Anzi, aggiungo: fatemi salire sulla diligenza. Mi basta un predellino, mi accontento di poco, di molto poco.

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Il pane calpestato

Mi ha turbato molto vedere gente inferocita prendere a calci e calpestare il pane. Sono coltellate quelle parole piene di rabbia: «Devono morire di fame!».
Non voglio fare nessun ragionamento che possa apparire di parte, né utilizzare trenta bambini innocenti come scudi umani. Quale parte poi? Quella dell’umanità? Siamo arrivati al punto di dovere giustificare il gesto più nobile che un uomo possa compiere nei confronti di un suo simile?
I calci al pane, il piede che schiaccia la vita e la dignità dell’uomo: su questo bisognerebbe riflettere.
Ho ascoltato storie antiche che si perdono nella notte dei tempi. Quella notte che noi abbiamo voluto buia, per non pensare che accadevano pochi decenni fa; per non ricordare da dove veniamo; per cancellarle dal nostro album di famiglia.
Le storie dei contadini che scalavano a piedi i sentieri dell’Aspromonte con un tozzo di pane in tasca. Le storie di chi pranzava con pane e olive, di chi leccava una sarda e dava un morso a pezzo di pane, di chi ci sfregava sopra un tocco consunto di formaggio. Le storie di chi a 8-10 anni era già un uomo abile al lavoro: e proprio un chilo di pane era la sua paga giornaliera.
Ho visto mia nonna raccogliere il pane caduto a terra e baciarlo. L’ho visto fare a mia mamma. Lo faccio anch’io. Ho visto mia nonna girare dal “lato giusto” il pane poggiato sulla tavola “a faccia in giù”: perché il pane è il volto di Cristo, diceva. L’ho visto fare a mia mamma. Lo faccio pure io. Anche se non sono sicuro che il pane sia il volto e il corpo di Cristo. Ma so che il pane è il volto e il corpo dell’uomo, il suo sudore, la sua fatica, la sua dignità.
Questo mi basta per comprendere il sacrilegio di un gesto così disumano.

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A proposito dell’incontro al municipio sulla vicenda dello svincolo autostradale

Avevo assicurato agli organizzatori dell’incontro “SOS Viabilità Aspromonte” un mio intervento, che effettivamente era in scaletta. Ma l’evento, iniziato alle 17.30, ha registrato tanti interventi (alcuni oggettivamente estenuanti) e alle 20.15 sono dovuto andare via senza potere esporre il mio pensiero. Di questo mi scuso con gli organizzatori, con i rappresentanti istituzionali e con i cittadini intervenuti. Il tema dello svincolo è molto sentito dalla nostra popolazione: grande merito va riconosciuto al “Comitato per lo svincolo” che da anni conduce questa battaglia e ad Ambrogio Pancanno che si è fatto promotore di questo incontro con tre parlamentari del Movimento 5 Stelle: i deputati Giuseppe D’Ippolito ed Elisabetta Barbuto, il senatore Giuseppe Fabio Auddino.
Ho ascoltato con attenzione gli interventi dei rappresentanti del Movimento e quelli successivi, finché sono rimasto nell’aula consiliare. Non ho avuto sensazioni positive, come tanti dei presenti e di coloro che hanno preso la parola. Nel mio piccolo ho sostenuto questa battaglia insieme al consigliere comunale Pasquale Napoli e al responsabile provinciale del PD per le politiche del territorio, Giuseppe Pinto. Abbiamo più volte tentato di accendere i fari su questa annosa vicenda, con lettere indirizzate al Ministero Infrastrutture e Trasporti, al governatore della Regione Calabria Oliverio, al sindaco della Città Metropolitana Falcomatà, al prefetto di Reggio Calabria, ad Anas. Poi siamo usciti dal PD, ma questa è un’altra storia.
Il ripristino dello svincolo era stata una promessa elettorale nelle passate regionali. La legislatura è finita e, credo, anche il tempo delle promesse. D’altronde l’intervento odierno del consigliere regionale Gianni Nucera è stato subito stoppato dalla replica dell’On. Barbuto, che ne ha sostanzialmente smentito la rappresentazione dei fatti.
Noi una risposta l’abbiamo avuta l’anno scorso e quella avrei voluto leggere, per sgombrare il campo dagli equivoci e per puntualizzare alcune questioni centrali, che a mio avviso sono state affrontate con un po’ di vaghezza e di approssimazione. È la risposta di Anas a una delle tante nostre lettere, datata 19 febbraio 2018. In un passaggio si legge: «Nonostante gli approfondimenti di Anas per inserire il nuovo svincolo, includendo anche la possibilità di intervenire sulle gallerie di recente costruzione, la suddetta proposta progettuale non ha ottenuto valutazione positiva da parte del Consiglio superiore dei lavori pubblici e del Ministero Infrastrutture e Trasporti, in considerazione dell’impatto dell’opera sulla sicurezza stradale, visti i molti vincoli che caratterizzano il contesto, nonché della rilevanza funzionale ed economica delle connesse misure mitigative, attesi i costi di demolizione e ricostruzione di opere di nuova realizzazione. Anche per la successiva ipotesi di “svincolo parziale” (contemplate le sole rampe da e per Reggio Calabria), individuata da Anas, onde evitare almeno di intervenire sulle gallerie già realizzate, non si è registrata la valutazione favorevole del MIT, a fronte degli aspetti legati alla sicurezza stradale e alla sostenibilità tecnico-economica dell’intervento. Pertanto, in merito alla richiesta di un nuovo svincolo autostradale per Sant’Eufemia, i pareri formulati dalle autorità preposte, MIT e CSLLPP, non rendono prospettabile l’inserimento di tale nuova opera, ancorché caratterizzata da sole manovre parziali, visti i vincoli oggettivi presenti».
Gli interventi ascoltati oggi sono stati un tiro a segno contro Anas, ma – carte alla mano – la questione appare leggermente diversa.
Avrei voluto chiedere se dall’anno scorso ad oggi sono cambiati i tecnici del MIT e la composizione del CSLLPP. In caso contrario oggi si è fatta soltanto aria fritta: e non è neanche detto che altri tecnici siano così propensi a smentire il parere di altri colleghi e una decisone che, nero su bianco, è nella risposta che Anas ha inviato alla prefettura di Reggio Calabria.
Il deputato D’Ippolito ha avuto l’onestà di ammettere che nel Contratto di Programma 2016-2020 lo svincolo non c’è. Per cui, in ogni caso, se ne potrebbe riparlare soltanto nella successiva programmazione.
Credo sia comprensibile la diffidenza dei cittadini, che condivido. Se ne sono viste talmente tante che ormai risulta difficile credere ad ulteriori promesse. Se poi i parlamentari oggi presenti a Sant’Eufemia saranno in grado di ribaltare la situazione cristallizzata nella lettera di Anas, noi saremo i primi a gioirne e ad applaudire. Ma prima vogliamo vedere i mezzi al lavoro per ripristinare ciò che ci è stato tolto, ingiustamente e con grave danno per la nostra comunità. Le rassicurazioni non bastano più.

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Palazzo Capoferro

La maggior parte della storia di Sant’Eufemia d’Aspromonte è rimasta sepolta sotto le macerie delle scosse telluriche che nel corso dei secoli ne hanno più volte distrutto le abitazioni. In particolare, il terremoto del 1783 e quello del 1908 hanno pressoché cancellato le vestigia del suo passato. Sono ben poche le strutture architettoniche (o parti di esse) del XVIII e XIX secolo giunte ai nostri giorni, anche perché, laddove la natura non aveva completamente raso al suolo, l’uomo ha distrutto quel che era rimasto in piedi.
Palazzo Capoferro è tra i pochi ruderi in qualche modo sopravvissuti. “In qualche modo”, appunto. Un portale bellissimo ma interamente ricoperto dai rovi, che ha richiesto l’intervento della falce per scoprirlo fino al frontone. I muri esterni e le pareti interne rimasti in piedi, anch’essi conquistati dalle erbacce; i pavimenti inesistenti; le scale interne completamente coperte dalla terra; la scalinata esterna che conduceva all’ingresso principale e che in origine era ampia almeno il doppio, diroccata; nelle stanze dalle finestre con le inferriate adibite a deposito, ovunque cocci di giare; quasi inaccessibile il giardino interno.

Non è facile notare il rudere, i cui piani superiori sono crollati. Si trova infatti ubicato più o meno a metà della salita del “Calvario” (via Roma), la strada che collegava (e collega) il “Vecchio Abitato” con il “Petto del Principe”, un pianoro che si estendeva verso l’area, interamente edificata dopo il terremoto del 1908, degli ampi e fecondi terreni agricoli della “Pezzagrande”. Nascosto dalle abitazioni costruite nell’area nel corso del XX secolo, oggi si presenta agli occhi del visitatore all’improvviso: una sorta di apparizione in fondo a uno dei vicoli del “Calvario”.
Palazzo Capoferro è una costruzione ottocentesca situata in una posizione simbolicamente significativa: in alto, rispetto al centro urbano dell’epoca. In alto, da dove le famiglie facoltose (gli gnuri) dominavano sul popolino sovrastandone anche fisicamente i miseri tuguri. Accanto ai Capoferro abitavano i Fimmanò e i De Angelis Grimaldi, poco più distanti i Visalli.
Nel XIX secolo fu la dimora dell’avvocato e ricco proprietario terriero Paolo Capoferro (cl. 1823), che aveva sposato Maria Rosa Fimmanò (cl. 1827), sorella del commendatore Michele (cl. 1830), il deus ex machina della politica locale per sessant’anni a partire dalla seconda metà dell’800. Le famiglie Capoferro-Fimmanò, già protagoniste in epoca pre-liberale (entrambi i cognati, Paolo e Michele, erano stati membri del Decurionato e avevano ricoperto la carica di sindaco sotto i Borboni), continuarono a dominare la scena anche dopo l’unità d’Italia. Paolo Capoferro fu consigliere comunale, assessore, prosindaco e, per due trienni consecutivi (1870-72 e 1873-75), sindaco. Michele Fimmanò, più volte sindaco o prosindaco, fu inoltre consigliere provinciale ininterrottamente dal 1868 al 1913, anno della sua morte.
Palazzo Capoferro fu ereditato da Rosaria (cl. 1863) e portato in dote al medico chirurgo Saverio Greco di Delianuova (cl. 1857), dopo il matrimonio celebrato a Sant’Eufemia il 18 luglio 1889. Quindi passò al figlio Domenico (cl. 1891). E proprio nei pressi del palazzo (conosciuto per tale ragione anche come Palazzo Greco), Domenico, all’epoca podestà di Delianuova, fu assassinato il 12 settembre 1936.
Su un terreno posto più in alto rispetto al palazzo, anch’esso di proprietà dei Capoferro-Greco, sorge infine una costruzione che nella prima metà del Novecento ospitò una scuola elementare. Dotata di cucina, nell’immediato secondo dopoguerra funzionò da mensa non soltanto per gli alunni della scuola, ma anche per i tanti bambini poveri del paese.

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Qualche considerazione a margine dell’inaugurazione dell’aula consiliare

I relatori che ieri sono intervenuti nella cerimonia di inaugurazione della nuova aula consiliare, interessata da un pregevole lavoro di restyiling, hanno giustamente sottolineato l’importanza “storica” dell’evento. Ne convengo e non posso che unire i miei complimenti a quelli espressi nel corso della serata nei confronti di Nicola Dardano, che è riuscito con la sua arte a sintetizzare la storia della nostra comunità e a farla “vivere” nel luogo politicamente più simbolico del perseguimento del bene comune. Ed è stato emozionante ascoltare le parole di Antonio Crea, cittadino eufemiese emigrato da quasi mezzo secolo a Roma, che ha voluto finanziare i lavori per testimoniare l’amore per la propria terra d’origine.
Ho molto apprezzato le parole del moderatore della serata, Cosimo Petrolino, in particolare il passaggio nel quale ha sottolineato l’importanza di “unione”, pur nella diversità di ruoli e responsabilità tra maggioranza e opposizione. Sono d’accordo: su alcune questioni, su alcune tematiche di fondo, sui caratteri e sui valori del nostro essere eufemiesi non possiamo e non dobbiamo dividerci. Storia e memoria collettiva sono un patrimonio che non ha bisogno di essere messo ai voti: siamo la storia che si è sviluppata prima di noi e abbiamo il dovere di difendere e tramandare quella storia alle nuove generazioni.
Ieri non mi sono sentito un consigliere di opposizione, ma un semplice cittadino eufemiese, orgoglioso della storia della propria comunità ed emozionato per il gesto nobile e per le parole d’amore di Antonio Crea.
Lo svolgimento della serata non ha previsto interventi del pubblico. Avrei detto queste poche parole, che ho comunque espresso ai diretti interessati. Ma avrei anche aggiunto una piccola proposta, peraltro non nuova, considerato che per la prima volta la esposi in questo blog il 24 marzo 2014. La proposta è semplice e credo anche di facile realizzazione, considerato che i due riquadri realizzati alle spalle della presidenza del consiglio comunale si prestano perfettamente ad accogliere:
1) la riproduzione dell’epigrafe composta dallo storico Vittorio Visalli in occasione (5 luglio 1914) della posa della prima pietra del vecchio Palazzo municipale nell’attuale sede:
«Fin dagli oscuri tempi feudali/ madre di eletti ingegni e di forti lavoratori/ strenua ribelle contro la borbonica tirannia/ SANT’EUFEMIA D’ASPROMONTE/ sovvertita due volte dai moti convulsi della terra/ due volte risorse/ ed oggi/ per austera volontà di popolo/ per saviezza di amministratori/ per tenacia operosità del sindaco Pietro Pentimalli/ nel porre le fondamenta del suo civico palazzo/ celebra con sereni auspici un’aurora di vita novella/ e guarda fiduciosa a l’avvenire»;
2) la riproduzione della lapide in marmo dedicata al martire della rivoluzione partenopea Carlo Muscari a cent’anni dalla sua morte:
«Tradita la fede dei patti/ da bieca voluttà di tiranni/ CARLO MUSCARI/ milite della Repubblica Partenopea/ moriva strangolato a Napoli/ il 6 marzo 1800/ I cittadini eufemiesi dopo 100 anni/ a ricordo ed esempio».

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