I gattini di Totò e l’Ordine dei giornalisti

Il paragone con il Padreterno, capace in soli sei giorni di “scrivere” il libro dell’Universo e di guadagnarsi, così, ventiquattro ore di meritato riposo, è improponibile e vagamente blasfemo. Però deve esistere un termine ragionevole per il rilascio di un semplice tesserino, pena l’arruolamento automatico per il festival della lentezza.
Sono iscritto all’albo dei giornalisti della regione Calabria dal 4 giugno 2003 (prot. n. 2136 del 25 agosto 2003), ma non ho ancora il tesserino. Ho sempre pensato che per fare valere un diritto acquisito non debbano servire raccomandazioni speciali. A Dio quel che è di Dio, a Cesare quel che è di Cesare, a me quel che è mio. Ritenevo che, nonostante le lungaggini burocratiche nostrane, in un tempo accettabile avrei potuto sventolare l’agognato pezzo di plastica. Inizialmente, ho anche tentato di mettermi in contatto telefonico con gli uffici regionali dell’Ordine. Invano. Ho in seguito scoperto che l’apertura al pubblico è limitata al lunedì, dalle 9.00 alle 11.00. Quando sono finalmente riuscito a parlare con qualcuno, mi è stata data una risposta che – per usare un eufemismo – non è stata il massimo della cortesia. Di perdere una giornata per recarmi di persona a Catanzaro, non mi sembrava il caso. Non era un problema urgentissimo e per un po’ non ci ho proprio pensato. Me ne sono ricordato a giugno 2010, senza alcun motivo, visto che da anni ho deciso di non farmi più sfruttare da alcun giornale come corrispondente locale.
Ora è una questione di principio. Voglio il mio tesserino. Mi sono rivolto al sindacato dei giornalisti di Reggio Calabria, dove mi è stato spiegato che probabilmente la mia pratica è andata dispersa nel passaggio dalla fase gestita dal commissario Antonio Cembran al regime ordinario (come dopo il crollo di una dittatura!), per cui ho rifatto tutto daccapo. Nuova domanda, nuova foto e versamento delle quote annuali non corrisposte. Mi è stato però anche detto che per il tesserino avrei dovuto attendere l’autunno. Si sa, le ferie estive bloccano tutto. Passa luglio, passa agosto e, purtroppo, passano anche i mesi successivi. Nel frattempo, pago la quota per il 2011 e, di tanto in tanto, rinfresco la memoria al sindacato. Il 26 marzo scorso, il segretario del sindacato dei giornalisti, Carlo Parisi, risponde alla mia ennesima lamentela comunicandomi che avrebbe diffidato l’Ordine. Non succede niente lo stesso. Si approssima la seconda estate e comincio a pensare che “se ne parla dopo le ferie”, nonostante l’ottimismo del sindacato. Purtroppo, avevo ragione io. Provo a fare da solo, collegandomi al sito dell’Ordine (www.odgcalabria.it), ma il link “contattaci” non è attivo.
Nel suo irresistibile “latinorum”, il grande Totò sosteneva che gattibus frettolosibus fecit gattini guerces, ma qua si sta decisamente esagerando. Otto anni sono quasi tremila giorni. Per scrivere il Paradiso, una roba più impegnativa della compilazione di un minuscolo rettangolo, Dante impiegò molto meno. E non aveva il computer, né la macchina da scrivere, né uno straccio di biro.

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Che marcia nuziale!

Mio fratello mi aveva anticipato che al suo matrimonio ci sarebbe stata una sorpresa, ma non pensavo che al momento di fare ingresso nella sala invece della marcia nuziale sarebbe partito, a tutto volume, un assolo di chitarra del genere! Ho colto sul viso degli invitati più stagionati un po’ di disorientamento, sui nostri amici molta simpatia per quel personaggio sui generis che Luis è sempre stato…

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Non sono proprio ferie, ma bisogna dire così…

Non vado in ferie. Non ci sono mai andato. Almeno, non secondo i parametri riconosciuti internazionalmente. Per chi vive in Calabria, è abbastanza consueto… In genere, se non si ha la fortuna di possedere una casa al mare (e io appartengo a questa categoria), ci si organizza per delle sfacchinate, andata e ritorno dal mare sotto il sole cocente della Salerno-Reggio Calabria. Oppure ci si dà al piccolo cabotaggio (Tropea, Eolie, ecc.), da realizzare in uno-due giorni di fuoco. Da qualche anno mi sono stancato di questa vita da pendolare, ma qualcosa da fare la si trova sempre. Tra parenti che non rinunciano a qualche settimana (o mese, per i pensionati) nella propria terra di origine, impegni nelle associazioni, incontri più o meno culturali, di intrattenimento o soltanto culinari, incremento delle attività sportive, escursioni in provincia, a caccia del cantante buono “a gratis”, tempo per occuparsi del blog ne rimane poco. Credo pure che, per chi lo fa durante l’anno, ne rimanga poco per leggerlo.
E comunque farà bene anche soltanto staccare la spina, al di là della vacanza che non ci sarà! Il blog dà soddisfazioni, ma richiede anche una dedizione tanto piacevole quanto impegnativa.
Per cui, buone vacanze a tutti. A meno di qualche imprevedibile incursione, speriamo di ritrovarci a settembre con ancora la voglia di dire qualcosa.

Ho preso in prestito l’immagine che vedete dal sito “Alessia scrap & craft…”
http://www.4blog.info/school/2011/nuovo-cartello-per-i-blog-in-ferie/

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Anni come giorni volati via

In una canzone di successo Raf si domandava cosa sarebbe rimasto degli anni ’80, il decennio che ha portato la mia generazione alla soglia della maggiore età e che, come tutto ciò che il trascorrere del tempo rende romantico e “mitico”, appartiene alla sfera dei ricordi più piacevoli.
Innanzitutto gli odori. Quello della casa di mia nonna e delle rose bianche del suo piccolo giardino. A ripensarci adesso, l’orzata che ci preparava era imbevibile. Troppo dolce. Eppure andavamo al fondo del bicchiere d’un fiato, come con la gassosa al limone Marra, di gran lunga superiore alla Romanella. Era quello il rifugio dei nipoti per un break tra un gioco e l’altro: pane con olio e sale, oppure i gelati che eravamo autorizzati a prendere a credenza da Micuzzu ’u Grugnu o da Grazia ’a Rofalazza, tanto poi la nonna saldava tutto. Di nascosto dal nonno, però, che aveva una concezione del denaro molto genovese. La pipa della Gelca gusto vaniglia ci faceva assumere pose da adulti, nonostante i sandali color cuoio con fibbia allacciata sulla caviglia e i pantaloncini extra corti da maratoneta.
A mano a mano, gli spazi da conquistare aumentarono. Il campo da gioco della “tola” – una variante del nascondino – non aveva alcun limite. Anzi, quando il ruolo di cacciatore toccava al meno sveglio del gruppo, alcuni si rifugiavano in una lontanissima sala giochi o se ne andavano addirittura a casa. Con le biciclette si girava il paese, attaccata al manubrio o sotto la sella la targhetta con il numero personalizzato: ne avevamo recuperate a decine quando distrussero – verbo quanto mai calzante – il vecchio palazzo municipale. I più audaci si spingevano fino alla ferrovia e attraversavano il ponte e la galleria, correndo all’impazzata per nascondersi nelle “nicchie” quando la littorina annunciava il suo arrivo. Era la linea (dismessa dal 1997) che da Sinopoli portava a Gioia Tauro, utilizzata dai lavoratori, da coloro che frequentavano le scuole superiori fuori paese e da chi si concedeva un colpo di vita al cinema “Sciarrone” di Palmi.
Lo sport più praticato era il calcio. In qualsiasi posto. Per strada, in pineta, al municipio, ma soprattutto in piazza, dove con Micuzzu du’ café e suo fratello si combatteva una quotidiana guerra di logoramento: noi compravamo i palloni, loro li sequestravano. Anche se potevamo contare sulla quinta colonna dei loro nipoti che spesso e volentieri riuscivano a recupere quanto ci veniva sottratto. Quando non ci era consentito utilizzare un pallone “normale” – raramente il tango, in effetti troppo pesante per giocarci in piazza: solitamente il super santos, che era migliore del super tele – ci si arrangiava con quello di spugna. Nei momenti di maggiore tensione e di divieto assoluto, andava bene anche la pallina da tennis di spugna o – incredibile, ma vero! – la lattina di una bibita schiacciata.
Il mito era Shingo Tamai, l’antenato di Oliver Hutton capace di tiri impossibili, con il pallone che si deformava per la potenza del calcio e si impennava altissimo, prima di ricadere in terra e schizzare verso la porta, imparabile, dopo un lungo vorticare. I cartoni animati erano una costante dei nostri pomeriggi: il pugile Rocky Joe; le lotte titaniche dei robot dotati di armi potentissime (l’alabarda spaziale di Goldrake, i raggi fotonici di Mazinga Z e quello protonico di Jeeg Robot d’acciaio); il fascino della cicatrice sullo zigomo di Capitan Harlock; le peripezie dello sfortunatissimo Remì; Dick Dastardly e il suo assistente sghignazzante, il cane Muttley, alle prese ora con la cattura del piccione viaggiatore, ora con le “corse pazze” contro il Diabolico Coupé, Penelope Pitstop, l’Insetto Scoppiettante e tanti altri.
Sul finire del decennio, inaspettatamente, arrivò a casa mia il motorino, un Califfo dotato di pedali che in salita non ne voleva proprio sapere di andare. Un’esperienza brevissima, conclusasi senza alcun rimpianto. Anni dopo ne ho rivisto uno simile in una televendita: lo davano in omaggio, insieme ad altri articoli, a chi acquistava una batteria di pentole e un servizio completo da tavola.

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Guido, il suonatore Jones e la lumaca di Trilussa

Si è portati a credere che tutto il bagaglio di conoscenza e di esperienza accumulato negli anni servirà, prima o poi, a qualcosa. Come se, a un certo punto, ci si fermasse e si aprisse lo scrigno dei talenti. Ed è probabilmente così, anche quando si finisce con il fare cose lontanissime dai sogni e dalle aspettative personali. Una maturità affascinante, ma terribile nello stesso tempo. Occorre anzitutto fare i conti con la realtà, con i bisogni materiali che l’irresponsabilità dei venti anni non fa avvertire pienamente.
Ci sono affetti che invecchiano e volti che sfumano, come i titoli di coda di un film che non si rivedrà mai più. Persone che spariscono dal nostro orizzonte quotidiano, con le quali occorre risintonizzare la frequenza perché un rapporto può mutare. Non necessariamente in peggio o in meglio. Si è semplicemente diversi, perché – ha detto qualcuno – soltanto gli stupidi non cambiano mai.
Certo, tutto dipende dal punto in cui si posiziona la macchina da presa. Se uno pensa che avrebbe potuto salutare tutti a 26 anni, ogni calendario nuovo attaccato al muro rappresenta un bottino mica male, un bonus di 365 giorni da sfruttare fino all’ultimo secondo. Meglio che comprare una vocale al gioco La ruota della fortuna.
C’è molto di casuale, in origine. Dopo però subentra la volontà dell’uomo. Niente accade per caso o perché così è stato scritto da un’ignota mano in qualche libro imperscrutabile. Non c’è un fabbro che fa il lavoro per gli altri, siamo noi gli artigiani del nostro destino. Per cui, si capita in un posto, piuttosto che in un altro, e si fa il proprio tragitto, lungo o breve che sia. In realtà brevissimo rispetto alla storia dell’Universo. Né più, né meno di ciò che è già successo a miliardi di esseri umani e che capiterà ad altrettanti.
La lumachella della vanagloria resa immortale dai versi di Trilussa, guardando la bava che lasciava dietro di sé, si era convinta che avrebbe lasciato “un’impronta nella storia”. Ma non tutti sono così presuntuosi. Per lo più, ci si accontenta di essere un passante tra i tanti. Come nei fotogrammi accelerati di certe scene caratterizzate da una folla indistinta che va avanti e indietro senza un apparente scopo. È una possibilità da mettere in conto.
Soltanto il suonatore Jones è morto senza avere “nemmeno un rimpianto”. C’è chi ne ha tanti, chi uno soltanto grandissimo e inconfessabile. Chi ha subito ingiustizie e chi ne ha commesse. Chi, quando sbaglia, paga senza elemosinare lo sconto. Chi non è un santo, né aspira alla santità. Gli basta stare a posto con la sua coscienza. Impresa a volte non semplicissima.
In una delle scene più celebri di quel capolavoro assoluto del cinema che è l’autobiografico Otto e ½, l’intellettuale in crisi Guido, interpretato da Marcello Mastroianni, straordinario alter ego del regista Federico Fellini, riceve in risposta dal cardinale al quale aveva confidato la sua inquietudine esistenziale (“Eminenza, io non sono felice”) due interrogativi agghiaccianti: “Perché dovrebbe essere felice? Chi le ha detto che si viene al mondo per essere felici?”. Già. Ineccepibile.
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Oh, l’amour

In un anno e passa ho utilizzato rarissimamente il blog per parlare delle mie vicende personali. Non posso però fare a meno di condividere la novità che ha rivoluzionato la mia vita nell’ultimo mese. Ebbene sì, anche per me è giunto il momento di chiudere con la vita da single incallito. C’è una lei nel mio cuore e l’ha già occupato quasi completamente. In realtà, c’è sempre stata. Ci eravamo conosciuti molti anni fa, poi si sa come va a volte la vita. Fa dei giri impensabili… E poi ritorna. Forse doveva andare così. Forse era necessario un distacco così lungo. Capita spesso di apprezzare qualcosa soltanto dopo averla perduta.
È successo tutto come in un film. L’incontro, la passione travolgente, i primi dissapori e l’allontanamento in quell’età in cui non si è disposti a rinunciare a niente di sé. Ero troppo preso dai miei studi e da una vita che mi aveva portato altrove.
Ora, di nuovo il colpo di fulmine. Due miti sfatati in un sol colpo. Il colpo di fulmine esiste. Non solo, a volte concede anche il bis. Magnifico.
Sto attraversando la fase dello zerbino. La mia volontà è a livelli decimali, ne risente anche la mia produttività. Come ha osservato Francesco Alberoni in Innamoramento e amore, “il nostro amore non è nelle nostre mani, ci trascende, ci trascina e ci costringe a mutare”. Ho in mente un articolo? Spunta lei e mollo tutto. Si esce, a fare altro, in queste splendide giornate di sole. Pomeriggi in giro per i posti più belli della nostra terra. Io, lei e la natura.
Difficile prevedere quanto durerà. Forse non è nemmeno importante. Quando ci si ritrova dopo tanto tempo, c’è sempre la fretta di riguadagnare il tempo perduto e scacciare il rimpianto per essersi lasciata sfuggire la vita tra le dita. Altrimenti si finisce con il crogiolarsi nella nostalgia, pensando “a tutti i giorni che abbiamo sprecati, a tutti gli attimi lasciati andare” (Canzone per Piero, Francesco Guccini). Vivo momento dopo momento. Emozione dopo emozione. Vaticinare il futuro è una pratica che non mi affascina. Ora stiamo di nuovo benissimo insieme. Come se non ci fossimo mai lasciati.
Non so se, come Bartali nell’omonima canzone di Paolo Conte, ho il naso triste come una salita e gli occhi allegri da italiano in gita. Lungo la nostra strada non incontriamo francesi che s’incazzano e nemmeno giornali che svolazzano. Però la mia bicicletta da corsa è bellissima. 
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Esami di maturità, un ricordo

Ho sempre considerato a dir poco bizzarri i “quattro ragazzi con la chitarra e un pianoforte sulla spalla” cantati da Antonello Venditti. Eppure anch’io, come milioni di ragazzi prima e dopo di me, ho ascoltato fino alla nausea “notte prima degli esami” in quel lontano giugno del 1992, riavvolgendo il nastro della musicassetta e facendolo ripartire un’infinità di volte. Specialmente la notte in cui, diversamente dal principe di Condè la vigilia della battaglia di Rocroi, non riuscii a dormire “profondamente”.

Al solito, le ipotesi sulla traccia del tema d’italiano si sprecavano. Ma anche le cartucciere e la fantasia di chi le congegnava. I pochissimi che ci presentammo senza neanche un temario fummo quasi irrisi. Eravamo sicuri che, nella peggiore delle ipotesi, saremmo stati in grado di affrontare la traccia di attualità. E infatti andò così. La tensione, altissima, era per il primo vero esame della vita, non per le prove in sé.
In Italia e nel mondo stava succedendo di tutto e cominciavamo a guardarci attorno con occhi attenti. Dopo la caduta del muro di Berlino, i paesi del blocco sovietico si affacciavano uno dopo l’altro alla democrazia. Da poco più di un anno era finita la prima guerra del Golfo, contro la quale avevamo organizzato una manifestazione terminata in piazza Matteotti con la lettura al megafono di un appello (addirittura) preparato da me, Nino e Luigi. A maggio la strage di Capaci s’era portato via Falcone. A esami in corso la notizia del tritolo in via D’Amelio contro Borsellino colse in spiaggia quelli che avevamo già sostenuto l’orale, portata da una ragazza che non la smetteva più di piangere. Increduli e sgomenti ci chiedevamo: “e ora che succederà?”. Cossiga picconava il sistema politico italiano ormai prossimo all’implosione, Craxi e Andreotti pensavano di essere ancora i burattinai del potere, ma i tempi stavano davvero per cambiare.
Qualche mese prima avevamo fatto il nostro primo viaggio all’estero, destinazione Barcellona. La colonna sonora la portarono i ragazzi di Bagnara: un tributo a Freddie Mercury, morto nel novembre precedente, integrato dai Litfiba allora all’apice del successo. Anche se mio fratello ci aveva stregato con la novità del momento, Edoardo Bennato nelle vesti di Joe Sarnataro (“È asciuto pazzo ’o padrone”). Portavamo a spasso le nostre acconciature improbabili (io il ciuffo alla Nicola Berti, il mio idolo calcistico), camicie orribili e jeans accorciati selvaggiamente a dieci centimetri dalle scarpe. Per la prima volta diventammo conquistatori “in trasferta”, qualche bacio carpito sulle scale dell’albergo e storie che proseguirono nel corso della prima estate da patentati, con la possibilità – quindi – di andare al mare autonomamente, a bordo della mitica 126 blu mediterraneo di Luigi. Ben presto l’esame di maturità diventò un ricordo, come l’incubo per la prova di matematica che non riuscimmo a completare e che Luis risolse alla sua maniera con un’esibizione straordinaria davanti alla cattedra, su una gamba stile Jim Morrison nella danza dello sciamano, conclusa con l’esclamazione: “ecco il punto di equilibrio richiesto dalla traccia!”.

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La lezione dei bambini/bis

Nella rubrica che cura su “Il Quotidiano della Calabria”, il professore Pietro De Luca ha così risposto, ieri, al mio intervento – inviato al giornale in una versione leggermente ridotta rispetto all’articolo pubblicato sul blog – sull’episodio di discriminazione accaduto in una scuola media di Catanzaro:

Caro Forgione, siamo qui a raccogliere i cocci di quel vaso che si è rotto quando il governo fece il suo bilancio e tagliò i fondi all’istruzione. Capimmo subito che a farne le spese sarebbe stata la riduzione degli insegnanti di sostegno. Lo scrivemmo più di una volta.
Potrà dirmi, caro Forgione, che la realtà del nostro caso è più complessa. Di sicuro lo è, ma l’insegnante di sostegno, prima ancora di essere una scelta economica, è una scelta di civiltà. Se è lì presente e tutti possono vedere che uno (il ragazzo destinatario) vale quanto l’intera classe per la cura che gli è prestata, allora si comprende in maniera concreta il valore della persona nella sua singolarità. La reazione della classe (neanche noi parteciperemo d’oggi in avanti a qualsivoglia iniziativa, se il nostro compagno non può uscire dall’aula) costituisce la prova provata che quei ragazzi hanno capito tutto, soprattutto il valore della personalità del loro amico. Un giorno gli avevano scritto: “Tu sei la nostra forza”, forse per dire finanche “tu sei il nostro maestro, colui che ci insegna e ci dispiega un mondo altrimenti sconosciuto”. Nel coro solidale si può leggere ancora: “se a te viene negato un diritto, anche noi ne facciamo a meno perché il titolo per riscuoterlo non può essere costituito da una semplice sperimentata abilità, a questa ha già provveduto madre natura, manca sempre quello della cittadinanza”. Bravissimi quei ragazzi, cittadini controcorrente di questa Italia individualista e sorda al disagio altrui. Mi domando perché, invece di dare la stura a vecchi e stereotipati luoghi comuni, non si espliciti chiaramente il disagio nel quale è piombata la scuola da quando è caduta sotto la mannaia Gelmini-Tremonti. Questo andrebbe detto, così semplicemente, perché tutti lo sappiano.
Caro Forgione, lei ha il vantaggio di parlare da dentro quel mondo della disabilità al quale offre la sua vicinanza e ne viene ripagato con un surplus di maturità riscontrabile. Per tale motivo sa bene che il buon cuore degli operatori non ha prezzo e quando manca nulla lo rimpiazza. Ci vuole anche dell’altro, però: mezzi, strumenti, strutture. Perché non si apre allora al volontariato per certi ammanchi di personale nelle strutture pubbliche? Che resta da pensare, che si vuole persino mortificare chi si trova in una necessità? Ma questo sarebbe solo mostruoso. Non vorrei neanche pensarlo per un minuto in più. Preferisco occupare la mia mente con la grande lezione della solidarietà di quella classe.

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La lezione dei bambini

Ho avvertito un senso di vuoto e molta amarezza nell’apprendere la notizia di quella dirigente scolastica di un Istituto comprensivo di Catanzaro che voleva impedire ad un ragazzino affetto dalla sindrome di Down di prendere parte alle uscite della sua classe. La storia è ormai nota. Durante una giornata di orientamento presso l’Istituto alberghiero di Soverato, dopo che la preside aveva tentato di tenere a casa l’alunno disabile perché quel giorno non c’era l’insegnante di sostegno (l’accompagnatore è obbligatorio fuori dall’edificio scolastico), questi rompe un bicchiere e si dimostra alquanto vivace. Per tale motivo, la preside comunica ai docenti l’intenzione di vietare in futuro al ragazzino la partecipazione alle gite, e lo stesso fa con gli alunni della classe, giustificando il provvedimento con la motivazione che “tanto, lui non capisce niente”. I compagni però si oppongono: “senza di lui, non andiamo neanche noi”, dando una lezione agli adulti e sconfiggendo il luogo comune suoi giovani di oggi senza valori, attratti soltanto dai vestiti firmati e dai telefonini di ultima generazione, dall’effimero e dal vacuo. Finiscono così sulle prime pagine di tutti i giornali perché, come ha fatto notare Isabella Bossi Fedrigotti sul Corriere della Sera, si sono dimostrati “più generosi, più civili, più veri uomini e vere donne” della preside.
Non bisogna ovviamente generalizzare. Ci sono tantissimi insegnanti che risolvono con il buon senso questo genere di problemi. Sono quelli che hanno come obiettivo non tanto il magro stipendio di fine mese, quanto il perseguimento della funzione educativa della scuola. Se non c’è l’insegnante di sostegno (eventualità non peregrina, dopo i tagli della Gelmini), assumono essi la responsabilità di portare in gita gli alunni disabili. Perché, quand’anche il disabile non dovesse capire niente, va ricordato che tra i compiti della scuola vi è anche quello di sviluppare le capacità dei ragazzi di socializzare e relazionarsi con gli altri.
Ho la fortuna di avere un minimo di familiarità con la disabilità. Ribadisco “fortuna”: chi fa volontariato mi comprenderà. Ma prima ancora, ho avuto la fortuna di avere amici che hanno iniziato prima di me, ai quali sarò riconoscente per tutta la vita, perché è grazie a loro che ho potuto conoscere una realtà che mi riempie il cuore e che mi ha consentito di essere ciò che oggi sono, un uomo certamente migliore del ragazzo che fui. Ho pianto pochissime volte nella mia vita. Due sono legate all’emozione delle esperienze che ho avuto modo di vivere grazie all’Agape, l’associazione della quale faccio parte da undici anni. La prima, un musical preparato dall’associazione, “La bella e la bestia”, con “la bella” interpretata da una ragazza down. La seconda, un pranzo consumato nel giorno di Natale presso una casa di cura per anziani. E poi tante altre emozioni, occasioni come la convivenza, giorno e notte, con soggetti disabili durante le colonie estive, che fanno capire cosa conti davvero nella vita, al di là delle maledette urgenze dettate dalla quotidianità. La mascotte della nostra associazione è un’altra ragazza down, che abbiamo visto crescere sin da quando era una bimba e che ora è maggiorenne. Anche lei ogni tanto è molto vivace. A volte ci prende a schiaffi, o si siede per terra perché non vuole più camminare e allora diventa dura, dato che pesa cento chili. Però ci recita la filastrocca dell’ “echifante” (l’elefante), ci fa le coccole e ci dà tanti baci. Ecchissenefrega degli schiaffi: se ne subiscono ben altri nella vita e quelli fanno male per davvero.

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