Saluti da Londra/ bis

Anche l’ammiraglio Nelson ci teneva a salutare. A proposito, dice Mario che un suo amico, arrivato a Trafalgar Square abbia esclamato: “ma quello e’ Napoleone?”

Da Piccadilly Circus, invece, il saluto di Cupido. Domanda: secondo voi, il buontempone che ha “lasciato” una mano dentro le mutande del dio dell’amore e’ londinese?!

Oscar Wilde ci ricorda che “siamo tutti nel fango, ma alcuni di noi stanno guardando le stelle”.

“Mentre attraversavo London Bridge”, non ho potuto fare a meno di canticchiare “Geordie”.

Ancora: Tower Bridge…

… e London Tower.

Possibile che ci sia tutto questo vento?!

Ma no, va tutto bene. Garantisce Mr “cool” Britannia!

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Saluti da Londra

Pronto? Mi sentite? La “perfida Albione” non e’ come dicono. Per esempio, non e’ vero che a Londra piove sempre. E’ un luogo comune messo in giro dai francesi…

… pero’ e’ vero che mangiano da cani! Il cornetto farcito con il salame piccante non l’avevo mai visto…

… e neanche la seppia fluorescente! Dall’espressione perplessa di mio fratello Mario riflessa sul vetro, suppongo si tratti di una novita’ della cucina cinese a Soho.

Il Big Ben non ha detto stop…

… purtroppo, neanche i cannoni, come si evince dal presidio pacifista davanti alla House of Commons.

Se ti scappa e ti trovi da “Costa”, serve lo scontrino della consumazione, su cui si trova stampato il codice da digitare per aprire la porta della toilette. Se non paghi, te la puoi fare addosso…

… anche se ti chiami Elisabetta!!

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La notte più bella della mia vita

La notte più bella della mia vita era dicembre, ma non era ancora Natale. L’aria era gelida, la sentivo sul naso e sulle orecchie mentre aspettavo di potere andare da Lei. Un lettino da dividere in due, in una stanza che da letto non era.
La colonna sonora del nostro incontro la intonò Patti Smith: Because the night, la sigla di Fuori orario che ci sorprese sotto le lenzuola. L’ascoltammo fino all’ultima parola, perché “l’amore è un banchetto sul quale ci sfamiamo” e perché “la notte appartiene agli amanti”.
Ci sussurrammo le nostre vite passate, quasi volessimo azzerare la storia e fare ripartire il cronometro da noi, con il racconto del tempo che non avevamo vissuto insieme.
Ci separammo all’alba. Percorsi a piedi la strada deserta del ritorno, in un’aria di vetro. Ero il re del mondo e, mentre una luna pallida e infreddolita mi scrutava, camminavo in pace, sotto le ultime stelle mute. Non avevo bisogno di niente.
La notte più bella della mia vita è stata un battito d’ali.

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Frank il mongolo

A prima vista poteva sembrare un incrocio tra una maschera dei film di Carlo Verdone e Nichi Nardozza, l’eccessivo ed eccentrico personaggio di Volare basso, romanzo di successo scritto da Gaetano Cappelli. Anche se di Nardozza non aveva la propensione a raccontare balle colossali. La similitudine riguarda l’aspetto esteriore, l’abbigliamento e lo stile di vita un po’ naif che lo rendevano, agli occhi di una piccola comunità come quella eufemiese, personaggio singolare e stravagante.
Cuoco sulle navi da crociera. Era stata questa la sua professione, negli anni Sessanta e Settanta. Un giramondo sciupafemmine e single impenitente. Francesco Gioffrè, detto “Frank il mongolo” per quei baffi (e il pizzetto) alla Gengis Khan, era un personaggio da film. Romanzesco e simpaticissimo. Il sorriso sempre stampato sul viso, tranne quando perdeva a biliardo. A boccette, per l’esattezza, ché con la stecca si è sempre rifiutato di giocare. Superstizioso, portava attaccato al collo un corno di corallo rosso infuocato e, per sconfiggere il malocchio di chi assisteva alla partita, bocciava tenendo la pallina incastrata tra indice e mignolo. Indossava camicie incredibili sotto il gilet da cow-boy di vacchetta e stivaletti da rock star. Stretto tra i denti, spesso, un sigaro dalle dimensioni spropositate. Al polso, bracciali delle più svariate fogge. Milanista sfegatato, entrava al bar cantando una personalissima rivisitazione – non so quanto consapevole – del coro più celebre del Napoli alla fine degli anni Ottanta: Oh mamma, sai perché mi batte il corazón? Oh Cristo (invece di: ho visto), Maradona!
Ogni tanto dalla sala biliardi giungeva al bancone del bar un urlo: “un baaaby!” (mezzo whiskey), cui seguiva un bestemmione irripetibile. Fuori, parcheggiata, la macchina dei nostri sogni di ragazzini: un’Alfa Triumph Spitfire IV diventata rossonera dopo un restyling realizzato con il pennello, il cui interno era tutto un programma. Coprisedili con pelliccia, clacson a trombetta, un corno enorme, due cuscini del Milan e musicassette di Elvis Presley e Julio Iglesias sparse ovunque.
Quando l’ho conosciuto, da tempo non lavorava più sulle navi. Ritornato in paese, aveva aperto un genere alimentari che durò pochissimo. Costretto a chiudere prima di rovinarsi completamente, dato che offriva pezzetti di formaggi e salumi a chiunque entrasse e si faceva pagare la spesa una volta sì e una no, mentre per i ragazzini delle scuole il più delle volte il panino imbottito era “omaggio della ditta”. Tornò quindi alla sua vecchia professione di cuoco, questa volta sulla terraferma, negli alberghi, da dove periodicamente tornava, sempre atteso dai frequentatori della sala biliardi e soprattutto da mio fratello Luis, dodicenne o giù di lì, al quale aveva regalato un braccialetto di occhio di bue e promesso, con largo anticipo, che avrebbe fatto da compare d’anello al matrimonio.
L’ha tradito il cuore a 55 anni, una notte di aprile del 1992, in una stanza d’albergo a Soverato, dove alloggiava e lavorava. Non fui presente al suo funerale e la cosa mi dispiacque molto. Nutro un affetto particolare per tutte le persone che, dal 1982 in poi, sono transitate dal “bar Mario”, una delle mie palestre di vita, insieme alla strada e alla scuola. Quando passo per salutarlo, guardando quella camicia insolita per una foto sulla lapide, il sorriso è inevitabile. Come tanti anni fa. Ciao, Frank.

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Con le buone maniere si ottiene tutto

Nuntio vobis gaudium magnum: habemus tesseram! Ebbene sì, ce l’ho fatta. L’Ordine dei giornalisti ha finalmente partorito il mio tesserino. Un travaglio lunghissimo, ma il bimbo sta bene. Me lo sto coccolando quasi sbalordito. Quando ieri ho telefonato al sindacato dei giornalisti della Calabria per avere aggiornamenti sulla situazione, quasi non credevo alle mie orecchie. Il piccolo era là, nel cassetto di Carlo Parisi e attendeva soltanto che uno della famiglia andasse a ritirarlo.
Il segretario del sindacato, tra il serio e il divertito, mi ha però rimproverato. Oggi è anche apparsa su CALABRIA ORA una sua replica al mio intervento di inizio settembre, che riproponeva l’articolo di denuncia postato sul blog il 31 agosto. Da quel che ho compreso, Parisi è rimasto infastidito da alcune telefonate scherzose (“ma glielo volete dare questo tesserino?”) e perché l’unico nome presente nel pezzo, a parte quello del commissario Cembran, era il suo. In realtà, il mio articolo non era “contro” di lui, né “contro” il sindacato, che anzi mi è stato di grande aiuto, sia nel dipanare una questione parecchio ingarbugliata, sia nel pungolare l’Ordine per il rilascio del tesserino. Probabilmente, il titolo scelto dal giornale (“L’Ordine dei giornalisti mi snobba da otto anni”) non sintetizzava al meglio il contenuto della mia lamentela. Ma come ben sa Parisi, i titoli non li scrivono gli autori degli articoli.
Riguardo alla precisazione di oggi (“Snobbato dall’Ordine? No, ed ecco il perché”), devo segnalare una piccola inesattezza, che però è sostanziale. Nel 2003, la tessera l’avevo richiesta. Lo so benissimo che esiste una procedura a parte rispetto a quella di iscrizione all’Albo. Non “me ne sono dimenticato”, come egli ipotizza con un pizzico di ironia. Né penso di avere trasgredito la saggia norma di raccontare “i fatti senza omissioni di sorta”. Tant’è vero che avevo ammesso di non avere seguito la pratica per anni, dopo la richiesta, e di avere dovuto saldare diverse quote annuali.
L’incidente è comunque chiuso, con reciproca soddisfazione. Abbiamo anzi scherzato su questa querelle. Una considerazione però va fatta. Neanche il tempo di leggere sul giornale la mia lettera e ho avuto il tesserino. Davvero una singolare coincidenza.

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11.9, scacco agli Stati Uniti

“Fuori sta succedendo la fine del mondo e tu sei chiuso dentro un archivio? Sei il solito topo da biblioteca!”. Le parole di mio fratello Mario, quando da poco anche la seconda delle Torri gemelle era stata centrata da un aereo, sono il mio primo ricordo dell’11 settembre 2001, il giorno che segna l’inizio del terzo millennio. Mi telefonava dall’Australia, dove si trovava in quel periodo. Io invece ero ignaro di tutto, piegato su alcuni documenti che stavo consultando all’archivio di Stato di Catanzaro, per la tesi di dottorato.
Ho ancora ben viva la sensazione di sconcerto e di smarrimento che mi assalì mentre attonito percorrevo in auto la strada del rientro a casa e ascoltavo gli aggiornamenti della lunga no-stop radiofonica. Proprio due giorni prima ero rimasto molto scosso per l’uccisione, ad opera di due kamikaze travestiti da giornalisti, di Ahmad Shah Massud, il leggendario “leone del Panshir” – eroe della resistenza afgana contro l’invasore sovietico negli anni ’80, poi ministro del governo di liberazione, quindi strenuo oppositore della deriva fondamentalista impressa dai talebani – che la penna di Ettore Mo aveva reso affascinante e romantico, un moderno Che Guevara.
Una volta acceso il televisore vidi anch’io l’orrore materializzarsi nelle immagini ben note dell’apocalisse. Le Twin Towers colpite dai due aerei dirottati che si afflosciavano una dopo l’altra, come in un macabro videogioco. Alcuni disperati che si lanciavano nel vuoto. Le fiamme, la polvere sui visi dei newyorkesi in fuga dal World Trade Center, la scritta sulla CNN (USA under attack!), l’eroismo dei pompieri mentre tutto attorno stava crollando, le prime angosciate testimonianze. E poi lo “sceicco del terrore” Osama bin Laden, Al Qaeda e i 19 terroristi islamici. Gli altri due aerei dirottati, il primo abbattutosi contro un lato del Pentagono, l’altro diretto contro la Casa Bianca e precipitato in una campagna della Pennsylvania grazie all’eroica lotta dei passeggeri contro i dirottatori. Immaginavo George Bush jr in volo sull’Air Force One, l’aereo progettato per salvaguardare l’incolumità del presidente nelle situazioni di emergenza. Un paio d’anni dopo, nel film Fahrenheit 9/11, Michael Moore l’avrebbe inchiodato alla sua goffaggine e inadeguatezza, impresse sul volto mentre riceveva all’orecchio la notizia dell’attacco terroristico.
Ho trascorso negli Stati Uniti gennaio e febbraio 2002. Di Ground Zero ricordo soprattutto l’odore acre del metallo liquefatto che si respirava nell’aria, a distanza di sei mesi. Tantissime fotografie attaccate all’inferriata che delimitava l’area, sul marciapiede fiori, lumini, bandierine, peluche, bigliettini. Sulla 5th avenue, un funerale di corpi ricomposti e riconosciuti soltanto allora, il centro di New York paralizzato da un corteo interminabile. Ho capito cos’è il nazionalismo statunitense quando la proprietaria dell’abitazione in cui ho vissuto per due mesi insieme ad altri colleghi ci rimproverò perché avevamo spostato sul retro la bandiera a stelle e strisce e ci intimò di rimetterla nell’ingresso principale.
Quello doveva essere il momento della solidarietà. “Siamo tutti americani” fu infatti il titolo dell’editoriale di Ferruccio de Bortoli sul CORRIERE DELLA SERA il giorno successivo all’attentato, un riadattamento esplicito delle parole rivolte da John Fitzgerald Kennedy agli abitanti di Berlino Ovest nel 1963: “Ich bin ein Berliner”. Ne nacque un dibattito acceso su Occidente, Islam e democrazia, con il richiamo inevitabile allo “scontro di civiltà” teorizzato dal politologo Samuel Huntington. Oriana Fallaci scrisse “di pancia” il furibondo La rabbia e l’orgoglio, un’invettiva piena di livore contro gli italiani (e gli occidentali) codardi e ignavi, indifferenti alla chiamata a raccolta per la Guerra Santa contro l’invasore islamico e ormai rassegnati a vivere in un’Europa diventata “Eurabia”. Sul campo opposto, le Lettere contro la guerra di Tiziano Terzani, manifesto pacifista che individuava nella non-violenza l’unica via d’uscita possibile dall’odio. Una posizione impopolare al cospetto di quasi 3.000 vittime, ma anche una lezione di umanità in mezzo alla barbarie del terrorismo, della guerra e della comoda scorciatoia che la violenza rappresenta. Sempre e comunque.

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I gattini di Totò e l’Ordine dei giornalisti

Il paragone con il Padreterno, capace in soli sei giorni di “scrivere” il libro dell’Universo e di guadagnarsi, così, ventiquattro ore di meritato riposo, è improponibile e vagamente blasfemo. Però deve esistere un termine ragionevole per il rilascio di un semplice tesserino, pena l’arruolamento automatico per il festival della lentezza.
Sono iscritto all’albo dei giornalisti della regione Calabria dal 4 giugno 2003 (prot. n. 2136 del 25 agosto 2003), ma non ho ancora il tesserino. Ho sempre pensato che per fare valere un diritto acquisito non debbano servire raccomandazioni speciali. A Dio quel che è di Dio, a Cesare quel che è di Cesare, a me quel che è mio. Ritenevo che, nonostante le lungaggini burocratiche nostrane, in un tempo accettabile avrei potuto sventolare l’agognato pezzo di plastica. Inizialmente, ho anche tentato di mettermi in contatto telefonico con gli uffici regionali dell’Ordine. Invano. Ho in seguito scoperto che l’apertura al pubblico è limitata al lunedì, dalle 9.00 alle 11.00. Quando sono finalmente riuscito a parlare con qualcuno, mi è stata data una risposta che – per usare un eufemismo – non è stata il massimo della cortesia. Di perdere una giornata per recarmi di persona a Catanzaro, non mi sembrava il caso. Non era un problema urgentissimo e per un po’ non ci ho proprio pensato. Me ne sono ricordato a giugno 2010, senza alcun motivo, visto che da anni ho deciso di non farmi più sfruttare da alcun giornale come corrispondente locale.
Ora è una questione di principio. Voglio il mio tesserino. Mi sono rivolto al sindacato dei giornalisti di Reggio Calabria, dove mi è stato spiegato che probabilmente la mia pratica è andata dispersa nel passaggio dalla fase gestita dal commissario Antonio Cembran al regime ordinario (come dopo il crollo di una dittatura!), per cui ho rifatto tutto daccapo. Nuova domanda, nuova foto e versamento delle quote annuali non corrisposte. Mi è stato però anche detto che per il tesserino avrei dovuto attendere l’autunno. Si sa, le ferie estive bloccano tutto. Passa luglio, passa agosto e, purtroppo, passano anche i mesi successivi. Nel frattempo, pago la quota per il 2011 e, di tanto in tanto, rinfresco la memoria al sindacato. Il 26 marzo scorso, il segretario del sindacato dei giornalisti, Carlo Parisi, risponde alla mia ennesima lamentela comunicandomi che avrebbe diffidato l’Ordine. Non succede niente lo stesso. Si approssima la seconda estate e comincio a pensare che “se ne parla dopo le ferie”, nonostante l’ottimismo del sindacato. Purtroppo, avevo ragione io. Provo a fare da solo, collegandomi al sito dell’Ordine (www.odgcalabria.it), ma il link “contattaci” non è attivo.
Nel suo irresistibile “latinorum”, il grande Totò sosteneva che gattibus frettolosibus fecit gattini guerces, ma qua si sta decisamente esagerando. Otto anni sono quasi tremila giorni. Per scrivere il Paradiso, una roba più impegnativa della compilazione di un minuscolo rettangolo, Dante impiegò molto meno. E non aveva il computer, né la macchina da scrivere, né uno straccio di biro.

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Che marcia nuziale!

Mio fratello mi aveva anticipato che al suo matrimonio ci sarebbe stata una sorpresa, ma non pensavo che al momento di fare ingresso nella sala invece della marcia nuziale sarebbe partito, a tutto volume, un assolo di chitarra del genere! Ho colto sul viso degli invitati più stagionati un po’ di disorientamento, sui nostri amici molta simpatia per quel personaggio sui generis che Luis è sempre stato…

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Non sono proprio ferie, ma bisogna dire così…

Non vado in ferie. Non ci sono mai andato. Almeno, non secondo i parametri riconosciuti internazionalmente. Per chi vive in Calabria, è abbastanza consueto… In genere, se non si ha la fortuna di possedere una casa al mare (e io appartengo a questa categoria), ci si organizza per delle sfacchinate, andata e ritorno dal mare sotto il sole cocente della Salerno-Reggio Calabria. Oppure ci si dà al piccolo cabotaggio (Tropea, Eolie, ecc.), da realizzare in uno-due giorni di fuoco. Da qualche anno mi sono stancato di questa vita da pendolare, ma qualcosa da fare la si trova sempre. Tra parenti che non rinunciano a qualche settimana (o mese, per i pensionati) nella propria terra di origine, impegni nelle associazioni, incontri più o meno culturali, di intrattenimento o soltanto culinari, incremento delle attività sportive, escursioni in provincia, a caccia del cantante buono “a gratis”, tempo per occuparsi del blog ne rimane poco. Credo pure che, per chi lo fa durante l’anno, ne rimanga poco per leggerlo.
E comunque farà bene anche soltanto staccare la spina, al di là della vacanza che non ci sarà! Il blog dà soddisfazioni, ma richiede anche una dedizione tanto piacevole quanto impegnativa.
Per cui, buone vacanze a tutti. A meno di qualche imprevedibile incursione, speriamo di ritrovarci a settembre con ancora la voglia di dire qualcosa.

Ho preso in prestito l’immagine che vedete dal sito “Alessia scrap & craft…”
http://www.4blog.info/school/2011/nuovo-cartello-per-i-blog-in-ferie/

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