Dai ricordi di un ex fumatore

“Nel pacchetto ci sono due sigarette, una per te e una per me. Io da domani non fumo”. Con queste parole, due anni fa attaccai la sigaretta al chiodo, dopo quindici anni di onorata carriera. Qualcosa in più se contiamo anche le esperienze “giovanili”. Una terrificante N80 a quindici anni, di ritorno da Palmi sulla Littorina; un pacchetto di Merit divorato in tre alla Pineta, in non più di venti minuti; quelle scroccate a mio fratello e a Nino. Ma il “vizio” (lo spartiacque è dato dall’acquisto personale) risale al terzo anno di università. Quando ormai stavo per passare indenne dal periodo statisticamente più rischioso. L’università, si diventa grandi, si vive lontano da casa. E si fuma. Per darsi un tono, perché lo fanno gli altri, per sentirsi figo, per assumere la posa da “maledetto”.

Come James Dean nel poster alla parete della mia cameretta. O il tenebroso Humphrey Bogart che in Casablanca avrà fumato minimo due stecche di “bionde”. Gli esempi negativi, da questo punto di vista, sono infiniti.

Ho fumato Lucky Strike, per sentirmi un po’ Vasco. Avrei voluto essere De André, bellissimo con la sigaretta tra le dita. Me lo immaginavo pensoso, ubriaco e incazzatissimo, una-boccata-un-bicchiere-un-verso, una-boccata-un-bicchiere-un-verso: “evaporato in una nuvola rossa”.
Oppure Guccini: “E ho ancora la forza di guardarmi attorno/ mischiando le parole con due pacchetti al giorno”.
Non un fumatore incallito, però le mie dieci-quindici sigarette al giorno le fumavo. Anche se non sono mai stato riconosciuto come un top smoker, soprattutto in famiglia. Quando offrii a mio padre (un fuoriclasse) una Marlboro “light”, l’unica volta in cui era rimasto senza le sue “rosse”, quasi mi umiliò: “come fai a fumare questa roba? Puzza!”. Per non dire di mio fratello Luis, definitivo: “o fumi Marlboro rosse, o è meglio lasciare stare”.
Avevo provato altre volte a smettere, con scarsi risultati. Al massimo, un paio di mesi. Dopo ho sempre ripreso. Come fare, d’altronde? Metti che hai un problema che non ti fa dormire la notte. Ci vuole la sigaretta. Se devi prendere una decisione importante, ci vogliono un paio di boccate vigorose per non fare la scelta sbagliata.
“Ora ho troppe preoccupazioni” è il più comodo e infantile degli alibi. Perché motivi per non essere sereni, purtroppo, se ne presentano tutti i giorni. E poi, chi non fuma, allora come fa a sopravvivere ai propri guai? Smettere è una questione di testa. Perché, spesso, la sigaretta è un gesto istintivo. Un riflesso pavloviano. Subito dopo il caffè, appena metti in moto la macchina, all’uscita dal cinema. Proprio per questo, i primi giorni sono davvero duri. Corsi online, prodotti omeopatici, agopuntura, ipnosi, psicoterapia comportamentale, sostituti nicotinici (cerotti, gomme e pastiglie, sigarette elettroniche o senza tabacco, inalatori) sono però una perdita di tempo e di soldi. Addirittura, esistono “centri antifumo”, suppongo strutture simili alla clinica per dimagrire del dottor Birkenmayer (Il secondo tragico Fantozzi).
Questione di testa. Altrimenti si finisce come lo studente universitario che durante uno sciopero dei tabaccai, dopo avere esaurito le scorte racimolate al mercato nero, acquistò in farmacia una sigaretta senza tabacco pur di fumare qualcosa. Un mito.

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Ho scritto al ministro Profumo. E mi ha risposto

Qualche giorno fa avevo scritto al ministro della Pubblica Istruzione. Ho abbastanza esperienza per sapere come vanno queste cose. Mi ero detto: “Qualche collaboratore del ministro Profumo leggerà (forse) e cestinerà”. Nella migliore delle ipotesi, lo stesso collaboratore invierà un paio di righe di risposta, le solite frasi di circostanza. Insomma, non mi aspettavo chissà cosa, tanto che non avevo neanche intenzione di rendere pubblica la mia lettera. E invece la risposta mi è arrivata, una email della segreteria del ministero:

“Gent.mo dr. Forgione, apprendo dalla sua lettera lo sconforto che sta vivendo. La invito però a non demotivarsi nonostante le difficoltà del momento e a continuare a credere nel suo impegno. Cordiali saluti”.

Mi è sembrata un’inaccettabile presa per i fondelli. Cioè, sono io che non devo demotivarmi?! Io non mi sono mai demotivato, altrimenti avrei gettato la spugna prima di oggi!
Ho quindi deciso di pubblicare la lettera e di cercare di diffonderla per quanto mi è possibile. Vi chiedo di fare lo stesso, con tutti i mezzi che avete a disposizione (email, facebook, twitter). Probabilmente, non cambierà nulla. Ma è giunto il momento di gridare, per dire almeno che non siamo più disposti a sopportare in silenzio.

27 gennaio 2012
Ch.mo prof. Profumo,
chi le scrive è un dottore di ricerca in Storia dell’Europa mediterranea che ormai non sa più quanti bocconi amari ha ingoiato da quando ha avuto la disgrazia – perché tale si è rivelata – di vincere il concorso all’Università di Messina, nell’ormai lontano 2001.
A conti fatti, è stata una vera sciagura, che mi ha precluso opportunità lavorative che non si ripresenteranno mai più. Altrove (si pensi al PhD anglosassone) il dottorato è un passe-partout che apre le porte all’eccellenza, ai posti di lavoro più prestigiosi, tanto da costituire un requisito quasi indispensabile per chi aspira a diventare classe dirigente. In Italia, il dottorato non solo non dà niente, se non una precarizzazione infinita, ma in un certo senso è penalizzante, perché se si è investito tutto su quello, al termine del corso ci si ritrova praticamente senza niente in mano. E così, esperienze lavorative all’estero, pubblicazioni, dieci anni di collaborazione con una cattedra universitaria inseguendo il miraggio “prima o poi arriverà il mio turno”, si sono rivelati un suicidio. Perché giunti alla soglia dei quarant’anni, un dottorato in una disciplina umanistica e una laurea in scienze politiche non hanno alcuna spendibilità nel mercato del lavoro.
Nell’Università, al di là di ciò che si strombazza ogni qual volta si approva una riforma, non cambia mai niente. Perché si possono fare centomila riforme, ma il sistema rimane sempre autoreferenziale: commissioni fatte da professori. Prima era tutto più semplice perché la “scelta” dei candidati vincitori veniva fatta a livello locale. Ora c’è solo un passaggio in più: commissari esterni fanno vincere il candidato “scelto” dalle facoltà, perché tanto i membri “girano”. Tu mi fai il favore qua, io te lo ricambierò nella tua facoltà, quando si presenterà l’occasione.
Può dirmi: “se hai le prove denuncia, altrimenti stai zitto”. Lo sappiamo tutti che è difficilissimo dimostrare l’imbroglio. Le commissioni giudicano secondo criteri “oggettivi”. Li conosco bene. Per gli insegnamenti a contratto, le esperienze di dottorati e assegni di ricerca hanno una valutazione che oscilla da un punteggio minimo ad uno massimo. Ovviamente, il candidato che “deve” vincere ottiene il massimo e le sue pubblicazioni sono “attinenti” con la materia messa a bando. Per gli altri non è mai così. Assegni di ricerca, post-dottorati, concorsi per ricercatore: dalla composizione della commissione di esame si sa già chi vincerà. Perché una sola pubblicazione di 100 pagine (per metà un’appendice con documenti copiati) può valere più di diversi libri, saggi e articoli, purché edita su una rivista specializzata. Magari, quella del preside della facoltà che ha indetto il concorso e che ha una candidata, quasi cinquantenne ed estranea al mondo universitario, da sistemare per ripagarla di servigi di altra natura.
Insomma, se il professore al quale si è legati non conta nulla, si rimarrà sempre fuori dal sistema.
E fuori c’è il nulla. Ci si ritrova, saltuariamente, a fare lavori per i quali non sarebbe stato necessario alcun titolo, né scolastico, né accademico. Come si può, in queste condizioni, pensare al futuro, a farsi una famiglia? Aspirazioni legittime, non la Luna.
Capisco che non possiede la bacchetta magica. Per cui so che non può risolvere, dall’oggi al domani, una situazione che si trascina da decenni. Lei però conosce benissimo il problema, cioè cosa spetta a tantissimi giovani all’indomani del conseguimento del pezzo di carta: disoccupazione, sottoccupazione, lavori dequalificanti che non hanno alcuna correlazione con il percorso di studi seguito. Infine, inoccupazione, quando la stanchezza prende il sopravvento. Per pochi “fortunati”, se così si possono definire coloro che hanno la possibilità di fare qualche lavoretto in nero, o qualche contratto a progetto per un paio di mesi, sfruttamento senza alcuna tutela e senza alcun diritto.
Siamo la prima generazione della storia d’Italia senza futuro. Siamo una generazione che non può farsi una famiglia perché non ne ha la possibilità. Siamo una generazione che tra trenta-quaranta anni farà esplodere una bomba sociale che neanche riusciamo ad immaginare. Perché non avremo niente, neanche uno straccio di pensione. Siamo una generazione senza sogni. E questa è la cosa che fa più male. Quando non si è più capaci di sognare, si sta cominciando a morire. È ciò che sta capitando a molti di noi. Perché anche i sogni (la carriera universitaria, nel mio caso) sono ormai una possibilità come tante altre. Come qualsiasi cosa che ci consenta di non dovere “chiedere”, di potere fare fronte alla vita con le nostre sole forze.
Servono riforme strutturali. Servono percorsi formativi che portino ad uno sbocco lavorativo. Servono corsi di formazione che non siano soltanto uno strumento clientelare di gestione del potere. Il solito escamotage per stabilizzare gente nominata per intuitu personae, quell’intuito che tutti conosciamo.
La mia storia è certo una sconfitta personale, ma è anche l’esito tristissimo di un modello di sviluppo e di politiche occupazionali fallimentari.

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Gli anni Ottanta di mio fratello Mario. E anche i miei

A scrivere sugli anni Ottanta, non ci si stancherebbe mai. Sarà che eravamo dei ragazzini spensierati, sarà che il passato ci strappa quasi sempre un sorriso, sarà che l’ingenuità e l’innocenza di quel tempo non le ritroveremo più. Molti di voi conoscono mio fratello Mario, da 14 anni “esule” (secondo la sua autoironica definizione) a Londra. È più piccolo di me di nemmeno due anni, per cui abbiamo avuto un’adolescenza identica. Ha scritto un pezzo sugli anni Ottanta, che sono felice di riproporre sul mio blog. Chi in quegli anni c’era sorriderà, chi non c’era forse avrebbe voluto esserci. Alcune chicche, tipo quella finale del mangianastri sulle Vespe, le avevo scordate.

Associo gli anni Ottanta alla parola “semplicità”. Nel 1980 avevo 5 anni e grazie al telefilm Spazio 1999, vivevo nella certezza che il mondo sarebbe finito nel 2000. Nel mio cervello da bambino, però, il 1999 era lontano anni luce, perciò non c’era niente di cui preoccuparsi. Non c’erano complicazioni allora. Il mio unico problema esistenziale riguardava la “signora” dell’asilo, la quale aveva notato che ero mancino ed aveva deciso di correggere quel mio difetto, obbligandomi a tenere la mano sinistra dietro la schiena. Sfortunatamente per lei, anche a quell’età facevo di testa mia. A casa scrivevo con la sinistra, pagine e pagine di vocali e lettere dell’alfabeto. All’asilo, tenevo la matita con la destra, ed appena la megera voltava occhio, scattavo dai box con la sinistra. Ero velocissimo. Fui scoperto una mattina d’inverno, ma troppo tardi. Il danno era fatto, non avrei mai scritto con la destra, se non altro per questioni di principio.
La scuola elementare si rivelò una pacchia immane. Il mio professore credeva nell’attività fisica. Ricordo con piacere gli sguardi di invidia degli altri bambini sempre chiusi in classe o nella migliore delle ipotesi in terrazzo mentre noi si giocava per ore in cortile. Le bambine erano delle funambole nel gioco dell’elastico. Noi bambini eravamo impegnati in interminabili partite di pallone, interrotte solo al suono della campanella. Se pioveva, si andava in palestra. Per motivi tuttora a me alieni, io ero il primo della classe, uno status che mi permetteva di esprimere un’opinione su tutto.
Erano gli anni di Dallas, che mia madre guardava religiosamente il lunedì sera. Le attrici avevano delle acconciature impossibili. Quando un giorno il professore mi chiese di dare la definizione di volume, io risposi che un esempio eclatante erano i capelli di Sue Ellen, la moglie ubriaca di JR. Anche da bambino mi dilettavo in associazioni di idee improbabili ma che il mio professore incoraggiava. Quando le disse che ero un creativo, mia madre non dimostrò però nessun entusiasmo. In TV guardavo tutti i cartoni animati, ma poiché Candy Candy, Anna dai Capelli Rossi, Remi e Heidi erano roba da bambini rammolliti, io mi concentravo su Gig Robot d’acciaio, Goldrake e Mazinga Zeta: probabilmente le tette esplosive di Afrodite A, la fidanzata di Mazinga, al giorno d’oggi sarebbero state censurate durante la fascia protetta. Il sabato c’era Fantastico con Pippo Baudo ed Heather Parisi, che non solo era americana, ma era entrata nell’immaginario collettivo perché un gran bel pezzo di figliuola.
In un batter d’occhio mi ritrovai nell’86, in scuola media, corso C, quello d’Inglese. Guardavamo con sufficienza gli sfigati del corso A e B, che studiavano Francese e quindi venivano ritenuti inferiori. Inspiegabilmente, ero ancora primo della classe, ma in realtà ero ignorante come una capra. L’87 è stato l’anno dei miei primi turbamenti pre-adolescenziali. All’improvviso, il mensile taglio di capelli diventò un momento irrinunciabile. Penso che i barbieri di paese fossero responsabili dell’educazione sessuale di intere generazioni di ragazzi. A meno che non si avesse un fratello maggiorenne, era lì che si aveva accesso a materiale VIETATO e fumetti porno. I più popolari erano Sukia, la vampira assetata non solo di sangue, ed Il Camionista, che incidentalmente aveva il mio stesso nome: non vedevo l’ora di farmi crescere i baffi.
Ad 11 anni scoprii la “piazza” (piazza Matteotti) e la mia vita cambiò radicalmente. Si giocava a calcio dalle 16 alle 20, quando mia madre prelevava me e i miei fratelli in Fiat 500. Quelli erano gli anni dei record. Il più eclatante era quello dei giri della piazza in bicicletta senza mani, tuttora detenuto da Calarco. Si fermò a mille per sopraggiunta oscurità. Io detenevo quello del giro della piazza in pattini a rotelle: fermai il cronometro a 17.9 secondi. Talvolta facevamo delle trasferte in pineta, che a suo tempo era un pezzo di bosco, una distesa d’erba ed alberi. Lì, dribblando pure i tronchi, sfidavamo a calcio i bambini “pinetoti”. Il mio albero era però in piazza, sulla sinistra, vicino al muretto, che era un altro punto di incontro dove si svolgevano anche le sfide di briscola. Spendevamo ore arrampicati su quell’albero. Ognuno aveva il suo ramo, sul mio vi avevo inciso il mio nome. Quell’albero lo tagliarono nel 1993: piansi. Quando avevamo fame ci riversavamo sugli orti: eravamo peggio delle locuste e mangiavamo di tutto: ciliegie, prugne, fragole, albicocche, pesche, lattuga, finocchi, fave. Non lavavamo mai niente. Al limite ci soffiavamo sopra. Nessuno è mai stato male, a riprova che l’esposizione allo sporco ed ai batteri tempra il sistema immunitario e che le pubblicità odierne su prodotti che uccidono il 99.9 di batteri dovrebbero essere bandite perché promuovono solo psicosi di massa.
Quelli erano anche gli anni dell’orologio Casio con calcolatrice incorporata, del cubo di Rubik, di jeans avvolti sulle caviglie, di pettinature improbabili e di cinture dalle fibbie pesantissime, armi improprie da dichiarare ai Carabinieri. In paese imperversavano le Vespa 50, rigorosamente truccate. Avrei venduto mia madre per possederne una, con tanto di antenna e mangianastri incastrato nel porta oggetti, così tamarramente geniale che proporrei una raccolta di firme per riproporla. Poi, all’improvviso giunse il 1989, con una tempesta ormonale che mi fece esplodere la faccia. Fu la fine dell’innocenza.
Mi chiamo Mario, ho 37 anni. Negli anni Ottanta ero un bambino. Segretamente, lo sono ancora.

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Gli occhi dei bimbi

Chiara ha quattro anni, quasi cinque, e ha deciso di fare il mio ritratto. Guardando con attenzione si capisce che sono io, soprattutto dai capelli. E comunque si è impegnata tantissimo, bastava vedere come mi osservava attentamente prima di tracciare sul foglio i segni che riproducevano i miei lineamenti. Chi era presente, sicuramente più ferrato di me in tema di cartoni animati (ah, i vecchi e cari Supereroi!), dice che il ritratto somiglia più a SpongeBob. Non è vero, sono io. Non ci sono dubbi.

La mia cuginetta francese Eva, cinque o sei anni fa, ha immortalato l’attimo in cui il calcio diventa poesia. Per un “tocco” del genere, riprodotto fedelmente nel disegno realizzato in occasione del mio compleanno, fior di giocatori farebbero carte false.

Molti anni fa, un’altra bimba, che aveva più o meno l’età di Chiara, mi ritrasse invece con le sembianze del mio segno zodiacale e sul retro scrisse il mio nome. Chissà, magari un giorno le farò vedere il disegno che da dodici d’anni custodisco come un portafortuna, piegato dentro la carta d’identità, e lei ricorderà.

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Non c’è due senza tre

“Alla vostra destra, per la trecentocinquantesima volta, potete ammirare la Sagrada Familia”! Appena ho saputo che Mimmo Cavallaro e Cosimo Papandrea avrebbero nuovamente fatto tappa a Sant’Eufemia, mi sono tornate in mente le parole di Tonino, il mio compagno di liceo più simpatico, perennemente in ritardo – minimo un quarto d’ora tutte le mattine – e dedito ai passatempi più incredibili durante le ore di lezione. Su tutti, l’incisione artistica del banco con il coltellino. Si era alla gita del quinto liceo e dopo un viaggio epico in treno fino a Genova e in autobus fino a Lloret de Mar, dove alloggiavamo, ci toccò visitare Barcellona. Purtroppo per noi, Jim Morrison (l’autista del pullman, che indossava una giacca in pelle nera molto Doors) si incartò nel traffico della capitale della Catalogna e, per quasi un’ora, ci fece girare attorno alla basilica ideata da Gaudì, prima di riuscire ad imboccare una via d’uscita.
Sì, lo so che Cavallaro e Papandrea sono il fenomeno musicale calabrese degli ultimi due anni. Citula d’argentu mi piace pure. Ma tre volte in sei mesi è troppo. E pensare che quando furono portati ad agosto, in occasione della sagra della patata, più d’uno all’interno dell’amministrazione comunale arricciò il naso e commentò che non sarebbe andato nessuno a vederli. Ma nella vita c’è sempre tempo per rivedere le proprie opinioni, anche se quelli disposti ad ammettere un errore di valutazione sono merce rara. In genere, prevale la sindrome di Fonzie, che non riusciva mai a pronunciare per intero la frase “mi sono sbagliato”. Un mese dopo, a grande richiesta, tornarono per festeggiare la patrona del paese. Ieri, hanno chiuso le festività natalizie. Al solito, si passa da un eccesso all’altro.
Tornando al Natale, bisogna ammettere che si è festeggiato poco. Anche perché non c’era granché da fare baldoria, visti i tempi. Il cartellone delle iniziative è stato comunque abbastanza nutrito. L’inaugurazione della sezione locale dell’Avis, intitolata al medico Pasquale Gioffrè; il concerto natalizio del coro parrocchiale polifonico “Cosma Passalacqua”; l’interpretazione di poesie e canzoni sulla natività, a cura dell’associazione Terzo Millennio; la Tombolata organizzata dall’Agape; il Premio Sant’Omobono, a cura dell’associazione dei sarti; la Giornata della Famiglia (Comitato feste); la partita di calcio tra il Sant’Eufemia e la squadra dell’oratorio parrocchiale “Don Bosco”; l’esibizione del gruppo folcloristico locale presso la Rsa “Antonino Messina”; la visita ai presepi di Tropea e alla chiesetta di Piedigrotta (Pizzo) per gli anziani (amministrazione comunale e Agape).
Mancava la ciliegina sulla torta, per chiudere col botto. In una serata spartiacque tra la tournée del 2011 e quella del 2012. Una sorta di dylaniano Never Ending Tour in salsa taranta. Per cui, non è detto che sia finita qua. Potrebbero tornare per Carnevale, poi per festeggiare l’inizio della primavera, a Pasqua e così via. Anche se sarebbe preferibile che gli artisti “girassero”, come disse l’ex premier riferendosi ad altri generi di intrattenimento.

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5 dicembre 2011

A volte la vita è il primo piano di Enrico Ghezzi e le sue parole fuori sincrono. Mentre parli, mentre scrivi, mentre vivi, scorre altrove. Scorre altra. E non sei nemmeno quello che appari. È uno stadio successivo all’intuizione di Pirandello: siamo come gli altri ci vedono. No, non siamo neanche quello. Siamo in perenne lotta con l’immagine che gli altri hanno di noi. Ogni singolo individuo incarna il mistero della vita. E della morte. Consumiamo i nostri giorni affannandoci a capire qualcosa, di noi e degli altri. Inutilmente. Perché quando arriva il momento di capire, scopriamo la nostra inadeguatezza. Pietrificati, ci auguriamo soltanto che le lancette scorrano veloci, per non pensarci più.
Abbiamo combattuto la nostra fottutissima guerra per arrivare a questo punto. Per ritrovarci col cuore a pezzi e non poterlo neanche mostrare. Perché nessuno capirebbe. Ognuno dirà che è colpa dell’altro. Come se la vita sia questo. Non penso che sia così. E mi fa orrore ridurre tutto a una guerra che non avrà mai un vincitore, ma soltanto vittime più o meno consapevoli. L’orgoglio ferito è capace di qualsiasi cosa. Purtroppo.
Ragione e torto. Mi sono seduto dalla parte del torto perché gli altri posti erano già tutti occupati. Ma chi lo stabilisce qual è la parte del torto? E chi può sapere se ci è dato scegliercelo un posto? Ci si ritrova su una sedia. Aspettando che le lancette scorrano veloci. Perché domani arriverà presto. Ma niente potrà più essere come prima. Neanche la speranza.

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Una regina di nome Ciccia

La corona di Ciccia non era d’oro. Era fatta di capelli. Non aveva pietre preziose incastonate, ma tanti ferretti. Quelli che tenevano arrotolata sulla sua testa una lunga treccia, d’inverno nascosta sotto un foulard prima a fiori, poi nero.
Da bambina Ciccia non era stata una principessa, anche se era riuscita a completare la scuola elementare. Una rarità, in un paesino dell’Aspromonte negli anni ’20 del secolo scorso. Tempi in cui si diventava presto donne, soprattutto se si avevano due sorelle e un fratello più piccoli. A 12 anni si era già mamme. Non erano tempi di amori da feuilleton. Se uno zio acquisito, Micu, rimaneva prematuramente vedovo perché la moglie era morta di parto, era quasi naturale che toccasse alla nipote più grande allevare, assieme ai fratelli, i due cuginetti. Non di rado, capitava di andare in sposa allo zio. Quattordici anni di differenza non sono pochi, ma questa era l’ultima delle preoccupazioni. I problemi si risolvevano in famiglia.
Quando iniziava la primavera, Micu si trasferiva sull’Aspromonte, mesi e mesi senza tornare a casa, giorni interi a tagliare legna e, di notte, a sorvegliare la carbonaia. Poi la guerra nel teatro libico, la prigionia e il rientro a casa. Un carbonaio analfabeta, spedito dal Duce a difendere la Quarta Sponda, doveva per forza diventare comunista. E così fu per Micu, tessera del Pci nel portafogli e sul comodino i ritratti di Stalin e Togliatti, accanto al rosario e al libro di preghiere della moglie.

Il mondo di Ciccia era un cucinino, un gabinetto e due stanze. Per qualche tempo, una. Da dividere con mamma, marito, uno dei due cugini e due figli (un maschio e una femmina), per il periodo in cui nell’altra camera si accampò un parente con tutta la famiglia, una sistemazione “provvisoria” durata diversi anni. Sempre meglio dei molti che, ancora negli anni ’60, vivevano nelle baracche in legno del dopo terremoto, monolocali affollatissimi privi di acqua, servizi igienici, corrente elettrica. Attaccato al suo mondo c’era l’Eden, raggiungibile varcando l’uscita sul retro. Un piccolissimo ma ricco giardino, curato con amore e applicazione: rose bianche e rosse, calle, fior d’angelo, biancospino, gladioli, begonie, garofani, tulipani, dalie, un cespuglio di margherite, un albero di camelie, due di mele del paradiso, un mandarino, un arancio.
Nel suo mondo c’erano soprattutto due figli da accudire, in particolare la piccola di casa, alla quale portava ogni mattina una tazza di latte e fette di pane nel letto. Ai piedi, a mo’ di borsa dell’acqua calda, un mattone riscaldato nel braciere; in caso di mal di gola, anche un calzino pieno di cenere viva da tenere arrotolato al collo come una sciarpa.

La stessa attenzione usata più avanti nei confronti dei nipoti, le cui date di nascita teneva appuntate su un quaderno di prima elementare: 10.000 lire al festeggiato, 5.000 agli altri. A Natale, Capodanno, Epifania e Pasqua, uguale trattamento per tutti.
A cavallo degli anni ’80, si stava bene da Ciccia. Stretti stretti, il calore aumentava. La porta era sempre aperta e i bambini entravano di corsa dal cortile per bere, accaldatissimi e sporchi. Si faceva merenda con pane, sale e olio. D’estate, l’orzata. Dolcissima, nel bicchiere che portava stampate sul vetro macchinine d’epoca. L’idrolitina del cavalier Gazzoni, no: quella la beveva soltanto lei. Per i gelati bastava andare in uno dei due alimentari della ruga: i putijari segnavano nella libretta, poi passava Ciccia. Si dormiva nello stesso letto e, appena svegli, la colazione era baldoria, con la scatola dei biscotti Doria da tre chilogrammi al centro della tavola e tutti attorno cinque piccole pesti pronte a sfidare enormi tazze arancione. La domenica tutti a messa: al momento dell’offerta, nella mano di ogni bambino scivolava una moneta da deporre nel cestino. Subito dopo, la cucina sprigionava l’odore del sugo con le polpette che avrebbe condito i maccheroni fatti in casa e stesi sul letto matrimoniale, sopra un lenzuolo bianchissimo. Ed era festa.

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I miei Pink Floyd

Girovagando nel web, mi sono imbattuto in una votazione sugli album dei Pink Floyd, la band inglese composta in origine da Syd Barret (chitarra e voce), Roger Waters (basso e voce), Nick Mason (batteria) e Richard Wrigth (tastiera), ai quali quasi immediatamente si unì David Gilmour (chitarra e voce) per supportare e infine sostituire Barrett, annientato dai propri demoni e dall’LSD. Un passaggio fulmineo e sfavillante nella storia del rock psichedelico che in seguito ispirò ai Pink Floyd l’album Wish you were here – in particolare, la canzone Shine on you crazy diamond – e, in parte (essendo prevalente l’autobiografia di Waters), il personaggio Pink nel monumentale The wall, “concept album” diventato anche film (regia di Alan Parker, con Bob Geldof nel ruolo del protagonista).
Devo però mettere le mani avanti. Non sono un esperto di musica. Quello che so sui Pink Floyd l’ho appreso quasi passivamente e senza accorgermene, come aria che si respira. Merito di mio fratello Luis, “pinkfloydologo” d’eccezione: tutto quello che è stato scritto, tutti i dischi (poi cd), tutte le videocassette (poi dvd), persino due tatuaggi, uno tratto dalle immagini dell’album The wall, l’altro da The division bell. Un giubbotto di jeans, che credo ancora conservi, sul quale ai tempi del liceo fece ricamare la copertina di The wall. Ecco, lui può dibattere indifferentemente e con rara competenza degli inizi psichedelici e degli anni della maturità; conosce le biografie di ogni singolo componente; sa tutto sulla genesi di ogni canzone e album; di tutte è in grado di recitarne il testo, in inglese e in italiano. Sa indicare con esattezza l’ingresso della batteria di Mason in Atom hearth mother (9.09: “ascolta ora 50 secondi di perfezione”), quella batteria che nella canzone In the flesh? diventa una raffica. Sa tutto, ma proprio tutto, sugli assoli di Gilmour, sublimati nella straordinaria Comfortably numb. Può anche fare una lezione su una canzone strumentale mai incisa ed eseguita soltanto dal vivo (Reaction in G), che forse gli stessi Pink Floyd non ricordano. I suoi dischi sono cimeli, suonati soltanto una volta per essere copiati sulle musicassette (all’epoca non esistevano cd). Poi sono stati idealmente messi dietro una teca, con il divieto assoluto, per chiunque, di toccarli.
Io non so scegliere tra The dark side of the moon e The wall. E anche a costo di andare controcorrente, penso che The final cut (l’ultimo prima dell’uscita di Waters, 1983) sia un grandissimo album.
Per me la musica è soprattutto pelle d’oca. È l’emozione di Time, che cantavo con mio fratello sotto la doccia (lui le strofe di Gilmour; io quelle di Wright); oppure la pace di Marooned, pezzo strumentale che ascolto quando devo prendere una decisione importante o raggiungere il massimo della concentrazione (ai tempi dell’università, prima di un esame). È l’emozione del concerto a Cinecittà, il 20 settembre 1994, al quale non potevamo mancare. Soprattutto dopo che, ancora minorenni, ci eravamo persi quello di Venezia, nella tournée del 1989. Prendemmo il treno insieme al nostro amico Cosimo e arrivammo di primo mattino davanti ai cancelli, ancora chiusi. Non c’era nessuno. Mio fratello ci proibì di muoverci, perché “dovevamo” entrare per primi e arrivare sotto il palco. E così fu. Tredici ore di attesa per un’esperienza straordinaria, condensata dalla sua battuta al sacerdote-professore di religione del liceo: “ha presente uno che prega, prega e di colpo gli appare la Madonna? Ecco, quando sul palco è spuntato Gilmour, credo di avere provato una cosa del genere!”.

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Trentasei anni senza P.P.P.

Sono arrivato a Pier Paolo Pasolini da solo. O quasi. Ai tempi del liceo, lo sfiorai tra la prima e la seconda classe, quando la professoressa di lettere ci assegnò alcuni libri da leggere durante le vacanze estive. Conobbi così Pasolini, Cesare Pavese, Italo Calvino, Primo Levi e qualcun altro autore del Novecento. Le fortune dei ragazzi passano spesso dagli insegnanti che incontrano lungo il cammino scolastico. A me è andata bene. Nel biennio, un rapporto splendido, anche sotto il profilo umano, con la professoressa Paino; nel triennio, quello decisivo per la mia formazione con il professore Monterosso (storia e filosofia). In quinta, però, studiammo poco o niente gli autori del Novecento. Di sicuro, non li leggemmo. E anche se il professore di lettere avesse avuto questa intenzione, non credo che ci avrebbe fatto leggere Pasolini. Troppo distante dal suo mondo.
Per vie traverse ci sono però arrivato ugualmente. Mi capita spesso di leggere qualcosa che rimanda ad altri autori. E così è stato. Mi sono “imbattuto” nella raccolta di poesie Le ceneri di Gramsci e così ho prima approfondito il poeta, quindi sono passato alla lucidità del pensiero degli Scritti corsari, all’intellettuale scomodo, scandaloso e affascinante per chi si rifiuta di sottostare alle logiche e ai valori propagandati dal consumismo e dall’edonismo dominanti. Nessuno meglio di Pasolini ha saputo leggere i cambiamenti della società italiana nel secondo dopoguerra. Nessuno è stato così profetico e coraggioso nel mettere in guardia, con quarant’anni d’anticipo, dal baratro verso il quale l’umanità stava (e sta) precipitando. Le denunce contro il Palazzo, il ruolo e la funzione della televisione in una società di massa, l’omologazione culturale, la trasformazione antropologica della società sono temi drammaticamente attuali.
Domani ricorre il trentaseiesimo anniversario dell’assassinio di Pasolini. Una vicenda che presenta ancora molti lati oscuri. L’ennesimo mistero della storia d’Italia. Nella sua appassionata orazione funebre, Alberto Moravia pronunciò parole forti e condivisibili: “abbiamo perso prima di tutto un poeta, e poeti non ce ne sono tanti nel mondo, ne nascono soltanto tre o quattro in un secolo. Quando sarà finito questo secolo, Pasolini sarà tra i pochissimi che conteranno come poeta: il poeta dovrebbe essere sacro!”.

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Ti saluto così

Tra i tanti ricordi, mi piace associarti alla tua grande passione: il volo degli uccelli. Chissà, forse più in là dirò altro. Ora mi piace pensarti con gli occhiali da sole dalle lenti spesse per potere meglio osservare senza rimanere accecato dalla luce, e il binocolo che tenevi sempre sulla macchina, pronto ad accostare appena scorgevi un punto sull’orizzonte. Spesso non riuscivi a capacitarti di come non riuscissimo a vederlo pure noi, che non avevamo l’occhio allenato come il tuo.
“Guarda quanto è bello l’adorno in volo!”, esclamavi innamorato.
Ciao, “zio” Pino

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