Caldo africano e ospedali reggini

Ogni volta che rischio di liquefarmi, inscatolato e intrappolato sul “corpo del reato” più lungo del mondo (l’autostrada Salerno – Reggio Calabria), ripenso alla saggezza del Barone: “uno dei più grandi errori della tua vita”. Il termine utilizzato – a dire il vero – è un altro, irripetibile. Ad ogni modo, sì: l’acquisto, dieci anni or sono, di un’auto priva di climatizzatore (e a tre porte, pesante aggravante ai fini del negativo giudizio finale), va annoverato tra le mie topiche più clamorose.
Con Scipione ci siamo soltanto intravisti, Caronte invece mi è saltato addosso proprio mentre procedevo a passo di lumaca sull’asfalto infuocato. Lucifero, più in là, dovrebbe dare il colpo di grazia ai sopravvissuti delle prime due ondate di calore di questa estate 2012. Ci saranno tempi e modi. Intanto, un dato è certo: menzione speciale per l’ideatore dei nomi da attribuire all’anticiclone africano. Veramente rassicuranti. D’altronde, siamo abituati. In Italia, si è sempre di fronte ad emergenze catastrofiche, prossimi alla rovina. Ora è il momento dell’ “emergenza caldo”, che ha scalzato la precedente “emergenza freddo”. Passiamo dalle raccomandazioni allarmate su come fronteggiare il “generale inverno” (strano: in inverno fa freddo) alla litania sulle impennate della colonnina del mercurio (strano: in estate fa caldo).

Pensavo a questo, mentre imprecavo contro il nostro sistema sanitario, non comprendendo la ratio della sua farraginosa, inconcludente e irritante burocrazia. Un mese fa, un mio amico ha avuto un ricovero, dopo di che è stato dimesso con la prescrizione di una successiva visita di controllo. In un paese normale, un cittadino pensa che, essendogli stato detto di tornare giorno X, non serve prenotazione. Invece, non vanno così le cose e nessuno si premura di farlo presente all’ignaro utente.
Non solo. Nell’anno di grazia 2012, la prenotazione va fatta “esclusivamente” utilizzando l’apposito numero verde. Non esiste altro sistema, men che meno farlo direttamente in ospedale. Ora, intuisco che possano sussistere ragioni di natura organizzativa, ma snellire qualche procedura, informatizzando qualche passaggio, è chiedere troppo?
Il numero verde è il catalizzatore naturale di malanove per eccellenza. Componi il numero, ascolti per ore la musichina della segreteria telefonica, saggi il tuo livello di sopportazione, quindi esplodi, imprechi e spacchi la cornetta dell’apparecchio. Dopo interminabili tentativi, se non ti sei già trasformato nel Michael Douglas di Un giorno di ordinaria follia, hai discrete possibilità di portare a casa il risultato.
Ricapitolando, per un’estate serena, occorre almeno una delle tre seguenti condizioni: a) una salute di ferro; b) un’auto climatizzata; c) temperature primaverili.

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Boni cunti

Peppuzzo conosceva molte storie di povertà e non perdeva occasione di narrarle a noi ragazzi che trascorrevamo con lui qualche ora del pomeriggio sulle panchine della vecchia piazza Matteotti, attenti ai dettagli dei suoi affascinanti e incredibili racconti. La sua infanzia era stata segnata dalla guerra. “Entravano da là” – ci diceva, indicando un punto all’orizzonte, tra la cresta della montagna e il cielo. Immaginavamo tutto il paese, sguardo in alto e gambe svelte, dirigersi nei rifugi per scampare ai bombardamenti degli Alleati che braccavano l’esercito tedesco e lo costringevano a risalire la Penisola, nella primavera-estate del 1943. Famiglie intere riparavano nella galleria del ponte sulla ferrovia o in caverne naturali lungo la strada che porta sull’Aspromonte. Ci passavano davanti l’ansia e la paura vissute dai nostri nonni, ma anche la festosità di un parto avvenuto proprio dentro la galleria, tra lo stupore e la gioia generale.

La guerra è dura, sempre e ovunque, ma il dopoguerra, spesso, è ancora peggio. Fame, sporcizia, pidocchi, abbrutimento. Miseria, fascismo e guerra combaciavano nei racconti di Peppuzzo, che biasimava in eguale misura chi in quegli anni si era arricchito e chi, a distanza di decenni, esprimeva ancora simpatia per il duce e per i ducetti in sedicesimo locali. Gira e rigira, il discorso tornava sempre alla pancia. Apprendevamo di gente che si nutriva di bucce di patate, ortiche, cardi e “coschi i vecchia”; che non aveva mai conosciuto il sapore della carne; che camminava scalza, lacera e sporca. “Addunca” (dunque), il suo inconfondibile incipit; “boni cunti” (in definitiva, in fin dei conti), l’introduzione alla “morale della favola”, il suo personale commento finale. “Questi eravamo” – sembrava ammonirci, affinché lo tenessimo bene in mente, noi che avevamo avuto la fortuna di nascere in tempi più felici. Piccole storie della storia grande, a volte anche aneddoti simpatici, a dispetto della drammaticità del contesto. Il nostro – e credo anche il suo – preferito aveva come protagonista un poveraccio che, approfittando della precoce oscurità delle serate invernali, si era intrufolato in una baracca per cercare qualcosa da mangiare, ma era stato colto in flagrante – mentre rovistava nei cassetti della credenza – dal padrone di casa, un altro poveraccio che però, evidentemente, possedeva uno spiccato senso dell’ironia, tanto da porre il memorabile quesito: “ma se non trovo niente io di giorno, cosa vuoi trovare tu, con questo buio?”.

Altro argomento di conversazione era il calcio. Tifosissimo del Napoli (in quanto squadra del Sud) e della Reggina, storpiava tutti i nomi dei calciatori, da “Natalistefano” (Notaristefano) a “Diloiggi” (Dionigi), a “Bonaccioli” (Bonazzoli) e nutriva un odio viscerale per quella squadra di “scecchi zoppi” della Juventus (“a cani”: la cagna), sentimento che, per ovvi motivi, lo rendeva ai miei occhi ancora più amabile.

Si dilettava inoltre a lavorare il legno, un hobby che praticava nel suo piccolo regno, un laboratorio ricavato in un garage, all’interno del quale realizzava bastoni, “stante” (pali con diversi rami sui quali i pastori appendevano gli attrezzi), “juvi” (gioghi) per i buoi, collari per i “campani” (grossi campanelli per il bestiame). Il pezzo forte della sua collezione di oggetti era però l’enorme “pipa di Pertini”, ricavata dalla lavorazione di una “crozza”, a ricordo della vittoria azzurra al mondiale di calcio del 1982.

A Peppuzzo devo il segreto di un “posto” di funghi che aveva rivelato a mio fratello Mario ragazzino e che successivamente mi è stato trasmesso. Ogni anno torno in quel bosco di castagni, anche soltanto per il gusto di passeggiare e riandare così, con la mente, a quelle storie e all’immagine del sorriso di Peppuzzo quando si fa dare un bacio sulla guancia dal nipotino, dopo avergli messo in mano un euro.

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Il pane di Franco

Ho letto il mio nome sopra una torta, per la prima volta in vita mia, mentre la “Marconi” solcava il Pacifico. Compivo ventidue anni e il destino e la povertà mi stavano consegnando a un continente del quale conoscevo a malapena il nome. Chissà com’erano i suoi abitanti? E quanti “paisani” ci sarebbero stati ad attendere la nave al porto? Beh, se mio fratello Stefano mi aveva detto di raggiungerlo, cinque anni dopo il suo arrivo in una terra così lontana, gli indigeni tanto malvagi non dovevano essere. Sugli amici, poi, si poteva sempre contare. Anche io avrei avuto un lavoro. Non cercavo altro.

Rimasi stupito dalla cortesia dell’equipaggio. Non conoscevo nessuno su quella nave e un sacco di gente mi stava festeggiando. Buon segno. Una torta così bella l’ho ricevuta nuovamente a capelli totalmente bianchi, per i miei sessant’anni, regalo maturo e sorpresa confezionata dai miei figli.

Il gelato no, quella era stata un’esperienza quasi traumatica. Avevo nove-dieci anni ed ero incantato dal gelataio, un pifferaio su bicicletta trainante un carretto, dietro al quale s’incolonnavano bambini imploranti. “Gelati, graniti, senza sordi non veniti!”, metteva in guardia. Stefano aveva racimolato un po’ di spiccioli per comprare un minuscolo cono al limone che mi fece assaggiare. Guardai lo strano oggetto che tenevo tra le dita, come per capire quando e come aggredirlo, quindi gli diedi un morso. Era freddo! Una sensazione a me sconosciuta, per la quale non ero preparato. Sulle prime, non sapevo se sputare o inghiottire; alla fine temporeggiai un tempo che mi sembrò infinito, ma che mi consentì di mandare tutto giù, incredulo e muto, come chi non sa se sia scherzo o realtà.

Un mese di viaggio. Scappavo dalla miseria, mia e di chi mi stava attorno.
Franco viveva con dieci fratelli in una baracca post 1908 spoglia come un ciliegio in autunno. Uno spettacolo deprimente. E sì che ero abituato, allenato com’ero con la mia, una specie di cuccia per uomini e cimici che si contendevano quel poco spazio. Una stanza e mezza per nove corpi che, in inverno, rimediavano alla mancanza di riscaldamenti incastrandosi dentro due letti e, d’estate, schiattavano sotto le lamiere roventi. Non c’era acqua, se non la poca prelevata dalla fontana pubblica, si faceva luce con la lampada ad olio e si cucinava sul fusto alimentato con la segatura. Quasi tutti i giorni, però, una pentola di patate messa a bollire manteneva il nostro morale a un livello accettabile. Stava là – come un centrotavola – e dentro vi pescavamo a turno, facendo attenzione a non infilzare qualche mano. Tranne quella volta che fui sgridato e, per vendetta, di nascosto la divorai quasi per intero. Inseguito dai miei tre fratelli, mi diedi alla macchia e feci ritorno diversi giorni dopo, appena in tempo per non fare morire mia mamma di crepacuore. Mi sarei riscattato qualche anno più tardi, con la prima paga da imbianchino investita per regalarle una cucina a tre fuochi.

Da Franco, invece, la tavola faceva “scurare” il cuore. Intorno, poche sedie e una nidiata di bimbi ai quali toccavano, tutti i santi giorni, pane e olive. Raramente, un tocco di formaggio che veniva sfregato su ogni singola fetta di pane, non potendo essere companatico sufficiente per tutti. Pane e odore di formaggio. Per il pane provvedeva Franco, con la mia complicità. A dodici anni lavoravamo in un forno e quel ben di Dio era una tentazione alla quale non potevamo e non volevamo resistere. Allora intuivo qualcosa, inconsciamente o per spirito di sopravvivenza. In seguito, un poeta genovese avrebbe trovato le parole giuste: “ci hanno insegnato la meraviglia/ verso la gente che ruba il pane/ ora sappiamo che è un delitto/ il non rubare quando si ha fame”.

Franco era velocissimo, il primatista nelle corse tra ragazzini. “Mastro, esco per fare pipì”, la scusa di ogni notte. Dietro l’angolo, due pani (uno per me, uno per lui), che riuscivo sempre a nascondere, non appena il principale si distraeva un attimo. Dal forno alla baracca c’erano duecento metri, che Franco percorreva a perdifiato, la refurtiva stretta al corpo come un pallone da rugby e il cuore in gola. Dopo più di cinquant’anni, la fragranza di quel pane rimane irraggiungibile. Al pari di Franco, quando correva come un ladro. Quando ladro non era.

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Se non cinquanta, sono comunque molte le cose da fare prima dei dodici anni (e anche dopo)

È di questi giorni il risultato di una ricerca sulle abitudini dei bambini fino a dodici anni (per l’esattezza, undici anni e tre quarti) realizzata per conto del National Trust, ente senza fini di lucro, costituito nel 1895, che ha come mission la tutela e la promozione di alcuni tra i più belli e storici paesaggi inglesi. In Inghilterra, come in gran parte del mondo “civilizzato”, è ormai una rarità incontrare ragazzini che giocano all’aperto, salvo che non siano portati dai genitori o dai nonni in qualche spazio chiuso (pineta, parchi, piazze). Chi ha i capelli bianchi, ma anche soltanto sale e pepe, ha invece avuto un’infanzia e un’adolescenza vissute “on the road”. Interminabili partite di pallone per strada (altro che supplementari: un unico tempo fino al calar del sole); un genere di nascondino (“a tola”) per il quale i limiti territoriali erano dati dai confini geografici dell’intero paese; l’attraversamento del ponte e della galleria ferroviaria a piedi o con le biciclette, tenendo le orecchie ben aperte per correre a perdifiato e rifugiarsi nella “nicchia” appena si sentiva in lontananza la sbuffata della Littorina.
Le cause di questo mutamento sono molteplici, in primo luogo l’eccessiva apprensione di alcuni genitori, che a volte è terrore ingiustificato, visto che, più o meno, ce la siamo cavata tutti. Ma anche i nuovi passatempi, svolti dentro le mura di casa, con una connessione internet o una consolle. La “Playstation Generation” esce pochissimo: neanche uno su dieci gioca frequentemente in spazi aperti, addirittura il 30% non sa andare in bici. Il National Trust ha lanciato la campagna delle “50 cose da fare prima di avere undici anni e tre quarti”, selezionandole da una lista di 400 compilata da una commissione di esperti composta da volontari del proprio staff:

1. Arrampicarsi su un albero
2. Rotolare giù da una grande collina
3. Accamparsi all’aperto
4. Costruire un rifugio
5. Far rimbalzare i sassi sull’acqua
6. Correre sotto la pioggia
7. Far volare un aquilone
8. Pescare con il retino
9. Mangiare una mela appena colta dall’albero
10. Giocare a conker (un gioco tradizionale inglese)
11. Lanciare palle di neve
12. Partecipare a una caccia al tesoro sulla spiaggia
13. Fare una torta di fango
14. Costruire una diga su un ruscello
15. Andare sullo slittino
16. Seppellire qualcuno sotto la sabbia
17. Organizzare una gara di lumache
18. Stare in equilibrio su un albero caduto
19. Dondolarsi da una corda
20. Giocare a scivolare nel fango
21. Mangiare more raccolte dai rovi
22. Guardare dentro un albero
23. Esplorare un’isola
24. Correre a braccia aperte facendo l’aeroplano
25. Fischiare usando un filo d’erba
26. Andare in cerca di fossili e ossa
27. Guardare l’alba
28. Scalare un’enorme collina
29. Visitare una cascata
30. Dar da mangiare a un uccello dalla mano
31. Andare a caccia di insetti
32. Cercare uova di rana
33. Catturare una farfalla con il retino
34. Inseguire animali selvatici
35. Scoprire cosa c’è in uno stagno
36. Richiamare un gufo imitando il suo verso
37. Osservare le strane creature tra le rocce di un lago
38. Allevare una farfalla
39. Dare la caccia a un granchio
40. Fare una passeggiata nel bosco di notte
41. Piantare qualcosa, coltivarla e mangiarla
42. Nuotare in mare, in un fiume, insomma, non in piscina
43. Fare rafting
44. Accendere un fuoco senza fiammiferi
45. Trovare la strada servendosi solo di mappa e bussola
46. Arrampicarsi sui massi
47. Cucinare in campeggio
48. Fare discesa in corda doppia
49. Giocare a geocaching (una caccia al tesoro con il GPS)
50. Andare in canoa su un fiume

Esclusi i giochi tipicamente inglesi, le attività stravaganti (caccia al tesoro con il GPS), quelle obiettivamente improbabili, soprattutto per un dodicenne (accendere il fuoco senza fiammiferi, cucinare in campeggio) e altre abbastanza pericolose (rafting, scendere in corda doppia, pagaiare sul fiume), c’è poco di clamoroso: nuotare, correre, osservare la natura e interagire con essa. Cose del tutto normali, fino a qualche decennio fa. Per molti di noi, gli alberi della vecchia piazza Matteotti erano una seconda casa. Ci trascorrevamo ore e ore, ognuno sul proprio ramo, personalizzato dalla firma incisa sulla corteccia. Senza contare le scorribande su quelli da frutto, qualche volta concluse con fughe spericolate per sfuggire al cane che il proprietario ci sguinzagliava contro, quando non ci rincorreva ascia in pugno.
Nella mia adolescenza ho partecipato alla costruzione di due rifugi. Il nostro mondo in due metri per tre di tavole e lamiere sottratte da qualche cantiere e inchiodate in un posto sicuro: un rifugio, appunto. Ci è capitato spesso di correre sotto la pioggia, non per scelta, ma perché, essendo sempre in giro, il temporale ci poteva sorprendere per strada. Pulcini da spogliare e asciugare col phon. La gioia dell’aquilone (“a pianeta”), realizzato con le canne e la carta dell’uovo di Pasqua, che facevamo volare al campo sportivo, e quella della gara a chi faceva rimbalzare più a lungo i sassi sul mare di Favazzina, quando le labbra viola e le mani rattrappite ammonivano che non si poteva più stare in acqua. È un’età in cui basta poco per divertirsi. Ma forse un tempo bastava ancor meno.

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Da “mastru” Nino Spanto

C’è stata un’epoca in cui gli adolescenti non “andavano” a danza, a musica, a scuola calcio, a pallavolo, a inglese e a chi più ne ha più ne metta. Tutte quelle attività che assorbono quasi interamente le ore pomeridiane dei ragazzi, fino a non molto tempo fa, erano pressoché sconosciute. Tutt’al più, giocavano a calcio, ma nelle strade e nelle piazze. Pagare per giocare è un costume in voga soltanto da un decennio a questa parte. Un tempo, si andava dal “mastru”, che era “un artigiano esperto e abile” (Giuseppe Pentimalli, Vocabolario ragionato del dialetto femijotu). Falegname, sarto, calzolaio, barbiere, panettiere, imbianchino, impagliatore di sedie (“seggiaru”), fabbro, fabbricante di basti (“vardaru”), cestaio, stagnino, tornitore erano le professioni che contavano più “discipuli” (apprendisti). Le botteghe degli artigiani erano una seconda scuola e anche chi, alla fine, non imparava l’arte, ne usciva in qualche modo “formato”. La maggior parte dei ragazzi “girava” due, tre, anche quattro mestieri, fino all’età del servizio militare. Famiglia, scuola, luogo di lavoro e infine la caserma, di fatto, hanno contribuito all’educazione di intere generazioni.

La bottega del “mastro scarparo” Nino Spanto si trovava in via Carusa, l’ex “calata” del cinema, in un tempo in cui (1957) il cinema ancora non esisteva. Era però in costruzione e da lì a poco sarebbe stato aperto al pubblico, gestito dai fratelli Domenico e Vincenzo (“u vichingu”) Luppino, rientrati in paese dall’Eritrea alla fine della seconda guerra mondiale. Dal calzolaio, i ragazzini imparavano a fare una scarpa dal nulla. Appena presa confidenza con trincetti e lesine, tagliavano il cuoio, cucivano la tomaia e i “petti” (le suole) con lo spago incerato e alla fine estraevano dalle forme inchiodate il prodotto finito. Il primo impatto con il lavoro consisteva in mansioni semplici: i più piccoli dovevano infatti raccogliere con una calamita “simiggi” e “zippe”, i chiodini che restavano per terra a fine giornata e che dovevano poi raddrizzare in modo da renderli riutilizzabili. Non era previsto alcun compenso. Erano anzi i ragazzi a omaggiare il “mastro” (feste comandate, onomastico e compleanno), il quale si sostituiva all’autorità paterna, grazie alla delega conferitagli (“se faci u malu, minati”) ed esercitata con schiaffi e nerbate generosamente distribuiti.

A partire da sinistra, in alto: Cosimo Surace (“u Patru”), ’Ntoni Saccà (“u Casettotu”), “mastro” Nino Spanto, Vincenzo Gabrotti, Nino Villari (“u Zoppareddu”, “Ngaiò”). In basso: Rocco Polimeni, Gaetano Comandè (“u Gattu”), Diego Forgione (“Mario”, “u Tornaru”), Franco Tripodi, Carmelo Pentimalli.

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Occhiali rotti

Nella prossima vita indagherò l’inconscio. Mi intrigano il mistero e il miracolo della psiche umana, la logicità e l’illogicità di taluni passaggi, i salti incomprensibili a una prima e a una seconda lettura, le associazioni mentali spericolate e inspiegabili. Siamo carne, è vero. Siamo ciò che ci circonda, ci plasma, ci indirizza verso vite che a volte prendiamo in prestito, spacciandole per nostre. Ma siamo soprattutto intelletto, ragione capace di sopravvivere mentre tutto sfiorisce, nel deserto che attorno a noi si rivela quotidianamente. Siamo spirito imprigionato dentro la corazza dei nostri corpi, leggerezza che fluttua nell’indecifrabile nostro andare.
Ho visto un bimbo piangere e correre inutilmente dietro al padre. Ho pensato che, in quel preciso istante, il dolore del mondo avesse quel volto, quelle lacrime, quel singhiozzo disperato. Poi è iniziato “il viaggio”. Tanti altri bimbi piangenti, ovunque vi sia una guerra, una sporca guerra con le sue cluster bombs, i “pappagalli verdi” di un gioco per ragazzini senza infanzia che gioco non è, mani e piedi scaraventati a decine di metri dai corpi. Ovunque l’uomo tenti di sopraffare un altro uomo. Medio Oriente. La guerra in Iraq e un giornalista freelance, Enzo Baldoni, che racconta quel che vede (2004). Che non si limita al ruolo di testimone scomodo e che, per molte vittime dilaniate nel corpo e nell’anima, diventa una possibile ancora di salvezza. Il suo rapimento e la sua esecuzione. L’ignominia del titolo di un giornale (“Libero”), che spara in prima pagina l’articolo di Renato “Betulla” Farina, agente dei servizi: “Vacanze intelligenti”. Proprio così. Che vuoi, Enzo? In fondo, te la sei cercata. La prossima volta, stai a Milano, invece di fare l’alternativo.
Siamo materia leggerissima, che vola nello spazio immenso della nostra fantasia e corre dal pianto di un bimbo al messaggio di pace della foto dei “piedi spaiati di Mohammed” (all’epoca, Baldoni scrisse a Emergency per chiedere se si potesse fare qualcosa per l’amico iracheno che durante un bombardamento americano a Falluja aveva perso entrambe le gambe e aveva ricevuto due piedi “spaiati”, un 37 e un 38). E allora buona Pasqua, con le parole dedicate da Samuele Bersani a Baldoni in Occhiali rotti.

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Tipi da bar

In un piccolo centro, il bar è un microcosmo rassicurante perché frequentato sempre dalla stessa gente, tranne i casi in cui un quattro di bastoni calato al momento sbagliato, una donna di quadri scartata con troppa leggerezza o una “bevuta” colossale a biliardo non provocano fratture insanabili che poi ognuno si porta fin dentro la tomba. In quel caso, uno dei contendenti difficilmente vi metterà più piede, o se lo farà, niente sarà più come prima.
Anche chi manca per molti anni dal paese, una volta ritornato non avrà grosse difficoltà a risintonizzarsi coi ritmi lenti dei frequentatori di un bar. Un mondo pressoché immutabile. Difatti, alla domanda “che si dice?”, la risposta è inevitabile: “la solita” (o “la solita vita”, quando l’interlocutore è particolarmente loquace). Passano gli anni e si succedono i clienti (fisiologia), ma i “tipi” di avventori rimangono – più o meno – gli stessi.

L’ALLENATORE. Ogni bar che si rispetti ha un buon 90% di clienti in grado di far giocare divinamente qualsiasi squadra di calcio, di operare la sostituzione giusta al momento opportuno, di vincere a mani basse tutte le competizioni, nazionali e internazionali. A queste latitudini, il triplete sarebbe all’ordine del giorno; il campionato del mondo di calcio, poco più di una gita di piacere.

IL CUBISTA. Spara, spara, spara. Ma non è un violento. Le sue pistole – come ne Il signor Hood – sono “caricate a salve”, anzi a balle. Il cacciatore non torna a casa con meno di 20-30 tordi o due cinghiali grandi quanto un elefante. Il cercatore di funghi spiana la montagna, palmo per palmo, e riempie il cofano dell’auto di porcini. Il pilota di Formula Uno va a Reggio in quindici minuti, anche ora che l’autostrada è un interminabile doppio senso di marcia. Dalle sue dichiarazioni, occorre estrarre la radice cubica.

IL REDUCE. Generalmente è pensionato, o comunque ha un’età che prima della stretta montiana dava diritto a un meritato e retribuito riposo. Ora riposa soltanto, gratis. Inizia tutti i suoi discorsi con “ai miei tempi” e ti fa capire di avere vissuto e di conoscere il mondo meglio di chiunque altro. Mica è come te, che non hai mai fatto alcunché di memorabile. Le sue gesta meritano di essere tramandate ai posteri, affinché si sappia che il paese può vantare tra i concittadini un supereroe.

LA FAINA. Quando porta appresso il borsello, bisogna aprire gli occhi. Probabile che, in un paio di minuti, scompaia il giornale. L’informazione è importante, specie quella locale, l’unica che realmente interessi. Una particolare convenzione con l’edicolante preserva infatti dal rischio di ritrovarsi senza quotidiano nei giorni di retate importanti o fatti di cronaca nera in zona. C’è anche quello che, se ti distrai un attimo, sfila dall’espositore sul bancone un pacco di caramelle o di gomme da masticare. Ed è convinto che ti abbia fregato, solo perché tu lo lasci perdere.

IL POLITICO. Da quando sono in auge i tecnici, è stato soppiantato da un’altra figura: l’economista. In ogni caso, ha la ricetta pronta per ogni tipo di problema. Dal comune al Parlamento europeo, siamo rappresentati da una manica di incompetenti e di ladri, feccia da mettere al muro. Al loro posto farebbe però lo stesso, perché tanto “se non rubi tu, ruba un altro”. Una logica impeccabile, che giustifica il livello infimo del suo senso etico (“lo fanno tutti”; “tutti colpevoli, nessun colpevole”).

IL SOPRAMMOBILE. Non consuma, non partecipa a nessun gioco, non fa niente. Al massimo, guarda la televisione, senza neanche capirci molto. Però è sempre presente. In un mondo senza più punti di riferimento, costituisce una rara certezza. Lo alzi, togli la polvere e lo risistemi al suo posto. Ormai fa parte dell’arredamento, come il frigorifero dei gelati o l’espositore delle patatine.

LO SCROCCONE. Passa e ripassa tremila volte davanti al bar, aspettando l’attimo in cui individua la potenziale vittima. In realtà, con quello che costa la benzina, gli converrebbe fare da sé, e magari offrire lui. Il piano B è invece più temerario e spinge il nostro fino ai tavoli di gioco per salutare, nella speranza che qualcuno gli chieda “prendi qualcosa?”. Fatica sprecata, con gente ormai scafatissima.

IL LATIN LOVER. Quando ancora esisteva il telefono a gettoni, passava ore e ore a bisbigliare parole incomprensibili, coprendosi la bocca con la mano (molto prima di Fabio Capello e Antonio Cassano), sempre sul punto di strangolarsi col filo della cornetta. Oggi è diverso. Quando gli parte la suoneria di “ai se eu ti pegu”, cerca la complicità del tuo sguardo per comunicarti la fatica di essere Casanova.

IL TUTTOLOGO. È l’evoluzione del “politico”. Altrimenti noto come “la Treccani”, è in grado di guidare le conversazioni più disparate, dalla fotosintesi clorofilliana ai fiumi dell’Asia. Ha però fortemente accusato il colpo dell’avvento di internet. Con la possibilità di verificare in tempo reale ogni sua “pillola di saggezza”, l’autorevolezza è andata a farsi benedire, soppiantata da irriverenti sghignazzate.

IL MESSICANO [amarcord]. Amante della siesta pomeridiana, l’abbiocco post-prandiale sempre in agguato. Una specie ormai in via di estinzione, che ha goduto del massimo splendore negli anni Ottanta. Ne contammo fino a nove, in un caldo pomeriggio di quasi estate, ronfanti sulle sedie, a bocca aperta.

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Oggi è così

Avrei un miliardo di cose da dire, ma con quel miliardo non riempirei neanche una minima parte del buco che ho dentro.
Magari un’altra volta, oggi è così.

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8 marzo

L’ammetto: l’8 marzo è una ricorrenza che abolirei. Nonostante la storia di emancipazione che impregna tale data, non ha molto senso perché è sotto gli occhi di tutti che le donne sono discriminate quotidianamente, sui luoghi di lavoro e altrove; sono le principali vittime nei casi di violenza familiare; devono sudare il doppio per avere la metà di un maschio.
Abolirei l’8 marzo perché ogni giorno dovrebbe essere festa della donna. Per lo stesso motivo sono contrario alle quote rosa, che mi sanno di attrazione da circo Barnum. In una società moderna, dovrebbe andare avanti chi ha merito, indipendentemente dal sesso. Come la gran parte delle ricorrenze, l’8 marzo è il festival dell’ipocrisia, un lavarsi la coscienza per ricominciare, il 9, a prendere a calci in culo le donne, metaforicamente e non.
Ho avuto (e ho) la fortuna di avere a che fare con donne straordinarie. E ho potuto constatare che le donne generalmente hanno una marcia in più rispetto agli uomini. Sanno essere un treno, non si fermano di fronte a niente e a nessuno, hanno un’energia incredibile. Forse per questo sento particolarmente il tema e mi intrigano le storie che hanno come protagoniste le donne, siano esse mamme, nonne, sorelle, amiche, compagne, mogli, figlie, nipoti. Si chiamino “Roger” o “Martina”. Ce la facciano o meno ad ottenere quello che desiderano.
Come nella canzone di Francesco De Gregori Compagni di viaggio, tratta dall’album Prendere e lasciare (1996). La storia di un uomo e di una donna che non riescono a stare insieme nonostante l’amore che li lega e che Enrico Deregibus (Francesco De Gregori. Quello che non so, lo so cantare, Giunti editore, 2003) ha paragonato a “una Rimmel vent’anni dopo […], frammenti, poco definiti e molto definitivi di una storia, cocci difficili da riattaccare. […] Sgoccioli di un rapporto di coppia, lividi che si sovrappongono sull’anima”. Forse sto andando “fuori traccia”. O forse no, perché quel “sarà sempre tardi per me quando ritornerai” dice molto sulle donne e difficilmente avrebbe potuto pronunciarlo un uomo.

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E le abitudini cambiano

Due settimane fa sono state sessanta primavere per Vasco Rossi, l’unica vera leggenda rock italiana. E con questo incipit mi gioco la simpatia dei fans di Ligabue, anche se sinceramente ho sempre pensato che la rivalità tra i due sia un’invenzione giornalistica. Comunque sia, rispetto per il lavoro del Liga, ma Blasco è Blasco. Ho avuto modo di assistere a concerti di entrambi. Non c’è partita. L’adrenalina che trasmette l’artista di Zocca ti rimane in corpo per una settimana. L’unica similitudine possibile riguarda semmai la rispettiva recente produzione, che non mi sembra all’altezza degli anni d’oro. Ma questa è un’impressione personale, alimentata forse anche dall’età, che non è più quella in cui Ogni volta e Canzone (la mia preferita) accompagnavano le mie giornate. Non so dire se sono io ad essere invecchiato, se Vasco si è imbolsito, o se siamo tutti e due da rottamare. Fatto sta che mi sono fermato all’album Nessun pericolo per te (1996). Da lì in avanti, credo sia diventato un altro Vasco, un po’ monumento di se stesso, al quale non sono più riuscito a stare dietro. Nonostante diverse altre belle canzoni e una presenza scenica sempre in grado di suscitare intense emozioni.
L’ho “conosciuto” attorno ai 12 anni. Me lo “presentò” alla sala biliardi di mio padre un ventenne, tirando fuori dal taschino del giubbotto di jeans la musicassetta di Non siamo mica gli americani, album inciso almeno cinque anni prima e celebre per Albachiara. Aveva già fatto in tempo a classificarsi penultimo (!) al Festival di Sanremo con Vita spericolata (1983), ad essere arrestato per droga (1984) e ad accrescere a dismisura la fama di esempio da non imitare. Con Luis cominciammo a comprare le sue musicassette (Carosello, dalla caratteristica custodia arancione), ma poi acquistammo anche i dischi, perché il vinile è uno stile di vita. Nella nostra classifica “rossiana” del tempo, per me al primo posto c’era Albachiara; per mio fratello, che è sempre stato molto più rock di me, Siamo solo noi, compreso il dito medio sbattuto in faccia al mondo. In camera avevamo un poster che lo ritraeva nella sua classica posa, con una mano appoggiata sull’asta del microfono. Non chiedetevi quante locandine ci fossero nella nostra stanzetta. Tanti. Pink Floyd, James Dean, Rambo, Bruce Springsteen, Rummenigge, un boxer (che anticipò l’arrivo di Eros) e altre che “ruotavano”: Maradona, per esempio, che adoravo nonostante la mia fede nerazzurra. A differenza della Juve di Platini e Boniek (mamma) e del Milan di Sacchi (Mario), che pure ho dovuto tollerare, attaccati accanto allo sguardo triste di Ayrton Senna. E fortuna che avevamo la possibilità di dirottare nella sala biliardi tutto il resto: l’Italia Mundial ’82 (in cornice), l’Inter dei record, Ivan Lendl, Gianni Bugno e molti altri miti dello sport.
Vasco è stato la colonna sonora della nostra gioventù. Andava bene quando eravamo innamorati, delusi, incazzati (quante volte ho urlato Portatemi Dio); quando volevamo fare i pazzi (Sensazioni forti) o gli strafottenti, perché la vita è questa e bisogna viverla andando “al massimo”; quando tutto sembrava congiurare contro di noi (Lunedì) e cedevamo al fatalismo (Anima fragile). Sotto la “nostra” panchina in piazza, uno di quei giorni in cui un adolescente vorrebbe soltanto sprofondare, scrissi con un colore a spirito nero le strofe finali di Canzone: “e intanto i giorni passano/ ed i ricordi sbiadiscono/ e le abitudini cambiano”. Quella scritta non c’è più, come la panchina e la pavimentazione, sostituite quando la piazza fu ampliata e completamente rifatta. E come quel ragazzo, che ogni tanto riaffiora dal passato e si lascia abbracciare dalla struggente nostalgia di Vivere.

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