Tutti colpevoli

Nell’indifferenza generale, è di oggi la notizia del nono suicidio dall’inizio del 2024 nelle carceri italiane, ventitreesimo decesso se sommato ai quattordici “per altre cause”. Uno al giorno in quella che è, ormai da tempo, una contabilità drammatica: 157 morti nel 2023 (69 suicidi, più 88), 171 nel 2022 (84 più 87).
Questi freddi numeri dovrebbero spingere la politica ad intervenire, ma la sensazione è che la situazione dei penitenziari sia vissuta con un fastidio generale. Il lato buio della luna non interessa a nessuno e chi solleva la questione – per senso di umanità o semplicemente perché sa di cosa parla – nella migliore delle ipotesi è considerato un idealista; nella peggiore, un colluso della “feccia umana” che popola le nostre carceri.
Non ci sono distinguo che tengano. Detenuti psichiatrici che non dovrebbero stare in carcere, ma da qualche altra parte? Balle. Lo sanno tutti che molti detenuti si fingono pazzi pur di ottenere qualche beneficio o sconto di pena. E pazienza se Matteo si è impiccato, mantenendo la promessa fatta ai familiari. Malati? Ancora balle. La gente è capace di tutto pur farla franca: anche inventarsi una qualche patologia utile per ottenere la certificazione di incompatibilità con il regime carcerario. Tossicodipendenti? Peggio per loro, avrebbero dovuto tenersi alla larga da certa robaccia.
Un detenuto fragile ha molte ragioni per togliersi la vita e pochissime per tentare di restarvi aggrappato. La dignità calpestata quotidianamente, in una situazione di oggettiva spersonalizzazione che inizia non appena varca il cancello del carcere. Il recluso è un numero di matricola, un pacco senza voce. Ciò che era “fuori” rimane un ricordo lontano, da sopprimere per non impazzire. Deve adattarsi alla nuova realtà, e farlo in fretta. Altrimenti non potrebbe resistere alle ispezioni corporali e alla perdita della sua intimità, alla guardia che dallo spioncino lo osserva mentre è sotto la doccia in mutande o gli punta la torcia contro la testa sul cuscino, nel cuore della notte. Né potrebbe accettare la convivenza con altri quattro, cinque o più detenuti in pochi metri quadrati: uno spazio talmente angusto da non riuscire a stare tutti in piedi contemporaneamente. Non potrebbe resistere a muffa e umidità, all’acqua sporca del rubinetto, al gelo dell’inverno e all’afa dell’estate, alla frutta immangiabile.
Nessuno ascolta l’uscente garante nazionale delle persone private della libertà, quando snocciola i dati della vergogna e denuncia lo spaventoso sovraffollamento penitenziario: 60.382 persone, a fronte di una capienza effettiva di 47.300 posti disponibili.
Nessuno ascolta Rita Bernardini e Roberto Giachetti, quando iniziano lo sciopero della fame (il “Grande Satyagraha”: il digiuno introdotto da Gandhi come forma di lotta non violenta), dando seguito a quanto deliberato nel dicembre scorso dal X congresso di Nessuno Tocchi Caino.
L’Italia è il Paese delle emergenze a favore di telecamere. In carcere le telecamere non ci entrano e ciò che non si vede non esiste. Nessuno ascolta, nessuno vede. Ma non per questo si è meno colpevoli.

Condividi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *