Redemption Song

Oggi Bob Marley avrebbe compiuto ottant’anni. Come molti miti ci ha lasciati ancora giovane, a trentasei anni nel 1981. D’altronde, si sa, “gli eroi son tutti giovani e belli” (La locomotiva, Francesco Guccini). C’è stato un momento preciso nel quale le sue parole mi hanno aiutato a sperare, facendomi sentire libero anche quando libero non ero, in un afoso pomeriggio di fine luglio. Tra gente impegnata a riempire in qualche modo giornate sempre uguali.

«Riusciamo finalmente ad organizzare una partita di calcio, nel cortile grande. Mi sembra di essere tornato ragazzino, quando davo calci al pallone ovunque: in piazza, nei cortili, in pineta, per strada. Giochiamo cinque contro cinque, le porte sono dipinte sul muro. Come nel film “Ragazzi fuori”, di Marco Risi.
Le squadre sono multietniche. I ragazzi di colore, nigeriani, sono strutturalmente piazzati bene: alti, grossi e palestratissimi. Tutti i giorni dedicano qualche ora agli esercizi fisici nelle “palestre” improvvisate in cella. Tre giocano nella mia squadra. Domenique somiglia al giocatore del Milan, Kessie. Patrick a fine partita mi chiede l’età e pompa il mio ego osservando che gioco proprio bene. Piccole soddisfazioni. Con Luky ogni tanto facciamo anche una partita a scopone nella saletta.
Quasi tutti i giorni i detenuti nigeriani intonano qualche pezzo di Bob Marley mentre giocano a carte. Durante un’esecuzione sono intervenuto per sostenere che, secondo me, la più bella canzone del mito giamaicano è “Redemption Song”. La canto insieme a Luky: “Won’t you help to sing/ these songs of freedom/ ’cause all I ever have/ redemption songs”.
Chissà quando arriverà per me il canto della liberazione».
(Luglio 2020)

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Sette mesi in cella per errore. Lo Stato risarcisce Forgione

Articolo di Simona Musco (Il Dubbio, 25 gennaio 2025)
Ha trascorso sette mesi in carcere ingiustamente, a causa di uno scambio di persona che poteva essere chiarito con una semplice perizia fonica, che ha chiesto sin dal primo momento. E cinque anni dopo, la Corte d’Appello di Reggio Calabria ha risarcito Domenico Forgione, storico calabrese, giornalista e autore di diversi saggi, accusato ingiustamente di associazione mafiosa.
Forgione era finito agli arresti il 25 febbraio 2020, giorno in cui in cui gli abitanti di Sant’Eufemia d’Aspromonte, poco meno di 4mila anime in provincia di Reggio Calabria, hanno visto portar via in manette il sindaco, il vicesindaco, il presidente del consiglio comunale e lui, consigliere di minoranza. Forgione si è però sempre dichiarato estraneo ad ogni accusa, fornendo prove e documenti della sua innocenza. La sua posizione si trovava in sole 17 pagine su 4mila, in un’intercettazione tra tre soggetti, uno dei quali è tale “Dominique”. Lui, nato in Australia, tra gli affetti più cari è conosciuto proprio con questo nomignolo. Ma l’uomo intercettato non era lui.
Da qui la richiesta immediata di una perizia fonica, mai concessa causa covid. La difesa, allora, ne produce una propria, comparando l’interrogatorio di garanzia con l’audio dell’intercettazione. E il risultato è scontato: la voce non è la sua. Ma non solo: il giorno in cui “Dominique” viene intercettato, infatti, Forgione è a giocare una partita di calcetto. E non ci sarebbe il tempo materiale per arrivare al ristorante dove i tre conversanti si trovano. La perizia arriva solo a settembre, usando lo stesso metodo utilizzato dalla difesa. E il risultato è identico: la voce non è la sua. Così, sette mesi dopo, Forgione esce dal carcere e la sua posizione, dopo poco, viene archiviata. Sebbene sarebbe bastato poco per evitare un trauma inutile.
La Corte d’Appello di Reggio Calabria, il 23 dicembre scorso, ha dunque accolto la richiesta di risarcimento presentata dall’avvocato Pasquale Condello, riconoscendo il danno subito a causa della ingiusta custodia cautelare nell’ambito dell’operazione “Eyphemos”. «Ad avviso della Corte – si legge nell’ordinanza -. non sono rinvenibili nella condotta del ricorrente profili di colpa grave ostativi al riconoscimento dell’indennizzo». Forgione, infatti, sia in sede di interrogatorio di garanzia che durante l’interrogatorio del 14 dicembre 2020 davanti al pm, chiesto dallo stesso Forgione dopo la chiusura delle indagini, «ha sempre professato la propria estraneità agli addebiti contestati, affermando di non essere lui il “Dominique” dialogante nelle conversazioni captate, fornendo specifiche spiegazioni in ordine alle condotte contestate e respingendo con fermezza gli addebiti mossi nei suoi confronti». Inoltre, a sostegno della propria versione, «aveva prodotto documentazione probatoria e adottato sin da subito un comportamento collaborativo».
Quanto al pregiudizio subito, la Corte ha adeguato la somma liquidata con una maggiorazione per «le sofferenze morali patite a causa della diffusione mediatica dell’arresto». A ciò si aggiunge «il maggior patimento che è disceso a Forgione dall’aver sin da subito professato la propria estraneità ai fatti e dall’essersi adoperato in tal senso, anche attraverso la sua difesa». Un aumento motivato anche dal “disturbo d’ansia con stress psicofisico e deflessione dell’umore” sviluppato a seguito dell’arresto.
Infine, la Corte ha riconosciuto anche il danno all’immagine conseguente allo “strepitus fori”, data la diffusione mediatica della notizia del suo arresto. «Nella valutazione di detto pregiudizio, infatti, non potrà non considerarsi la gravità dell’ipotesi delittuosa prospettata a carico del ricorrente e l’attività di giornalista pubblicista esercitata dallo stesso – si legge -. È evidente, pertanto, la maggiore propagazione mediatica della notizia derivata dalla notorietà del personaggio, necessariamente e intrinsecamente connessa alla “visibilità” e “popolarità” che caratterizza il ruolo di giornalista esercitato da Forgione e la relativa categoria professionale di appartenenza».
«Il cratere aperto dalla bomba che mi è esplosa dentro il 25 febbraio 2020 non si chiuderà mai – commenta al Dubbio Forgione -. Prendo atto dell’accoglimento dell’istanza, ma non posso nascondere che si è rotto qualcosa a livello sentimentale nei confronti di uno Stato che, pur avendo riconosciuto l’errore, è stato ed è capace di una violenza cieca nei confronti dei suoi cittadini. Ho toccato con mano e l’unico aspetto positivo della mia vicenda sta proprio nella consapevolezza della necessità di denunciare una giustizia che spesso si rivela ingiusta, con il corollario di un trattamento penitenziario disumano. Ma delle condizioni carcerarie, della barbarie della carcerazione preventiva, degli abusi delle misure di prevenzione, realmente non importa quasi a nessuno. L’Italia non sarà mai un Paese normale fino a quando ci sarà questa destra, capace solo di introdurre nuovi reati e di proporre la costruzione di nuove prigioni per risolvere il problema del sovraffollamento carcerario, e questa sinistra ipocrita, pronta a cavalcare l’onda giustizialista per qualche misero voto in più».

Sito originale: Il Dubbio (Sette mesi in cella per errore. Lo Stato risarcisce Forgione)

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Il calendario del Dado Galeotto

Dado Galeotto è il protagonista del calendario da tavolo di Ristretti Orizzonti, appuntamento ormai tradizionale per chi si occupa di tematiche carcerarie. Ristretti Orizzonti è un bimestrale che racconta la vita del carcere, scritto da persone detenute e edito dall’associazione Granello di Senape di Padova. L’associazione è attiva nella promozione di percorsi di reinserimento dei detenuti, fedele al significato della parabola biblica: il più piccolo dei semi diventa una pianta sui cui rami gli uccelli si posano. Attività portata avanti anche da AltraCittà, cooperativa padovana nella quale sono occupati una quarantina di ex detenuti: lavoro per conto terzi, legatoria e cartotecnica artigianale, rilegatura e restauro libri, servizi archivistici, gestione biblioteche, digitalizzazione.
Alla rivista si affianca il progetto “A scuola di libertà”, grazie al quale ogni anno circa 5.000 studenti entrano in carcere e i detenuti nelle scuole, alla ricerca di un dialogo necessario per comprendere che le persone non sono il reato commesso e che il superamento dello stigma può dare buoni risultati nella prevenzione dei reati.
Nella cooperativa AltraCittà lavorava come grafico il freelance Graziano Scialpi, entrato in carcere nel 1996 e morto nel 2010 per un tumore al polmone diagnosticato con molto ritardo, dopo una serie di rifiuti alle richieste di essere sottoposto a visita medica: si sa, chi in carcere dice di stare male è soltanto un simulatore.
Redattore di Ristretti Orizzonti e “disegnatore per caso”, Scialpi è stato il creatore di Dado. Le sue vignette avvalorano le celebri parole di Dostoevskij («La tragedia e la satira sono sorelle e vanno di pari passo; tutte e due prese insieme si chiamano verità») e raccontano il carcere con l’arma dell’ironia, facendo ridere e riflettere su tematiche gravi e ataviche: sovraffollamento, autolesionismo, benefici, recidiva, rieducazione e reinserimento sociale.
Nel 2008 Scialpi ribadiva la necessità di «Fare in modo che il carcere, se ci deve essere, abbia un senso. Perché, così come è ora, il carcere genera esso stesso vittime, ed è da questo dato di fatto che bisogna partire». Diciassette anni dopo, il carcere in Italia non è cambiato di molto. Il dossier “Morire di carcere”, aggiornato quotidianamente da Ristretti Orizzonti, dimostra che il 2024 è stato l’anno peggiore, con 90 suicidi e 156 detenuti morti per “altre cause” (malattia, overdose, omicidio, cause “da accertare”). E l’inizio del 2025, con già 19 decessi registrati in totale, non sembra affatto indicare un’inversione di tendenza.
Chi entra in carcere si scontra con una realtà che stride con il dettato costituzionale. Il calendario accende i riflettori, sensibilizza: «Il Dado Galeotto – ha dichiarato Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti e responsabile del volontariato nazionale nelle carceri – ci ricorda che le condizioni del carcere non migliorano. I numeri del sovraffollamento e dei suicidi crescono drammaticamente. Questo calendario è uno strumento di denuncia e speranza».

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L’intima gioia

In un celebre esperimento del 1971, lo psicologo Philip Zimbardo e un team di ricercatori ricrearono nei sotterranei dell’Università di Stanford (California) le condizioni di una prigione. Tra 70 studenti furono selezionati 24 volontari, valutati idonei dopo essere stati sottoposti a diversi test della personalità, i quali furono divisi casualmente in due gruppi da dodici: metà guardie e metà detenuti. L’esperimento, che doveva durare due settimane, fu interrotto dopo sei giorni, in conseguenza dei ripetuti ed eccessivi episodi di sadismo e di violenza delle guardie nei confronti dei detenuti.
L’ esperimento carcerario di Stanford aveva lo scopo di comprendere cosa spinge persone buone a diventare cattive in situazioni specifiche: «Il male – scrisse Zimbardo nel libro L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa? – è l’esercizio del potere di nuocere intenzionalmente (psicologicamente), di procurare dolore (fisicamente), o distruggere (mortalmente o spiritualmente) altri. Solo poche persone sono in grado di resistere alla tentazione di cedere al potere e al dominio».
Fatti di cronaca più o meno recenti sembrano confermare questa tesi. Da ultimo, gli abusi e le violenze emerse nell’indagine che a Trapani ha portato all’arresto di undici poliziotti penitenziari e alla sospensione dal servizio di altri quattordici.
Il clima politico e culturale, d’altronde, alimenta gli istinti più bassi nell’approccio alle tematiche dell’esecuzione della pena e, più in generale, alle problematiche carcerarie. Indignarsi per le condizioni disumane delle carceri italiane, per il loro sovraffollamento, per gli 81 suicidi da gennaio ad oggi, è impopolare e non porta voti. Ha più appeal la logica securitaria del “buttare le chiavi” e l’idea che fare soffrire chi finisce in carcere, in fondo, è del tutto naturale. Se la sono cercata. E pazienza se il detenuto sta già scontando il reato commesso con la privazione della libertà: l’ulteriore e gratuita afflizione dell’offesa alla dignità umana non desta scandalo.
Il sottosegretario alla Giustizia Andrea Del Mastro Delle Vedove, evidentemente, è dello stesso avviso: «L’idea – ha dichiarato in occasione della presentazione della nuova auto per il trasporto dei detenuti – di vedere […] come noi non lasciamo respirare chi sta dietro quel vetro oscurato, è sicuramente per il sottoscritto un’intima gioia». Poiché qualcuno gli ha fatto notare la bestialità dell’affermazione, si è corretto precisando che si riferiva ai detenuti mafiosi.
Il sottosegretario, che pure dovrebbe esserne a conoscenza, non sa o fa finta di non sapere che nelle carceri italiane ci sono migliaia e migliaia di “presunti” mafiosi che in realtà non lo sono, come spesso viene certificato dalle archiviazioni e dalle assoluzioni successive all’arresto. Innocenti che soltanto in virtù dello stigma del 416 bis subiscono umiliazioni quotidiane, che nelle “traduzioni” sono costretti a tenere le manette, fino a provocarsi profondi solchi sui polsi al termine di un viaggio di centinaia di chilometri, in furgoni-fornaci nei quali sono tenuti chiusi i bocchettoni dell’aria climatizzata nel vano posteriore, quello riservato ai detenuti. Che vengono fatti scendere nei piazzali delle aree di servizio e accompagnati in bagno come asini alla cavezza. Che si ritrovano in celle di sosta dall’aria irrespirabile per l’umidità, tra cartacce sporche di escrementi.
Il problema, in realtà e purtroppo per Del Mastro e per quelli che la pensano come lui, è più complesso. L’umanità è un valore universale e prescinde dalla dicotomia innocente/colpevole. Per molti il ragionamento è complicato, ma secoli di cultura giuridica – compendiati nell’articolo 27 della Costituzione italiana (“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”) – affermano proprio questo.
La grandezza di una democrazia e dei suoi rappresentanti è tutta qua. La miseria di certe dichiarazioni, anche.

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Una giustizia disumana non è giustizia

Bastassero l’indignazione e la rabbia. L’indignazione per i 165 morti in carcere, dal primo gennaio ad oggi, in un Paese sedicente civile, vigliacco di fronte all’emergenza drammatica che si vive quotidianamente nei penitenziari italiani. Dove, secondo i dati di “Ristretti Orizzonti”, nel 2024 sono già 67 i detenuti che si sono tolti la vita (due in meno rispetto a tutto il 2023), mentre altri 98 sono deceduti per “altre cause” (ben oltre i morti registrati nell’intero anno passato). La rabbia nei confronti di una classe politica imbelle, a destra come a sinistra pronta a strumentalizzare fatti e persone per puro calcolo politico, a seconda che si trovi al governo o all’opposizione. Perché il dato incontrovertibile è che nessuno ha mai fatto niente per porre fine alla sistematica violazione dei diritti umani che si verifica nelle carceri italiane, certificata da un sovraffollamento medio del 130% e dall’insufficienza cronica di personale penitenziario e sanitario. Lo stiamo vedendo in questi giorni: ogni ipotesi deflattiva, anche di infima entità, diventa una “svuota-carceri”.
«Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo», stabilisce l’articolo 40 del codice penale, richiamato da “Nessuno tocchi Caino” nella denuncia-esposto-provocazione contro il ministro della Giustizia Nordio e i sottosegretari Delmastro Delle Vedove e Ostellari, le figure istituzionali sulle quali ricade la responsabilità della custodia dei soggetti ristretti in carcere.
Gonfiamo il petto per “la Costituzione più bella del mondo” e non siamo capaci di difenderla da chi la calpesta, nonostante dovrebbe rappresentarne spirito e applicazione: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità». Umanizzazione delle pene, lo suggerisce la parola stessa, significa considerare il detenuto una persona, non un anonimo numero di matricola. Si dimentica o non si vuole comprendere che in carcere entra l’uomo, non ciò che di illecito ha commesso. Il reato resta fuori dalla recinzione, a nutrire l’autocompiacimento dei legni dritti. Chi non è mai entrato in un carcere non ha idea di quante vite un “delinquente” possa salvare, con un gesto o con una parola.
“Le” pene (non “la” pena), afferma la Costituzione. Che non dovrebbero pertanto consistere esclusivamente nella reclusione in carcere. Che potrebbero essere altro. Che sarebbe meglio fossero altro, come anche le statistiche sulle recidive suggeriscono. Misure diverse non vuol dire “tutti liberi”, né che chi sbaglia non debba pagare. Se la finalità delle pene è tutelare la sicurezza pubblica evitando il reiterarsi di comportamenti contrari alla legge, esistono oggi strumenti di controllo efficacissimi, che non richiedono necessariamente la detenzione carceraria.
Manca il coraggio per riuscire a superare la visione carcerocentrica dell’esecuzione penale. Stare dalla parte dei reietti non porta voti. Mentre si propone di costruire più strutture penitenziarie (tra due, tre anni), di carcere si muore. L’ingiustizia di una giustizia disumana è in questi numeri drammatici e nella responsabilità di chi consente afflizioni gratuite, inutili, ignobili.

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Condannati a morire in cella: quando lo Stato dimentica i detenuti malati

Novanta morti all’anno. Uno ogni quattro giorni. Una strage di malati che si consuma tra le sbarre delle carceri italiane nel silenzio quasi assoluto. Già fanno fatica a guadagnare qualche titolo di giornale i casi, più eclatanti, dei suicidi: già 32 in questo infausto primo quadrimestre del 2024. Figurarsi lo spazio che possono ricevere i detenuti morti nei penitenziari italiani per “cause naturali”: il conteggio di Ristretti Orizzonti è al momento fermo a quota 44. Uomini e donne senza volto e senza nome, per i quali non è concesso il sentimento dell’umana pietà. Un dato che in realtà sarebbe ancora più drammatico, se solo si potesse disporre dei numeri sui decessi che avvengono quando, finalmente, vengono applicati gli articoli 146 e 147 del codice penale sul differimento della pena per le persone gravemente ammalate, che finiscono per morire poco dopo il loro arrivo a casa. I fautori del “buttate le chiavi”, cinicamente, sostengono: sarebbero morte ugualmente. Eppure è notoria la correlazione tra stato detentivo e scatenamento o peggioramento delle malattie.
In prigione si muore di infarto, per le complicazioni di patologie mal curate, per malattie croniche. Muoiono i giovani; ma ancor più – è ovvio – muoiono gli anziani. In carcere si muore da soli, senza il conforto di un familiare, perché lo Stato italiano non riesce a conciliare il diritto soggettivo di morire dignitosamente con la pulsione securitaria di una larga fetta della popolazione.
Le ragioni di questa ecatombe sono molteplici. Il pregiudizio per il quale il detenuto che lamenta qualche malessere generalmente viene considerato un simulatore in cerca di qualche beneficio. La carenza drammatica di personale e attrezzature sanitarie, più volte denunciata sulle colonne de “Il Dubbio” da Damiano Aliprandi: medici precari e difficoltà nell’assegnazione sulle 24 ore, turni infernali, con un solo infermiere responsabile anche di 600 detenuti; liste di attese infinite per visite specialistiche o interventi chirurgici. A tal proposito, dovrebbero pesare come un macigno sulle coscienze dei nostri governanti le parole severissime del garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello: «Credo che la nostra società e le nostre Istituzioni non siano rispettose dei diritti umani dei detenuti».
Non possono esserlo, quando i Tribunali si rifugiano in dichiarazioni di compatibilità con lo stato di detenzione perché “il quadro polipatologico è caratterizzato da patologie di natura cronica, certamente meritevoli di controlli periodici, alcuni anche quotidiani, agevolmente (il sottolineato è mio) gestibili all’interno del circuito penitenziario”. Così agevolmente che un detenuto può morire appena ottiene la sostituzione della misura coercitiva della custodia cautelare in carcere con quella degli arresti domiciliari, o andarci vicino.
L’accanimento dello Stato nei confronti dei detenuti malati è a volte indecente, oltre che incostituzionale, se si tiene a mente il senso di umanità cui fa riferimento l’articolo 27 della nostra Carta. Senza che si abbia nemmeno l’onestà di ammettere che in Italia è ancora in vigore la pena di morte, in una variante ipocrita, vigliacca e per questo ancora più intollerabile.

Il Dubbio, 24 aprile 2024

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La nostra Pasqua in cella con la pasta al forno di Cosimo e il limoncello di Saro

Oggi Giovanni veste l’abito buono, non la solita tuta sportiva che è la nostra divisa ufficiale. Per il passeggio nel cortile ha tirato fuori dalla “bilancetta” il maglioncino e i pantaloni che indossa nei colloqui con i familiari, ha lasciato sotto la branda le scarpe da tennis e calzato gli sneakers, ha stretto le spalle dentro un giubbottino casual invece del consueto smanicato. Invidio la sua abilità nel mettere sottovuoto i capi di abbigliamento, affinché non occupino troppo spazio nell’armadietto. Li spruzza con un po’ di profumo, li richiude nelle buste che adagia sullo sgabello e vi si siede sopra, lentamente. L’operazione dura diversi minuti, ma alla fine lo spessore non supera il mezzo centimetro.
Pure per noi carcerati è Pasqua. Nel cortile ci scambiamo gli auguri, nonostante l’anima in pena e la testa altrove. Nelle nostre case ci sarà poco da festeggiare e la metafora del Calvario vale per noi e per i nostri cari. Portiamo insieme la croce: e chissà chi ne soffre di più il peso.
In galera i giorni festivi opprimono il doppio. Non viene consegnata la posta, il gancio con l’esterno che fa sentire vivo chi si trova sepolto qua dentro e la chiusura della saletta, alla quale si può accedere per un’ora dopo il passeggio, appare un gratuito supplemento di afflizione. Usciamo dalla cella solo per le ore d’aria e, al momento di rientrare in sezione, alle quattro del pomeriggio ci diamo già la buonanotte.
Per la domenica delle Palme il cappellano ci ha fatto avere un ramoscello d’ulivo, che ha suggerito di donare ai nostri familiari. Stiamo salendo con loro l’erta del Golgota, abbiamo tutti bisogno di forza e di consolazione. Il sacerdote trova sempre le parole giuste: «Per rinascere bisogna morire». Un po’ morti lo siamo, in effetti. Ma contiamo di farcela a rinascere. Magari un po’ ammaccati, ma in piedi. Ci emozionano i suoi gesti affettuosi, ci assicurano che qualcuno pensa a noi. Oggi invierà in carcere i bignè alla crema, che consumeremo a fine pranzo con qualche fetta delle colombe pasquali acquistate e scambiate tra i detenuti. Non hanno invece superato il rigido vaglio della guardia e sono finiti nel bidone dell’immondizia del magazzino le “cimedde”, i biscotti pasquali della tradizione calabrese che un familiare aveva spedito al congiunto. Pazienza.
Qua dentro tutti dobbiamo qualcosa a qualcuno. Una pacca sulla spalla, un sorriso, una parola di conforto. Un biglietto da spedire per posta, scritto per chi vuole mandare gli auguri di buon compleanno alla figlia, o un disegno per i nipotini di qualche anziano. Riprendere in mano matita, gomma e colori, fa sudare. Ma almeno si sottrae alla monotonia parte di questo tempo vuoto.
Nei giorni scorsi in molti ci siamo “segnati” dal barbiere per una sistematina ai capelli. Bei tempi – racconta chi c’era – quando la sezione ebbe la fortuna di avere tra i detenuti uno del mestiere. Ora dobbiamo accontentarci di Gigi, che di professione fa l’idraulico. Si impegna, ma i risultati non sempre sono ottimali. A sua discolpa va detto che è impossibile ottenere un’acconciatura decente con un rasoio elettrico che si inceppa di continuo e con la forbicina “Chicco”.
Gigi è anche il bibliotecario della sezione, è lui a consegnare i libri richiesti con la “domandina”. Questa mansione la svolge con molta efficienza, almeno dal nostro punto di vista. Sì, perché ad aspettare che la “domandina” venga letta e la richiesta accolta trascorrerebbero intere settimane. La richiesta alla direzione la presentiamo, ma non appena Gigi passa davanti alle celle per rientrare nella sua, o quando ci incontriamo nel cortile, gli affidiamo un “pizzino” con i titoli. Ci penserà lui a farci avere i libri, alla prima occasione utile. Un azzardo passibile di punizione, come qualsiasi azione che contrasti il regolamento.
Salvatore, il lavorante, corre lo stesso rischio quando ci fa avere i guanti in lattice da utilizzare per lavare il water con la candeggina. Sennò ci toccherebbe farlo a mani nude: inspiegabilmente, i guanti non figurano infatti tra i beni acquistabili con la spesa settimanale. Li infila nella borsa di plastica per la frutta e per il pane che lasciamo appesa al cancello della cella e noi, una volta finito il lavoro, li facciamo scomparire nel sacco della spazzatura.
Salvatore oggi sarà fondamentale. Il direttore non ha concesso la “socialità”, che permette ai detenuti di pranzare insieme nella saletta o di riunirsi a gruppi in un unico camerotto, nei giorni di festa. Sarà pertanto compito di Salvatore consegnare la pasta al forno cucinata da Cosimo e dovrà farlo in fretta, prima che anche per lui arrivi il momento di rientrare in cella. Dal suo cubicolo, Cosimo lo chiama a gran voce. Ha iniziato a preparare il pranzo due giorni fa, dopo essersi fatto prestare i fornellini da campeggio e le coppie di padelle che fungono da forno, non riuscendo altrimenti a soddisfare la vasta clientela. Un detenuto lo chiama “Alessandro Borghese”, perché è un vero fenomeno. Giorni fa ha accolto con gli occhi lucidi il disegno realizzato da un carcerato: un cappello da cuoco a strisce rosse e blu, i colori del suo Catania, accompagnato dalla didascalia “Cosimo I, Re degli Chef”.
La pasta al forno di Cosimo è un capolavoro. Ma apprezziamo anche l’assaggio di quella di Roberto, il nostro dirimpettaio che – da buon pugliese – è specializzato nella preparazione delle orecchiette con le cime di rapa. Con la cella di fronte è più facile inviarsi le pietanze, per cui spesso pranziamo “insieme”. Basta posizionare il piatto dentro un contenitore, farlo passare con molta cautela tra le sbarre e sospingerlo con la scopa fino a metà corridoio. Un’altra scopa, dalla cella di fronte, lo avvicina fino a poterlo raccogliere e il pranzo è servito.
Dopo il dolce Stefano appoggia sul tavolo un bicchierino di plastica contenente un liquido giallognolo, opera di Saro. Dice che è limoncello. Non abbiamo idea di quale surrogato abbia impiegato, visto che l’alcool puro non si può acquistare. Dividiamo la bevanda in quattro, un piccolo sorso a testa. Qualsiasi cosa stiamo bevendo, è il liquore più buono mai assaggiato in vita nostra.

Link: La nostra Pasqua in cella (ildubbio.news)

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La fattoria degli animali

Nei giorni scorsi i giornali hanno dato notizia della visita al carcere di Sollicciano da parte del ministro Salvini, il quale ha esercitato una prerogativa che è propria dei parlamentari e dei membri del governo. Un gesto certamente apprezzabile, che ha consentito al leader della Lega di verificare le condizioni di una struttura considerata tra le più invivibili a causa del sovraffollamento (aspetto comune alla quasi totalità delle carceri italiane) e per le criticità strutturali del penitenziario fiorentino: «Una struttura – riferisce il “Corriere della Sera” – che necessiterebbe di essere demolita e ricostruita ex novo, in quanto monolite in cemento armato che d’estate diventa un forno e d’inverno una sorta di ghiacciaia». L’alternanza forno/congelatore – è noto, ma a pochi importa – è una delle caratteristiche peculiari delle galere italiane. Bene, quindi, se la visita di Salvini può rivelarsi utile per accendere i riflettori sul dramma vissuto quotidianamente da decine di migliaia di detenuti senza volto e senza voce. Meno bene se, come maliziosamente sospetta l’Osapp (una sigla sindacale della polizia penitenziaria), Salvini abbia approfittato del suo status di parlamentare per fare visita al padre della sua compagna, Denis Verdini, non appena quest’ultimo è stato condotto nel carcere di Sollicciano dopo avere violato la misura degli arresti domiciliari alla quale era sottoposto. Prendendo a prestito La fattoria degli animali, con George Orwell verrebbe da dire che i detenuti sono tutti uguali, ma alcuni detenuti sono più uguali degli altri.
Si sa che il personaggio è volubile e, per questo, poco credibile anche quando apparentemente sostiene una giusta causa. Anche perché, in decenni di attività politica, Salvini ha sostenuto tutto e il contrario di tutto. La contraddizione, tra chi passa disinvoltamente dal sostegno ai referendum sulla giustizia all’invocazione di più reati e più carcere, è di facile lettura.
Con la sentenza Torreggiani, nel 2013 l’Europa ha condannato l’Italia per la violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani: «Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pena o trattamento inumani o degradanti». Non ricordo iniziative di Salvini per porre fine a questo vergognoso sconcio. Ricordo invece altre uscite, rivelatrici di ben altra sensibilità sui temi del garantismo, della giustizia e dell’esecuzione della pena.
Tra le tante, la pubblicazione delle fotografie dei presunti boss e mafiosi che nella primavera del 2020 furono scarcerati, a suo dire, “con la scusa del Covid”, sull’onda della polemica sollevata dal settimanale “L’Espresso” e dal programma televisivo “L’Arena”. In seguito si sarebbe accertato che i boss scarcerati furono tre, gravemente malati: e pazienza se tra i “boss” del post di Salvini vi era anche chi invece era stato rimesso in libertà dal Tribunale della Libertà per “evidenti ragioni di inconsistenza indiziaria”.
Dal primo gennaio ad oggi nelle carceri italiane sono stati registrati 21 suicidi, ai quali vanno aggiunti 31 decessi “per altre cause”. Una vera e propria emergenza, che in generale non sembra affatto turbare il sonno dei politici del nostro Paese. Nonostante le “visite” di Salvini.

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Tutti colpevoli

Nell’indifferenza generale, è di oggi la notizia del nono suicidio dall’inizio del 2024 nelle carceri italiane, ventitreesimo decesso se sommato ai quattordici “per altre cause”. Uno al giorno in quella che è, ormai da tempo, una contabilità drammatica: 157 morti nel 2023 (69 suicidi, più 88), 171 nel 2022 (84 più 87).
Questi freddi numeri dovrebbero spingere la politica ad intervenire, ma la sensazione è che la situazione dei penitenziari sia vissuta con un fastidio generale. Il lato buio della luna non interessa a nessuno e chi solleva la questione – per senso di umanità o semplicemente perché sa di cosa parla – nella migliore delle ipotesi è considerato un idealista; nella peggiore, un colluso della “feccia umana” che popola le nostre carceri.
Non ci sono distinguo che tengano. Detenuti psichiatrici che non dovrebbero stare in carcere, ma da qualche altra parte? Balle. Lo sanno tutti che molti detenuti si fingono pazzi pur di ottenere qualche beneficio o sconto di pena. E pazienza se Matteo si è impiccato, mantenendo la promessa fatta ai familiari. Malati? Ancora balle. La gente è capace di tutto pur farla franca: anche inventarsi una qualche patologia utile per ottenere la certificazione di incompatibilità con il regime carcerario. Tossicodipendenti? Peggio per loro, avrebbero dovuto tenersi alla larga da certa robaccia.
Un detenuto fragile ha molte ragioni per togliersi la vita e pochissime per tentare di restarvi aggrappato. La dignità calpestata quotidianamente, in una situazione di oggettiva spersonalizzazione che inizia non appena varca il cancello del carcere. Il recluso è un numero di matricola, un pacco senza voce. Ciò che era “fuori” rimane un ricordo lontano, da sopprimere per non impazzire. Deve adattarsi alla nuova realtà, e farlo in fretta. Altrimenti non potrebbe resistere alle ispezioni corporali e alla perdita della sua intimità, alla guardia che dallo spioncino lo osserva mentre è sotto la doccia in mutande o gli punta la torcia contro la testa sul cuscino, nel cuore della notte. Né potrebbe accettare la convivenza con altri quattro, cinque o più detenuti in pochi metri quadrati: uno spazio talmente angusto da non riuscire a stare tutti in piedi contemporaneamente. Non potrebbe resistere a muffa e umidità, all’acqua sporca del rubinetto, al gelo dell’inverno e all’afa dell’estate, alla frutta immangiabile.
Nessuno ascolta l’uscente garante nazionale delle persone private della libertà, quando snocciola i dati della vergogna e denuncia lo spaventoso sovraffollamento penitenziario: 60.382 persone, a fronte di una capienza effettiva di 47.300 posti disponibili.
Nessuno ascolta Rita Bernardini e Roberto Giachetti, quando iniziano lo sciopero della fame (il “Grande Satyagraha”: il digiuno introdotto da Gandhi come forma di lotta non violenta), dando seguito a quanto deliberato nel dicembre scorso dal X congresso di Nessuno Tocchi Caino.
L’Italia è il Paese delle emergenze a favore di telecamere. In carcere le telecamere non ci entrano e ciò che non si vede non esiste. Nessuno ascolta, nessuno vede. Ma non per questo si è meno colpevoli.

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E non è forse questo sistema carcerario una pena di morte più lenta e ipocrita?

Secondo il dossier “Morire di carcere”, costantemente aggiornato da Ristretti Orizzonti, ad oggi sono 68 i suicidi registrati in carcere nel 2023: il secondo dato più alto dal 1992, dietro soltanto alla cifra monstre del 2022, quando furono 84 i detenuti che decisero di farla finita impiccandosi con le lenzuola o inalando il gas delle bombolette dei fornelli da campeggio che si utilizzano per cucinare. Un dato drammatico, al quale vanno aggiunti gli 87 decessi per “altre cause” di soggetti anziani, malati di tumore, cardiopatici, tossicodipendenti. In totale, 155 morti “di carcere”: uno ogni due giorni e qualcosa.
Il “custos” non sa custodire. Il sovraffollamento e la penuria di figure professionali (psicologi, educatori, personale sanitario) non aiutano, né solleva il morale dei detenuti più fragili la quotidiana offesa alla dignità umana, che può manifestarsi con la mancanza d’acqua, il caldo insopportabile d’estate e il freddo gelido d’inverno, la sospensione delle attività trattamentali nei periodi festivi, alcune sadiche assurdità regolamentari.
Sulla carta, in Italia la pena di morte è stata da tempo abolita. Ma la pena che si sconta nei penitenziari fino a quando non sopraggiunge la morte, è soltanto una versione più ipocrita della pena di morte tradizionale. La sostanza non cambia.
Tra il 25 febbraio e il 16 settembre 2020, ho scritto molto. Il brano che segue risale alla metà del mese di luglio, quando un detenuto si tolse la vita nel carcere di Santa Maria Capua Vetere:

«Appuntato! Appuntato!». Sono le 22.00, nelle celle molti detenuti già dormono. Si sentono rumori fortissimi, come di una battitura in corso nel reparto dei “comuni”, nel plesso di fronte alle nostre finestre. Già due giorni fa si era verificato un episodio del genere, in tarda mattinata, quando lo stesso detenuto aveva tentato di impiccarsi utilizzando come cappio un lenzuolo annodato alle sbarre della finestra. Questa volta pare abbia raggiunto il suo scopo.
«Vergogna! Vergogna!», il grido che squarcia il buio della notte. Le guardie tardano ad intervenire, ma la protesta è indirizzata contro la mancata adozione di precauzioni nei confronti di un povero cristo che aveva già tentato il suicidio: ad esempio, assegnandogli un “piantone” per la sorveglianza e per l’assistenza. Ma sono le voci di “radio carcere”, che non posso verificare. Quel che è certo è che lo sventurato è riuscito a concretizzare il proposito suicida.
Le urla e la battitura durano una ventina di minuti, poi tra i reparti cala un silenzio di piombo. La nostra è una rabbia impotente che non può superare la recinzione del carcere.
Nessuno ascolta, nessuno può ascoltare. Neanche se si è in mille a gridare, a percuotere le scodelle, a scaraventare le brande contro il “blindo”. I detenuti sono fantasmi invisibili, le loro voci sono destinate a spegnersi nel buio. D’altronde esiste una ragione ben precisa se la stragrande maggioranza delle strutture penitenziarie sono state costruite nelle periferie delle città, in luoghi isolati che dimostrano plasticamente la distanza tra il dentro e il fuori. Sottrarre il carcere alla vista della popolazione libera rassicura sul fatto che il “male” si può circoscrivere e isolare. Quello che vi accade dentro e la sofferenza gratuita che produce non oltrepassano la recinzione: «Occhio non vede, cuore non duole».
Il giorno dopo, nessuno dice niente: né i detenuti, né tantomeno gli agenti penitenziari. Forse nel carcere subentra davvero l’abitudine, l’assuefazione alla morte. E comunque, per l’amministrazione penitenziaria, meno se ne parla, meglio è.
«Lo avevan perciò condannato/ vent’anni in prigione a marcir/ però adesso che lui s’è impiccato/ la porta gli devono aprir». Ripenso inevitabilmente ai versi della “Ballata del Michè”, alle lenti speciali che consentivano a Fabrizio De André di guardare con pietà a quest’umanità derelitta.

Link: E non è forse questo sistema carcerario una pena di morte più lenta e ipocrita? (ildubbio.news)

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