La nostra Pasqua in cella con la pasta al forno di Cosimo e il limoncello di Saro

Oggi Giovanni veste l’abito buono, non la solita tuta sportiva che è la nostra divisa ufficiale. Per il passeggio nel cortile ha tirato fuori dalla “bilancetta” il maglioncino e i pantaloni che indossa nei colloqui con i familiari, ha lasciato sotto la branda le scarpe da tennis e calzato gli sneakers, ha stretto le spalle dentro un giubbottino casual invece del consueto smanicato. Invidio la sua abilità nel mettere sottovuoto i capi di abbigliamento, affinché non occupino troppo spazio nell’armadietto. Li spruzza con un po’ di profumo, li richiude nelle buste che adagia sullo sgabello e vi si siede sopra, lentamente. L’operazione dura diversi minuti, ma alla fine lo spessore non supera il mezzo centimetro.
Pure per noi carcerati è Pasqua. Nel cortile ci scambiamo gli auguri, nonostante l’anima in pena e la testa altrove. Nelle nostre case ci sarà poco da festeggiare e la metafora del Calvario vale per noi e per i nostri cari. Portiamo insieme la croce: e chissà chi ne soffre di più il peso.
In galera i giorni festivi opprimono il doppio. Non viene consegnata la posta, il gancio con l’esterno che fa sentire vivo chi si trova sepolto qua dentro e la chiusura della saletta, alla quale si può accedere per un’ora dopo il passeggio, appare un gratuito supplemento di afflizione. Usciamo dalla cella solo per le ore d’aria e, al momento di rientrare in sezione, alle quattro del pomeriggio ci diamo già la buonanotte.
Per la domenica delle Palme il cappellano ci ha fatto avere un ramoscello d’ulivo, che ha suggerito di donare ai nostri familiari. Stiamo salendo con loro l’erta del Golgota, abbiamo tutti bisogno di forza e di consolazione. Il sacerdote trova sempre le parole giuste: «Per rinascere bisogna morire». Un po’ morti lo siamo, in effetti. Ma contiamo di farcela a rinascere. Magari un po’ ammaccati, ma in piedi. Ci emozionano i suoi gesti affettuosi, ci assicurano che qualcuno pensa a noi. Oggi invierà in carcere i bignè alla crema, che consumeremo a fine pranzo con qualche fetta delle colombe pasquali acquistate e scambiate tra i detenuti. Non hanno invece superato il rigido vaglio della guardia e sono finiti nel bidone dell’immondizia del magazzino le “cimedde”, i biscotti pasquali della tradizione calabrese che un familiare aveva spedito al congiunto. Pazienza.
Qua dentro tutti dobbiamo qualcosa a qualcuno. Una pacca sulla spalla, un sorriso, una parola di conforto. Un biglietto da spedire per posta, scritto per chi vuole mandare gli auguri di buon compleanno alla figlia, o un disegno per i nipotini di qualche anziano. Riprendere in mano matita, gomma e colori, fa sudare. Ma almeno si sottrae alla monotonia parte di questo tempo vuoto.
Nei giorni scorsi in molti ci siamo “segnati” dal barbiere per una sistematina ai capelli. Bei tempi – racconta chi c’era – quando la sezione ebbe la fortuna di avere tra i detenuti uno del mestiere. Ora dobbiamo accontentarci di Gigi, che di professione fa l’idraulico. Si impegna, ma i risultati non sempre sono ottimali. A sua discolpa va detto che è impossibile ottenere un’acconciatura decente con un rasoio elettrico che si inceppa di continuo e con la forbicina “Chicco”.
Gigi è anche il bibliotecario della sezione, è lui a consegnare i libri richiesti con la “domandina”. Questa mansione la svolge con molta efficienza, almeno dal nostro punto di vista. Sì, perché ad aspettare che la “domandina” venga letta e la richiesta accolta trascorrerebbero intere settimane. La richiesta alla direzione la presentiamo, ma non appena Gigi passa davanti alle celle per rientrare nella sua, o quando ci incontriamo nel cortile, gli affidiamo un “pizzino” con i titoli. Ci penserà lui a farci avere i libri, alla prima occasione utile. Un azzardo passibile di punizione, come qualsiasi azione che contrasti il regolamento.
Salvatore, il lavorante, corre lo stesso rischio quando ci fa avere i guanti in lattice da utilizzare per lavare il water con la candeggina. Sennò ci toccherebbe farlo a mani nude: inspiegabilmente, i guanti non figurano infatti tra i beni acquistabili con la spesa settimanale. Li infila nella borsa di plastica per la frutta e per il pane che lasciamo appesa al cancello della cella e noi, una volta finito il lavoro, li facciamo scomparire nel sacco della spazzatura.
Salvatore oggi sarà fondamentale. Il direttore non ha concesso la “socialità”, che permette ai detenuti di pranzare insieme nella saletta o di riunirsi a gruppi in un unico camerotto, nei giorni di festa. Sarà pertanto compito di Salvatore consegnare la pasta al forno cucinata da Cosimo e dovrà farlo in fretta, prima che anche per lui arrivi il momento di rientrare in cella. Dal suo cubicolo, Cosimo lo chiama a gran voce. Ha iniziato a preparare il pranzo due giorni fa, dopo essersi fatto prestare i fornellini da campeggio e le coppie di padelle che fungono da forno, non riuscendo altrimenti a soddisfare la vasta clientela. Un detenuto lo chiama “Alessandro Borghese”, perché è un vero fenomeno. Giorni fa ha accolto con gli occhi lucidi il disegno realizzato da un carcerato: un cappello da cuoco a strisce rosse e blu, i colori del suo Catania, accompagnato dalla didascalia “Cosimo I, Re degli Chef”.
La pasta al forno di Cosimo è un capolavoro. Ma apprezziamo anche l’assaggio di quella di Roberto, il nostro dirimpettaio che – da buon pugliese – è specializzato nella preparazione delle orecchiette con le cime di rapa. Con la cella di fronte è più facile inviarsi le pietanze, per cui spesso pranziamo “insieme”. Basta posizionare il piatto dentro un contenitore, farlo passare con molta cautela tra le sbarre e sospingerlo con la scopa fino a metà corridoio. Un’altra scopa, dalla cella di fronte, lo avvicina fino a poterlo raccogliere e il pranzo è servito.
Dopo il dolce Stefano appoggia sul tavolo un bicchierino di plastica contenente un liquido giallognolo, opera di Saro. Dice che è limoncello. Non abbiamo idea di quale surrogato abbia impiegato, visto che l’alcool puro non si può acquistare. Dividiamo la bevanda in quattro, un piccolo sorso a testa. Qualsiasi cosa stiamo bevendo, è il liquore più buono mai assaggiato in vita nostra.

Link: La nostra Pasqua in cella (ildubbio.news)

Condividi

La fattoria degli animali

Nei giorni scorsi i giornali hanno dato notizia della visita al carcere di Sollicciano da parte del ministro Salvini, il quale ha esercitato una prerogativa che è propria dei parlamentari e dei membri del governo. Un gesto certamente apprezzabile, che ha consentito al leader della Lega di verificare le condizioni di una struttura considerata tra le più invivibili a causa del sovraffollamento (aspetto comune alla quasi totalità delle carceri italiane) e per le criticità strutturali del penitenziario fiorentino: «Una struttura – riferisce il “Corriere della Sera” – che necessiterebbe di essere demolita e ricostruita ex novo, in quanto monolite in cemento armato che d’estate diventa un forno e d’inverno una sorta di ghiacciaia». L’alternanza forno/congelatore – è noto, ma a pochi importa – è una delle caratteristiche peculiari delle galere italiane. Bene, quindi, se la visita di Salvini può rivelarsi utile per accendere i riflettori sul dramma vissuto quotidianamente da decine di migliaia di detenuti senza volto e senza voce. Meno bene se, come maliziosamente sospetta l’Osapp (una sigla sindacale della polizia penitenziaria), Salvini abbia approfittato del suo status di parlamentare per fare visita al padre della sua compagna, Denis Verdini, non appena quest’ultimo è stato condotto nel carcere di Sollicciano dopo avere violato la misura degli arresti domiciliari alla quale era sottoposto. Prendendo a prestito La fattoria degli animali, con George Orwell verrebbe da dire che i detenuti sono tutti uguali, ma alcuni detenuti sono più uguali degli altri.
Si sa che il personaggio è volubile e, per questo, poco credibile anche quando apparentemente sostiene una giusta causa. Anche perché, in decenni di attività politica, Salvini ha sostenuto tutto e il contrario di tutto. La contraddizione, tra chi passa disinvoltamente dal sostegno ai referendum sulla giustizia all’invocazione di più reati e più carcere, è di facile lettura.
Con la sentenza Torreggiani, nel 2013 l’Europa ha condannato l’Italia per la violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani: «Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pena o trattamento inumani o degradanti». Non ricordo iniziative di Salvini per porre fine a questo vergognoso sconcio. Ricordo invece altre uscite, rivelatrici di ben altra sensibilità sui temi del garantismo, della giustizia e dell’esecuzione della pena.
Tra le tante, la pubblicazione delle fotografie dei presunti boss e mafiosi che nella primavera del 2020 furono scarcerati, a suo dire, “con la scusa del Covid”, sull’onda della polemica sollevata dal settimanale “L’Espresso” e dal programma televisivo “L’Arena”. In seguito si sarebbe accertato che i boss scarcerati furono tre, gravemente malati: e pazienza se tra i “boss” del post di Salvini vi era anche chi invece era stato rimesso in libertà dal Tribunale della Libertà per “evidenti ragioni di inconsistenza indiziaria”.
Dal primo gennaio ad oggi nelle carceri italiane sono stati registrati 21 suicidi, ai quali vanno aggiunti 31 decessi “per altre cause”. Una vera e propria emergenza, che in generale non sembra affatto turbare il sonno dei politici del nostro Paese. Nonostante le “visite” di Salvini.

Condividi

Tutti colpevoli

Nell’indifferenza generale, è di oggi la notizia del nono suicidio dall’inizio del 2024 nelle carceri italiane, ventitreesimo decesso se sommato ai quattordici “per altre cause”. Uno al giorno in quella che è, ormai da tempo, una contabilità drammatica: 157 morti nel 2023 (69 suicidi, più 88), 171 nel 2022 (84 più 87).
Questi freddi numeri dovrebbero spingere la politica ad intervenire, ma la sensazione è che la situazione dei penitenziari sia vissuta con un fastidio generale. Il lato buio della luna non interessa a nessuno e chi solleva la questione – per senso di umanità o semplicemente perché sa di cosa parla – nella migliore delle ipotesi è considerato un idealista; nella peggiore, un colluso della “feccia umana” che popola le nostre carceri.
Non ci sono distinguo che tengano. Detenuti psichiatrici che non dovrebbero stare in carcere, ma da qualche altra parte? Balle. Lo sanno tutti che molti detenuti si fingono pazzi pur di ottenere qualche beneficio o sconto di pena. E pazienza se Matteo si è impiccato, mantenendo la promessa fatta ai familiari. Malati? Ancora balle. La gente è capace di tutto pur farla franca: anche inventarsi una qualche patologia utile per ottenere la certificazione di incompatibilità con il regime carcerario. Tossicodipendenti? Peggio per loro, avrebbero dovuto tenersi alla larga da certa robaccia.
Un detenuto fragile ha molte ragioni per togliersi la vita e pochissime per tentare di restarvi aggrappato. La dignità calpestata quotidianamente, in una situazione di oggettiva spersonalizzazione che inizia non appena varca il cancello del carcere. Il recluso è un numero di matricola, un pacco senza voce. Ciò che era “fuori” rimane un ricordo lontano, da sopprimere per non impazzire. Deve adattarsi alla nuova realtà, e farlo in fretta. Altrimenti non potrebbe resistere alle ispezioni corporali e alla perdita della sua intimità, alla guardia che dallo spioncino lo osserva mentre è sotto la doccia in mutande o gli punta la torcia contro la testa sul cuscino, nel cuore della notte. Né potrebbe accettare la convivenza con altri quattro, cinque o più detenuti in pochi metri quadrati: uno spazio talmente angusto da non riuscire a stare tutti in piedi contemporaneamente. Non potrebbe resistere a muffa e umidità, all’acqua sporca del rubinetto, al gelo dell’inverno e all’afa dell’estate, alla frutta immangiabile.
Nessuno ascolta l’uscente garante nazionale delle persone private della libertà, quando snocciola i dati della vergogna e denuncia lo spaventoso sovraffollamento penitenziario: 60.382 persone, a fronte di una capienza effettiva di 47.300 posti disponibili.
Nessuno ascolta Rita Bernardini e Roberto Giachetti, quando iniziano lo sciopero della fame (il “Grande Satyagraha”: il digiuno introdotto da Gandhi come forma di lotta non violenta), dando seguito a quanto deliberato nel dicembre scorso dal X congresso di Nessuno Tocchi Caino.
L’Italia è il Paese delle emergenze a favore di telecamere. In carcere le telecamere non ci entrano e ciò che non si vede non esiste. Nessuno ascolta, nessuno vede. Ma non per questo si è meno colpevoli.

Condividi

E non è forse questo sistema carcerario una pena di morte più lenta e ipocrita?

Secondo il dossier “Morire di carcere”, costantemente aggiornato da Ristretti Orizzonti, ad oggi sono 68 i suicidi registrati in carcere nel 2023: il secondo dato più alto dal 1992, dietro soltanto alla cifra monstre del 2022, quando furono 84 i detenuti che decisero di farla finita impiccandosi con le lenzuola o inalando il gas delle bombolette dei fornelli da campeggio che si utilizzano per cucinare. Un dato drammatico, al quale vanno aggiunti gli 87 decessi per “altre cause” di soggetti anziani, malati di tumore, cardiopatici, tossicodipendenti. In totale, 155 morti “di carcere”: uno ogni due giorni e qualcosa.
Il “custos” non sa custodire. Il sovraffollamento e la penuria di figure professionali (psicologi, educatori, personale sanitario) non aiutano, né solleva il morale dei detenuti più fragili la quotidiana offesa alla dignità umana, che può manifestarsi con la mancanza d’acqua, il caldo insopportabile d’estate e il freddo gelido d’inverno, la sospensione delle attività trattamentali nei periodi festivi, alcune sadiche assurdità regolamentari.
Sulla carta, in Italia la pena di morte è stata da tempo abolita. Ma la pena che si sconta nei penitenziari fino a quando non sopraggiunge la morte, è soltanto una versione più ipocrita della pena di morte tradizionale. La sostanza non cambia.
Tra il 25 febbraio e il 16 settembre 2020, ho scritto molto. Il brano che segue risale alla metà del mese di luglio, quando un detenuto si tolse la vita nel carcere di Santa Maria Capua Vetere:

«Appuntato! Appuntato!». Sono le 22.00, nelle celle molti detenuti già dormono. Si sentono rumori fortissimi, come di una battitura in corso nel reparto dei “comuni”, nel plesso di fronte alle nostre finestre. Già due giorni fa si era verificato un episodio del genere, in tarda mattinata, quando lo stesso detenuto aveva tentato di impiccarsi utilizzando come cappio un lenzuolo annodato alle sbarre della finestra. Questa volta pare abbia raggiunto il suo scopo.
«Vergogna! Vergogna!», il grido che squarcia il buio della notte. Le guardie tardano ad intervenire, ma la protesta è indirizzata contro la mancata adozione di precauzioni nei confronti di un povero cristo che aveva già tentato il suicidio: ad esempio, assegnandogli un “piantone” per la sorveglianza e per l’assistenza. Ma sono le voci di “radio carcere”, che non posso verificare. Quel che è certo è che lo sventurato è riuscito a concretizzare il proposito suicida.
Le urla e la battitura durano una ventina di minuti, poi tra i reparti cala un silenzio di piombo. La nostra è una rabbia impotente che non può superare la recinzione del carcere.
Nessuno ascolta, nessuno può ascoltare. Neanche se si è in mille a gridare, a percuotere le scodelle, a scaraventare le brande contro il “blindo”. I detenuti sono fantasmi invisibili, le loro voci sono destinate a spegnersi nel buio. D’altronde esiste una ragione ben precisa se la stragrande maggioranza delle strutture penitenziarie sono state costruite nelle periferie delle città, in luoghi isolati che dimostrano plasticamente la distanza tra il dentro e il fuori. Sottrarre il carcere alla vista della popolazione libera rassicura sul fatto che il “male” si può circoscrivere e isolare. Quello che vi accade dentro e la sofferenza gratuita che produce non oltrepassano la recinzione: «Occhio non vede, cuore non duole».
Il giorno dopo, nessuno dice niente: né i detenuti, né tantomeno gli agenti penitenziari. Forse nel carcere subentra davvero l’abitudine, l’assuefazione alla morte. E comunque, per l’amministrazione penitenziaria, meno se ne parla, meglio è.
«Lo avevan perciò condannato/ vent’anni in prigione a marcir/ però adesso che lui s’è impiccato/ la porta gli devono aprir». Ripenso inevitabilmente ai versi della “Ballata del Michè”, alle lenti speciali che consentivano a Fabrizio De André di guardare con pietà a quest’umanità derelitta.

Link: E non è forse questo sistema carcerario una pena di morte più lenta e ipocrita? (ildubbio.news)

Condividi

“Natale in carcere”. Non è un cinepanettone, ma un incubo reale

Il mio articolo per “Il Dubbio” di oggi

È arrivato di colpo l’inverno. Si sapeva che sarebbe successo, come ogni anno. E infatti, chi utilizza stufe o termo-camini per riscaldare la propria abitazione, generalmente già in estate provvede alla scorta di legna o di pellet. Per non farsi trovare impreparati, sorpresi dalle temperature che improvvisamente diventano rigide. Così come sono già pronti coloro che utilizzano il metano o il GPL. Al limite, una controllatina alla caldaia, ma niente di più. Non ti temiamo, generale inverno.
Poi, il 27 di novembre, mentre nel “mondo di fuori” già si è avanti con gli addobbi natalizi, capita di entrare in un carcere (Casa Circondariale di Lecce) e si sbatte forte con il muso contro la disumanità dei regimi carcerari.
Negli “Hotel a cinque stelle” ancora si soffre il gelo, a meno di un mese da Natale. Non nella sala colloqui, quella è riscaldata. Un familiare non nota niente di anomalo. Anzi, ha quasi caldo. Nelle celle invece non è così. I detenuti si arrangiano come possono. Insomma: indossano qualche maglia in più, tengono in testa il berretto di lana giorno e notte, cercano di stare sotto le coperte il più possibile, per evitare gli spifferi delle finestre e le correnti d’aria che attraversano i pochi metri quadrati tra i lettini. Raschiano il fondo del barile del loro proverbiale spirito di adattamento.
Però, quanta pena e quanta rabbia. Tenere tra le mani una mano gelida. Sentire all’abbraccio guance e orecchie freddissime. Fisime da garantisti, si dirà. Mica vorrebbero davvero un albergo i delinquenti che si trovano in regime di custodia carceraria. Anche quelli non ancora condannati in via definitiva, che poi anche questi sarebbero esseri umani. Colpa loro, se ne facciano una ragione. Giovani e vecchi. Se ce la fate, sopravviverete. Altrimenti, sono problemi vostri.
E invece è un problema di tutti noi e dello stato del diritto all’interno delle carceri. È il problema delle parole della “più bella costituzione del mondo” smentite dalla realtà: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità» (articolo 27, terzo comma).
È una questione che poco ha a che fare con la pena, che già si sta scontando o addirittura (per in non definitivi) si sta anticipando, in molti casi gratuitamente. È il sadismo delle troppe afflizioni aggiuntive perpetrate da uno Stato sulla carta democratico. Qualcosa di profondamente ingiusto. La vergogna di uno Stato che non “custodisce” e che si fa barbaro e tribale.
Non è vero che la tortura è stata abolita in Italia. Basta entrare in un carcere per capirlo.

Link: “Natale in carcere”. Non è un cinepanettone, ma un incubo reale

Condividi

Bisogna vedere

L’odore del carcere rimane nelle narici, persiste alle docce e al tempo che scorre. Un tanfo di chiuso, una miscela di umidità, cibi cucinati, fumo di sigarette, afrore di corpi costretti in spazi angusti. La casa circondariale di Vibo Valentia non fa eccezione. Anzi. Le infiltrazioni d’acqua si accertano a vista d’occhio, i muri scrostati e le ampie chiazze di muffa ricordano che ci troviamo in un luogo di pena. Ma un luogo, per essere di pena, deve presentare condizioni di vivibilità disumane, da bestie? Non è già la privazione della libertà una pena sufficiente? Ulteriori e gratuite afflizioni non aggiungono niente, semmai tolgono. La dignità.
Il lungo tour di Nessuno Tocchi Caino nelle carceri calabresi ha fatto proprio ieri tappa a Vibo. Una delegazione di iscritti guidata da Rita Bernardini, Sergio D’Elia ed Elisabetta Zamparutti, insieme al garante regionale dei diritti delle persone detenute Luca Muglia e a rappresentanti delle camere penali vi ha trascorso oltre quattro ore, nel corso delle quali ha incontrato la direttrice dell’istituto, il comandante della polizia penitenziaria, il dirigente sanitario e visitato infine alcune sezioni.
Per me si trattava di mantenere la promessa silenziosa di tre anni fa: «In carcere ci tornerò da cittadino libero». Così è stato e non posso che ringraziare NTC per avermi dato questa opportunità, che è soprattutto desiderio di non dimenticare, di separare con il cribro dell’umanità il bello dal brutto, di provare a trasformare una vicenda personale dolorosa in qualcosa di utile.
Su “La Stampa” di oggi, Mattia Feltri scrive che “il nostro Stato è indecente con i suoi cittadini privati della libertà”. A volte ciò accade per la disumanità dell’uomo, altre per criticità strutturali come quelle riscontrate a Vibo, che vanificano il lodevole impegno della sua direttrice: un edificio fatiscente a soli ventisei anni dalla sua inaugurazione, la cronica carenza di agenti e un’area sanitaria al collasso, nonostante l’eroismo dell’esiguo personale sanitario.
Vibo non è un carcere, è un lazzaretto abitato per quasi la metà della sua popolazione da detenuti psichiatrici, tossicodipendenti e soggetti affetti da patologie con le quali già fuori si ha difficoltà a convivere. Figuriamoci in un posto governato da “domandine” alle quali non si sa mai se e quando qualcuno risponderà. Un universo di detenuti e “detenenti” (copyright di Marco Pannella) dolente e ai più sconosciuto.
Il tempo in carcere non esiste, forse per questo gli orologi con il datario nei corridori sono fermi ad ore e date diverse da sezione a sezione. È un tempo morto, ucciso dall’inedia e dalla successione di giorni sempre uguali, consumati nell’attesa di qualcosa: la telefonata a casa, l’arrivo del pacco, la visita familiare o dell’avvocato. Un lento stillicidio di minuti che è tutto nell’andatura dei detenuti nel cortile per il passeggio: una vasca di cemento che uomini in tuta e scarpe da tennis percorrono con passo regolare avanti e indietro o in senso circolare, come nella celebre “ronda dei carcerati” di Van Gogh.
Visitiamo l’isolamento, la media e l’alta sicurezza. L’isolamento è un girone infernale umido e ammuffito, squallida la saletta della socialità completamente spoglia, senza neanche una sedia. Come ovunque, molti detenuti riconoscono Rita, la chiamano per nome e le sottopongono problematiche varie. Lei prende appunti, pone domande, spiega cosa si può fare, lascia il suo recapito e chiede di essere contattata. Molti carcerati non sono consapevoli di avere dei diritti che possono e devono rivendicare. Il giovane sconfortato al pensiero della vita sfuggitagli di mano, ma fiero per avere ricevuto due encomi in altrettanti concorsi di poesia, quando ci allontaniamo accenna un sorriso.
I detenuti hanno fame di parole, da pronunciare e da ascoltare. Ogni volta che riescono ad incontrare qualcuno proveniente dal mondo di fuori, è una ventata d’aria fresca che li fa sentire vivi.
Nell’alta sicurezza l’accoglienza è calorosa. Il camerotto a sei posti è troppo piccolo, ma ci stiamo lo stesso, seduti sugli sgabelli e in piedi. La cella è un po’ buia perché la luce entra a fatica dalla finestra coperta da teli e indumenti stesi ad asciugare. La terza branda di un letto a castello è una mensola del supermercato, da lì un detenuto prende i pacchi di patatine che apre per noi, mentre un altro prepara il caffè sul fornellino da campeggio. Dividiamo i panini distribuiti dall’amministrazione carceraria, come in un rito sacro: «Dai, mangiate, così non andate via».
Nella media sicurezza incontriamo un signore di 87 anni. Che ci fa in carcere un vecchio quasi novantenne? Qualsiasi reato abbia commesso, dovrebbe esserci un modo per fargli scontare la pena altrove. C’è il detenuto che ha salvato dal suicidio il compagno di cella, afferrandolo in tempo prima che il nodo al collo lo strangolasse. Fuori non si ha idea dell’umanità possibile in un posto che l’immaginario collettivo considera abitato da diavoli. L’istantanea finale ha il volto desolato del detenuto che non riesce ad ottenere un permesso di avvicinamento in un carcere vicino a casa, per potere così fare il colloquio con i familiari e riabbracciare il figlio, dopo quattro anni e mezzo.
Il 27 ottobre saranno trascorsi settantacinque anni dal monito rivolto da Piero Calamandrei ai colleghi deputati: «In Italia il pubblico non sa abbastanza che cosa siano certe carceri italiane. Bisogna vederle, bisogna essere stati, per rendersene conto». Bisogna vedere, sì. E bisogna raccontare.

Condividi

Sperare contro ogni speranza

Di carcere non si interessa nessuno, a parte i radicali e la chiesa. Due realtà lontanissime che si ritrovano dalla stessa parte nella denuncia del carcere come discarica sociale, mattatoio dei diritti e della dignità umana. La parola d’ordine di Nessuno Tocchi Caino, associazione radicale che ha come mission l’abolizione della pena di morte, della pena fino alla morte e della morte per pena, è “spes contra spem”: speranza contro ogni ragionevole speranza, come Abramo che “ebbe fede sperando contro ogni speranza”. E pure biblica è la suggestione evocata dal nome: «Il Signore pose su Caino un segno, perché non lo colpisse chiunque l’avesse incontrato».
Ieri mattina si è svolta presso la concattedrale di Palmi la terza tappa della “Peregrinatio Crucis”, una cerimonia liturgica analoga a quelle celebrate nei due giorni precedenti dai detenuti dell’alta e della media sicurezza del penitenziario di via Trodio. La Croce della Misericordia, benedetta da Papa Francesco il 14 settembre del 2019, è stata dipinta da una volontaria e dai detenuti del carcere di Paliano (FR). Le immagini rappresentano la liberazione di Pietro e di Paolo dalla prigione, le donne che vivono nelle carceri con i loro bambini, i volontari che incontrano i detenuti. Ai piedi del Cristo, il popolo orante: detenuti, polizia penitenziaria e volontari; in alto, San Basilide (patrono della polizia penitenziaria) e San Giuseppe Cafasso (patrono dei carcerati e dei condannati a morte). Una seconda croce, invece, è stata realizzata dai detenuti del carcere di Palmi.
Ho partecipato alla liturgia e mi ha onorato il gesto di don Silvio Mesiti, che ha voluto che fossi io a leggere la preghiera finale. Bisogna sempre sforzarsi di trovare il bello anche laddove tutto sembra brutto: è stato questo, tre anni fa, il senso del mio incontro con don Silvio e quello con la grande umanità (inspiegabile per chi non ha “visto”) di gente confinata nel limbo spazio-temporale di un luogo di pena e di sofferenza.
Appena rientrato a casa ho ricevuto la visita del postino, il quale mi ha consegnato la tessera di Nessuno Tocchi Caino per l’anno 2023, accompagnata da una lettera: «Nei 365 giorni di un anno, almeno la metà li viviamo nelle carceri. “Guai a distrarsi un attimo dalla attenzione sul carcere”, ripeteva spesso Marco Pannella. Perché è diventato un luogo non solo di privazione della libertà, ma spesso anche della salute e della vita. Una istituzione anacronistica, uno spazio e un tempo fuori dal mondo e fuori dal tempo, dove si infliggono pene corporali e quei trattamenti inumani e degradanti che nella storia dell’umanità abbiamo abolito. Schiavitù, tortura, pena di morte, manicomi, lazzaretti, li abbiamo superati a uno a uno e li abbiamo concentrati in un luogo solo: il carcere».
La singolare coincidenza accaduta ieri mi ha fatto pensare proprio a questa insolita alleanza tra due mondi distanti, ma uniti nel contrapporre alla barbarie il diritto, alla disumanità la compassione, alla vendetta la misericordia, alla morte la vita.

La Croce realizzata dai detenuti del carcere di Paliano e benedetta da Papa Francesco
La Croce realizzata dai detenuti del carcere di Palmi
Condividi

Direttore, concedimi una telefonata

Con 84 detenuti che hanno deciso di togliersi la vita, il 2022 è stato l’anno dei suicidi in carcere. Circa uno ogni quattro giorni. Un dato allarmante che giustifica la preoccupazione di coloro che si occupano di carcere e di diritti dei carcerati, come l’associazione Antigone, secondo la quale nei penitenziari si registra una percentuale di ben 16 volte superiore rispetto al mondo esterno. Una vera e propria emergenza, “che quasi nessuno vuole vedere”, denuncia Ornella Favero (presidente della Conferenza nazionale volontariato giustizia e direttrice di Ristretti Orizzonti) in una lettera aperta ai direttori penitenziari.
L’appello sposa le parole dello psichiatra Diego De Leo, per ribadire il dato di fatto che il mantenimento delle relazioni familiari è fondamentale per mitigare l’opprimente senso di solitudine di chi soffre la condizione carceraria: «Aumentare le opportunità di comunicazione e le connessioni con il mondo “di fuori” non solo renderebbe più tollerabile la vita all’interno dell’istituto di detenzione, ma sicuramente aiuterebbe nel prevenire almeno alcuni dei troppi suicidi che avvengono ancora nelle carceri italiane».
Paradossalmente, nella primavera del 2020 l’emergenza Covid aveva portato ad un miglioramento rispetto a quanto previsto dall’ordinamento penitenziario del 1975 e dal regolamento di esecuzione del 2000, che concedevano ai detenuti comuni una sola telefonata a settimana di 10 minuti (due mensili ai reclusi dell’Alta sicurezza). Alcuni penitenziari erano infatti riusciti a garantire una telefonata al giorno, oltre alla videochiamata settimanale sostitutiva dei colloqui in presenza (in alcune carceri anche due).
L’incremento delle telefonate fu in quella circostanza un provvedimento saggio, adottato dal DAP per raffreddare il clima arroventato a causa delle rivolte innescate dalla sospensione delle visite familiari. Un’esperienza da valorizzare come “buona prassi”, in riferimento al concetto di umanità della pena. Negare al detenuto il conforto dei propri affetti è infatti un’afflizione gratuita, imposta a chi sta già saldando con la privazione della libertà il debito che ha nei confronti della giustizia. Al netto, ovviamente, di chi paga senza avere commesso alcun reato, come troppo spesso accade con la carcerazione preventiva. E al di là della considerazione che un ambiente di lavoro più sereno conviene agli stessi operatori penitenziari, i quali ne traggono beneficio in termini di stress ridotto e di minori problemi di sicurezza.
Per queste ragioni, Favero si rivolge ai direttori penitenziari chiedendo se non sia «motivo “di particolare rilevanza” l’aver chiuso il 2022 con 84 suicidi» e conclude la lettera aperta con un accorato invito: «Gentili direttori, non fateci tornare al peggio del passato, usate il vostro “potere” per prevenire i suicidi con quello straordinario strumento che può essere sentire una voce famigliare nel momento della sofferenza e della voglia di farla finita». Oltretutto, ciò non comporterebbe alcun aumento di spesa per l’amministrazione penitenziaria, visto che le telefonate sono a carico dei detenuti.
La lettera aperta è stata raccolta da diverse associazioni, in particolare da Sbarre di Zucchero, la quale si è fatta promotrice della campagna “Direttore, concedimi una telefonata”. La raccolta firme sostiene il mantenimento delle telefonate quotidiane e l’adozione del progetto Zeromail, servizio informatico che comporta la riduzione dei tempi della comunicazione con i familiari o con l’avvocato e un considerevole risparmio economico.

*Per aderire alla raccolta firme, inviare una mail a sbarredizucchero@gmail.com

Condividi

Quel prezioso aiuto del “piantone” in aiuto del compagno di cella inabile

Nella quinta stazione della Via Crucis entra in scena Simone di Cirene, “un tale cha passava”, il quale viene costretto dai soldati romani ad aiutare Gesù a portare la croce fino alla collina del Golgota. L’aspetto coercitivo della vicenda narrata dagli evangelisti Marco e Matteo resta sullo sfondo. Risalta invece il carattere universale di un incontro involontario, non dissimile dai tanti che nell’arco della vita accadono tra soggetti sconosciuti, obbligati dalle circostanze a patire una sofferenza comune. “Cireneo” è infatti colui che, spontaneamente o meno non importa, assume su di sé la fatica e la pena di un altro.
La condivisione di una croce appartiene a quei gesti che sconcertano per la loro abbagliante bellezza. Non dipende dalla condizione personale dell’autore, che può a sua volta avere le spalle già gravate da un fardello proprio. È il caso dei detenuti che svolgono la funzione di “piantone” nelle carceri. Una figura preziosissima, della quale il mondo di fuori ignora l’esistenza. E che ricorre nei racconti di chi riesce a trovare bagliori di umanità in posti di frequente simili a gironi danteschi.
Nelle galere italiane vivono persone, condannate o in attesa di giudizio, non sempre totalmente autosufficienti a causa di patologie varie: in particolare, circa 600 disabili e un migliaio di ultrasettantenni che presentano malattie tipiche dell’età avanzata. “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”, prescrive il terzo comma dell’articolo 27 della costituzione, che è tuttavia scarsamente applicato nei luoghi di detenzione, al pari del diritto alla salute e – specialmente per i detenuti anziani – del principio della proporzionalità della pena e della sua funzione rieducativa.
Per questi soggetti la pena è doppia, dovendo essi scontrarsi con le molteplici criticità strutturali di edifici spesso fatiscenti: barriere architettoniche lungo il percorso (a volte lungo) che va dalla sezione al cortile del passeggio, gradini e marciapiedi malfermi, bagni inadeguati. Alla privazione della libertà si aggiunge quindi la mortificazione causata dalla perdita dell’autonomia nello svolgimento di azioni elementari.
In alcune prigioni i soggetti non autosufficienti vengono affiancati da un altro detenuto, appunto il piantone, che ha il compito di assistere e aiutare il compagno di cella nelle sue necessità personali e nelle attività che non è in grado di svolgere. Il piantone cucina, lava la biancheria, rassetta il letto, tiene pulita la cella. Sbuccia la frutta e taglia la carne: operazioni tutt’altro che semplici da realizzare con le deboli posate di plastica, per chi non può contare su una buona prensione della mano. Al pari del taglio delle unghie, al quale il piantone provvede. Accompagna l’anziano o il disabile in bagno e nelle docce comuni, nel passeggio e in infermeria, lo aiuta a vestirsi e ad allacciare le scarpe.
Non tutti i penitenziari possono contare sui fondi necessari per corrispondere il piccolo compenso destinato a queste figure, o comunque non ne dispongono a sufficienza per coprire il fabbisogno dell’istituto. Intervengono allora lo spirito di solidarietà e la legge non scritta che impone di soccorrere chi si trova in difficoltà. Per senso di umanità e per rispetto della dignità dell’individuo, che dovrebbero valere sempre e ovunque: per le persone libere così come per quelle incarcerate. Quella umanità che traspare quando, dopo avere condotto il compagno alla postazione per le videochiamate, il piantone dedica ai familiari in attesa nel display un sorriso rassicurante: «È tutto a posto, state tranquilli. Ci penso io a lui».

IL DUBBIO, 29 marzo 2023

Condividi

Ancora sulla barbarie delle intercettazioni

Grazie ad un articolo di Strettoweb, ho scoperto che ieri sera sono finito su una slide del programma Controcorrente (Rete 4). Non sono avvocato, come erroneamente riportava il cartello, ma non è ovviamente questa inesattezza che voglio commentare dopo avere guardato sul sito di Mediaset la trasmissione.
Probabilmente la redazione ha preso spunto dal mio recente articolo pubblicato su “Il Dubbio” e mi ha accostato, in maniera secondo me impropria, alla vicenda che coinvolse l’ex ministra dello Sviluppo economico Federica Guidi come esempio della stortura che a volte si registra nell’uso delle intercettazioni. Cosa che accade, ad esempio (e di questo gli ospiti in studio hanno dibattuto), quando un magistrato allega agli atti un’intercettazione di natura privata, che non ha attinenza con l’imputazione, e quando il giornalista che si ritrova quella intercettazione la pubblica sul giornale. Il dibattito, insomma, era incentrato sulla questione della pubblicazione. Per questo sostengo che la mia vicenda è stata citata in maniera impropria.
A volte mi sembra di essere un disco rotto e di questo mi scuso. Ma il mio caso ha a che fare con una questione preliminare, a monte – diciamo – dell’utilizzo delle intercettazioni: e cioè sul fatto che prima di arrestare una persona intercettata, della quale si ha la voce registrata, il minimo sindacale sarebbe di verificare se quella voce è effettivamente sua. La terribilità delle manette sta proprio nell’uso disinvolto e approssimativo degli strumenti di indagine intercettivi che caratterizzano alcune inchieste antimafia.

Link dell’articolo di Monia Sangermano per Strettoweb: Inchiesta Eyphemos, il clamoroso errore giudiziario ai danni di Domenico Forgione finisce su Rete 4

Condividi