Perché esco dal Partito Democratico

Non bisogna restare in un posto nel quale non si è più felici. Non bisogna restare in un posto nel quale, giorno dopo giorno, si è costretti a subire la mortificazione dei valori e degli ideali che hanno segnato la propria formazione civica e politica. Questo è diventato il Partito Democratico: un partito nato per fondere in un’unica formazione politica le tradizioni dei due più grandi partiti popolari della storia repubblicana si è trasformato in uno strumento di potere scollato dalla società reale, incapace di emozionare e di emozionarsi.
Esco pertanto dal Partito Democratico, a quattro anni dalla costituzione del circolo di Sant’Eufemia d’Aspromonte, che avevo promosso nel 2013 e del quale sono stato fino ad oggi segretario. Da troppo tempo i sentimenti prevalenti sono disagio e imbarazzo per ciò che il Partito Democratico è diventato a tutti i livelli, nel metodo e nel merito della sua azione. Una speranza tradita, un’occasione persa di promozione della partecipazione dei cittadini alla politica per la rappresentanza delle istanze più diffuse: «La politica – scriveva Guido Dorso – segue la logica delle occasioni sfruttate o perdute, e queste ultime costituiscono il passivo più terribile per i partiti ed i loro dirigenti».
L’esito di una gestione autoreferenziale ed autoritaria del partito ha la sua rappresentazione plastica nell’emorragia di iscritti fotografata dai più recenti tesseramenti. Invece di interrogarsi sul perché di questa fuga per tentare di porvi un argine, si è continuato a tenere la testa sotto la sabbia, a ballare tra gli specchi del salone mentre il Titanic affonda. E sì che di segnali inequivocabili, dal Referendum costituzionale alle varie tornate amministrative, gli elettori ne hanno mandati in quantità.
Arrivismo e trasformismo sono i mali storici della politica: il Partito Democratico ne rappresenta, oggi, la sintesi perfetta. Un partito che sacrifica sull’altare del potere le storie politiche dei propri militanti e che non si pone nemmeno il dubbio se sia controproducente lisciare il pelo ai tanti Verdini sparsi sul territorio. E che, defezione dopo defezione, è ormai diventato altro: un simulacro di partito, infeudato da ristretti comitati elettorali, che non discute al suo interno, né con l’esterno. Una scatola priva di identità che a livello nazionale mette la faccia su provvedimenti umilianti per i lavoratori e per le fasce più deboli; che a livello regionale rinuncia ad essere protagonista, delegando la proposta di governo ad una giunta tecnica; che a livello provinciale, nelle segrete stanze, decide sostanzialmente di fare saltare due tesseramenti (2015 e 2016: quest’ultimo raffazzonato in maniera molto discutibile e fuori tempo massimo, a pochi giorni dalle Primarie nazionali del 30 aprile 2017) e di non celebrare il Congresso di partito, perché la conta rischierebbe di fare crollare l’edificio messo in piedi nell’oramai lontanissimo 2014.
Non è questa la politica che mi ha fatto appassionare sin da ragazzo e che mi ha sempre spinto a trovare rappresentanza e collocazione in una sinistra attenta ai bisogni degli ultimi, capace di dare voce a chi voce non ha. Vado pertanto via da questo PD, senza rancore ma con tanta delusione. Rimetto il mio mandato di segretario di circolo, né intendo rinnovare la mia adesione al partito.
Riparto dalla forza identitaria di ideali che sento ancora vivi e attuali e dalla convinzione che dignità e coerenza debbano essere i valori irrinunciabili dell’agire politico.

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