Rai. Di pochi, sempre di meno

Diventa sempre più arduo ricacciare indietro il pensiero sgradevole che tra le motivazioni che spinsero Silvio Berlusconi a “scendere in campo” vi fosse lo smantellamento della televisione pubblica. Nel caso contrario, qualcuno dei dirigenti Rai succedutisi in questi anni di pseudo-concorrenza dovrebbe spiegare quale sia stata e sia la linea editoriale di Viale Mazzini. Dall’esterno, sembra la cronaca di un suicido annunciato, la declassazione e lo svilimento di un patrimonio, economico e culturale, che altrove avrebbe fatto alzare le barricate.
In Italia, invece, soltanto qualche polemica, peraltro vagamente strumentale, visto che il rapporto tra informazione e politica, pur con accenti diversi, è sempre stato problematico, al di là dell’inquilino di Palazzo Chigi. Le vette raggiunte durante l’epopea berlusconiana sono però inarrivabili. A partire dal tristemente celebre editto bulgaro che anticipò l’epurazione di Michele Santoro, Daniele Luttazzi ed Enzo Biagi, accusati di fare “un uso criminogeno della televisione di Stato”. Per proseguire con la direzione di Augusto Minzolini al tg1 e i casi eclatanti di Piero Damosso, Paolo Di Giannantonio, Tiziana Ferrario, Maria Luisa Busi. Mi è capitato, due o tre volte, di assistere a trenta secondi di Qui Radio Londra (andare oltre è umanamente impossibile), programma di Giuliano Ferrara – tra i più influenti consiglieri di Berlusconi – collocato proprio nell’orario che fu di una della trasmissioni di maggiore successo di Rai Uno, Il fatto, condotto da Biagi. Se quello di Biagi è stato un uso criminogeno, per questo di Ferrara urge un neologismo. Perché è complicato fare rientrare nella categoria del giornalismo l’apologia e la propaganda più smaccate, un pulpito dal quale si pronunciano omelie e si scagliano anatemi. Se poi si vuole ragionare in termini di ascolti, il paragone è imbarazzante. E desolante. Quando gli va bene, Ferrara racimola la metà degli spettatori che furono di Biagi. Per comprendere il gradimento di cui gode l’Elefantino, è sufficiente considerare che quasi un milione di spettatori, finito il tg1, abbandona la rete per 5 minuti (la durata del suo programma) e ci ritorna subito dopo, per vedere I soliti ignoti.
Che il gradimento e i soldi degli sponsor non stiano alla base delle scelte dei vertici Rai è evidente. Altrimenti, sulla base dei pessimi ascolti del suo telegiornale, Minzolini avrebbe fatto la valigia già da un pezzo. E per la squadra di Santoro, capace di garantire i maggiori ascolti ed incassi per Rai Due, sarebbe stato srotolato un tappeto rosso. La sostituzione di Annozero con Star Academy, già chiuso per fallimento, dice tutto sulle logiche di allestimento dei palinsesti. È facilmente prevedibile, invece, il successo di Comizi d’amore, il nuovo programma della Santoro band, in onda dal 3 novembre su una ventina di emittenti locali (tra cui Videocalabria) e sul canale 504 Sky che, al grido di “10 euro di tivvù”, ha già raccolto sottoscrizioni per 600.000 euro.
Sul cadavere della Rai svolazzano gli avvoltoi. Quello di La7, che si sta portando via tutto: l’ex direttore di Rai Tre Paolo Ruffini, Corrado Formigli, Roberto Saviano, Serena Dandini, gli spettatori. E, ovviamente, quello di Mediaset, al quale, come in una nota pubblicità, “piace vincere facile”, contro una concorrenza che, di fatto, concorrenza non è.

Condividi

Una risposta a “Rai. Di pochi, sempre di meno”

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *