La salita

Conosco metro per metro la salita che da piazza del Popolo porta all’Eremo. La percorrevo aggrappato al collo di mia mamma ed era come guardare il mondo da sopra una giostra, con l’orizzonte che si abbassa e sale. Ora più lontano, ora più vicino. Sentivo il suo cuore premere sulla mia pancia, il respiro sempre più affaticato nonostante il sorriso. Ogni tanto si fermava per riprendere fiato, mi faceva sedere su un gradino o mi appoggiava al cofano di un’auto parcheggiata sul marciapiedi. Si asciugava il sudore con un enorme fazzoletto di cotone, mi timbrava la fronte con un bacio e ripartivamo. Osservavo la sua sofferenza e il mondo attorno a lei, quel mondo che non riuscivo ad ascoltare, né a calpestare.
Dicono che le sventure non arrivano mai da sole, preferiscono la compagnia. Anche se la mia non era una disgrazia vera e propria: io non l’ho mai percepita così. Soltanto, è successo a me. Siamo percentuali di statistiche che altri più in gamba di noi spiegano e io sono l’uno su mille al quale è capitato di nascere sordo. I miei genitori se ne accorsero poco prima che compissi tre anni, insospettiti dal mio farfugliare senza senso e dai movimenti scoordinati. Accadde quando già era evidente che non era la pigrizia la causa delle mie difficoltà motorie, della posizione innaturale degli arti. Al Gaslini di Genova stabilirono che il tono muscolare dei miei muscoli era troppo basso: ipotonia. Ma con la fisioterapia avrei recuperato. Occorreva pazienza, mia mamma ne aveva. Tutte le mattine prendevamo il pullman dalla provincia al capoluogo, il mare cangiante sembrava scivolare alla nostra destra tra noi e la Sicilia. Un tempo sospeso che passavo incollato al vetro per guardare barche e onde, gabbiani e adorni prima dell’ingresso a Reggio.
Le braccia di mia mamma erano un riparo sicuro, una corazza impenetrabile dalla fermata dell’autobus all’Ortopedico. Ce l’avrei fatta a camminare e un giorno sarei stato io a sorreggerla, ad aiutarla a portare le buste della spesa, a sistemare la legna per la stufa. Sarebbe stata fiera di me e a mano a mano che facevo progressi immaginava la scena di lei orgogliosa davanti a suo padre, che non aveva voluto dare neanche un soldo per i nostri viaggi a Genova. Non valeva la pena sprecare denaro per tentare di dare forza alle gambe di un bambino nato sordo. Rimanevo pur sempre un handicappato, una vergogna da nascondere nell’angolo più buio della casa, da non mostrare in pubblico. Tantomeno da spenderci soldi per offrirgli la possibilità di frequentare bimbi “normali”, giocare e crescere insieme a loro.
– Questo è il mio campione, papà.
Mamma gli avrebbe detto proprio così: il mio campione.
Non sono figlio di un dio minore. Sono figlio di mia mamma e di mio padre. Sono figlio di mani sporche di terra e calce, di schiene piegate a raccogliere olive e a impastare cemento. Sono figlio dell’amore di chi ha infilato anche soltanto mille lire nella fessura del salvadanaio che il salumiere per anni ha tenuto accanto alla cassa. Perché Genova può essere un miraggio per chi a stento ha da mangiare.
Ogni mio passo ha avuto il sostegno di mani misericordiose e silenziose. Le “parole” e i gesti imparati dall’altra parte di un mare che non divide contengono il calore che spande da case sgarrupate. Di quello vivo, con quello riscaldo i miei giorni ora che riesco a farmi comprendere. Ora che mia madre non deve più togliere la giacca per difendere il mio viso dal freddo e dalla pioggia sferzante, su per quel cammino infinito.

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