Click

Il mio vero nome danza con il vento. Gli è stato sussurrato tempo fa mentre mi spettinava i capelli, cullato da braccia che non conoscevo. Un padre non l’ho mai avuto, nei ricordi asciutti di mia mamma si faceva vedere ogni due o tre mesi. Lei però non poteva raccontarlo a nessuno che il suo uomo era tornato a casa. Restava acquattato sotto una botola nascosta sul retro per un paio di giorni, lì gli veniva portata una scodella di kabuli pulao e un po’ di carne di pecora, poi ripartiva. Senza neanche salutare.
Per i miei fratelli nostro padre era un fagotto tiepido calato nel buio di una buca. Due occhi lucenti come stelle lontane, che non sai se vedi o stai soltanto sognando, che il bisogno di infinito rende familiari. Due mani mute e terrose che di notte arrivavano e di notte svanivano.

Avevo tre anni quando mandarono a chiamare mia madre per farle riconoscere un corpo mutilato. Era lui, saltato in aria con il furgone diretto a un campo di addestramento. Finalmente aveva coronato il sogno di diventare un martire della jihad, anche se non aveva trascinato con sé nemmeno uno degli infedeli che due giorni prima volteggiavano sopra la sua testa china e stretta tra i gomiti, inseguita dalle raffiche del mitragliatore.
Il rumore di morte delle pale che tagliano a fette l’aria faceva già parte della colonna sonora della mia vita. Cinque anni dopo mi avrebbe sorpreso blindato tra le braccia di mia mamma, il viso nel rifugio del suo seno: non avere paura, ci sono io qua.
Fui l’unico a risvegliarsi, due settimane dopo in un lettino d’ospedale. Dov’era il villaggio, un silenzioso puzzo di stantio. Mia mamma e i miei fratelli, una storia sospesa.
Per tenermi buono Steve mi faceva giocare con la digitale che riprendeva la sua vita in bilico sulla torretta di un carro armato o sorridente tra pacchi di latte in polvere e scatolette da distribuire. I bambini stanno bene ovunque, anche in una caserma di militari dall’accento sconosciuto, se qualcuno si prende cura di loro.
Oggi immagino i contorni sfuocati del vecchio Steve nell’altra parte del mondo, mentre rivela ai figli che la verità spesso è questione di grandangolo. Ripenso alle sue ultime parole prima di andare, le lacrime a solcare gli zigomi cotti dal sole: Click, questa la lascio a te.

Mi piaceva il soprannome che mi aveva dato, lo porto addosso come un mantello che mi protegge dal mio passato, dalla strada che – lei – mi avrebbe certamente scelto. E mentre cerco di stare il più vicino possibile all’orrore, affido i miei quindici anni alla buona sorte e alle mimetiche che mi circondano. A sera avrò tempo per rivivere le vite di tutti e venderle alle agenzie di stampa.
L’obiettivo della macchina fotografica sono i miei occhi. Altro non vedo, fuori dalle fiamme di un inferno che non mi spaventa più, che è la mia stessa pelle; fuori dal sangue che chiazza strade e campi, come inchiostro rovesciato a inzuppare. I colori giocosi dei fiori, il sole rosseggiante che va a dormire dietro al mare, il sorriso di perla dei bambini li fotografo di notte, quando ricamo una trama diversa unendo le crepe del soffitto.
Ma il mio destino è là fuori, annodato a questo dito che scatta e scappa, che nelle immagini della morte si ostina a cercare la vita di domani. Se vincerà il prossimo duello, mirino contro mirino.

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2 risposte a “Click”

  1. La vicenda dalla quale ho tratto ispirazione riguarda Molhem Barakat, un fotoreporter siriano morto a 17 anni ad Aleppo, nel dicembre scorso. Il racconto però è di fantasia, ho cercato di immaginare le vite e le emozioni di uno scenario di guerra

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