Centomila gavette di ghiaccio

I libri belli, appena letta l’ultima pagina, lasciano un senso di tristezza indefinibile, solitudine e domande. Raramente ho letto pagine così drammatiche. “Centomila gavette di ghiaccio” di Giulio Bedeschi (il protagonista Italo Serri) racconta la tragedia della ritirata di Russia nella seconda guerra mondiale, tema affrontato da Mario Rigoni Stern nel capolavoro “Il sergente nella neve”: 45 giorni di marcia con temperature prossime ai 50 gradi sotto lo zero, senza mangiare, senza dormire per giorni e giorni. I piedi ricoperti di stracci.
Chi ce l’ha fatta ha visto soldati cadere al proprio fianco stroncati dalla stanchezza o per congelamento. Tentare di farcela strisciando o camminando a quattro zampe sulla neve. Provare a chiudere gli occhi per pochi minuti, addormentarsi e morire assiderati. Spararsi in testa per la disperazione, per farla finita con quell’agonia. Ha mangiato mezza rapa marcia o una buccia di patata dopo giorni di digiuno sotto la tormenta. Ha camminato, camminato, camminato senz’altra prospettiva che quella di camminare per rinviare la morte di un paio d’ore o di un giorno. E ha combattuto senza riuscire a tenersi in piedi.
Centomila soldati morti in combattimento o per le ferite, per il freddo, il sonno, la fame e la stanchezza. Alcuni seppelliti, la maggior parte rimasti ai bordi delle piste e ben presto diventate mummie pietrificate. Infine i sopravvissuti oltre ogni umana possibilità di resistenza. Eppure capaci di slanci di umanità inimmaginabili: come l’alpino conducente di muli Scudrera, il personaggio che più di ogni altro mi ha emozionato, che salva dalla morte il compagno più anziano e con una numerosa prole a casa, donandogli quel pezzo di formaggio che dall’inizio della marcia teneva sotto il giaccone militare per il momento in cui neanche lui ce l’avrebbe più fatta a portare un passo dietro l’altro. E che ormai congelato egli stesso recupera chissà dove la forza per riuscire a trascinare fino alla fine la slitta portaferiti.
«Sergentmagiù, ghe rivarem a baita?» è la domanda insistente rivolta da Giuanin a Rigoni Stern, nel “Sergente della neve”. «Gli alpini arrivano a piedi/ là dove giunge soltanto/ la fede alata» sono invece i versi del “poeta” Pilòn che, in “Centomila gavette di ghiaccio”, concludono l’odissea dei soldati italiani in Russia. Arrivare: verbo di speranza, nonostante la tragedia vissuta.

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