Storia di un seme che si è fatto pianta

Erano tutte occupate le poltroncine del teatro della scuola media “Vittorio Visalli”, che ha ospitato il convegno celebrativo per i venti anni dell’Associazione di volontariato cristiano “Agape”. Una celebrazione sobria, senza alcun intento apologetico, ma – come ho avuto modo di considerare nel mio intervento – “con l’umiltà e l’orgoglio di chi è consapevole di svolgere un ruolo prezioso all’interno della comunità eufemiese”. Il tema del convegno (“Le nuove frontiere della solidarietà”) avrebbe dovuto essere svolto da due personalità di primo piano dell’associazionismo provinciale, Giuseppe Pericone e Mario Nasone, rispettivamente direttore e presidente del Centro servizi al volontariato “dei due mari” di Reggio Calabria, struttura prevista dalla legge quadro del volontariato (266/1991) per “promuovere, sostenere e sviluppare le organizzazioni di volontariato e l’associazionismo”.
Gravi problemi familiari hanno purtroppo costretto al forfait Nasone, che è anche presidente del Centro comunitario Agape di Reggio Calabria, fondato nel 1968 da don Italo Calabrò (“Amatevi tra di voi di un amore forte, di autentica condivisione di vita; amate tutti coloro che incontrate sulla vostra strada. Nessuno escluso, mai!”), e che da decenni conduce importanti battaglie per contrastare situazioni di abbandoni, abusi, devianze ed emarginazione sociale.
Il consigliere del Csv Bruno Furfari ha rivolto un breve saluto, quindi il presidente dell’Agape, Pasquale Condello, ha ripercorso i venti anni di servizio dell’associazione in favore dei soggetti più deboli ed emarginati: anziani, minori, disabili. Ha inoltre letto il saluto del fondatore don Benito Rugolino (“avete riempito il mio vecchio cuore di esultanza e vitalità”), che prima di partire per Torino (dove vive) aveva visitato la sede e si era dichiarato felice perché “il seme piantato venti anni fa è diventato una pianta robusta”.
Pericone ha raccontato una favola dei nostri giorni, protagonista un extracomunitario della rivolta di Rosarno, che si conclude con un messaggio di pace universale, da raggiungere smettendola di alzare muri e cominciando a costruire ponti.
La proiezione di un emozionante videoclip realizzato da Iole Luppino e Gina Bagnato (“Vent’anni d’amore”) che ripercorre con le immagini la storia dell’Agape, fino al recente pellegrinaggio a Lourdes, ha preceduto gli interventi del pubblico e il buffet di dolci finale. I volontari rimasti per rimettere in ordine la sala hanno poi concluso la serata con una spaghettata e una grigliata al ristorante preferito dall’associazione, “da Teresa e Vince”.

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Il vocabolario “femijotu” di Giuseppe Pentimalli

Si è tenuta ieri, presso la sala consiliare del comune di Sant’Eufemia d’Aspromonte, la presentazione del Vocabolario ragionato del dialetto femijotu, di Giuseppe Pentimalli. Positiva la risposta del pubblico, sia in termini numerici che sotto il profilo dell’interesse e dell’attenzione dimostrati per un’iniziativa partecipata da una confortante percentuale di giovani. In qualità di moderatore, ho svolto un breve intervento iniziale, al quale sono seguiti i saluti del sindaco Vincenzo Saccà, che si è soffermato sulle qualità umane e professionali dell’autore, apprezzate in anni di comune impegno politico e amministrativo. La relazione del professore Filippo Ascrizzi ha messo in rilievo la funzione e il significato di ribellione dell’uso del dialetto nei confronti della cultura dominante, mentre il professore Rosario Monterosso ha sottolineato l’importanza e l’attualità di un vocabolario dialettale nell’epoca di internet e del linguaggio sgrammaticato degli sms. Il glottologo e linguista Paolo Martino, della Lumsa di Roma, ha quindi confermato il valore scientifico e innovativo dell’opera, che “sarebbe più corretto definire dizionario etimologico”. In chiusura, l’appassionato intervento dell’autore: un’accorata difesa della cultura “bassa” nei confronti di una presunta cultura “alta”, tale per definizione, convenzione e imposizione dall’esterno. Quel che segue riproduce, più o meno, il mio intervento.

Ringrazio il professore Pentimalli per avermi coinvolto in un’iniziativa dall’elevato contenuto culturale. Relatori più competenti di me affronteranno gli aspetti tecnici e specialistici del volume. Il mio compito sarà invece quello del vigile. Quello cioè di dirigere il traffico e dare la parola ai relatori che si succederanno, provvedendo a tenere in caldo il microfono tra un intervento e l’altro.
Non essendo io un esperto della materia, credo che il professore Pentimalli abbia voluto la mia presenza per una questione di stima e di affetto, che sono reciproci. D’altronde, negli anni abbiamo avuto spesso modo di confrontarci su alcune questioni e ogni volta che ho pubblicato qualcosa, Pentimalli è stato tra i primi ad averne copia.
Ciò che penso di potere anche io sottolineare, da profano, è la caratteristica principale del vocabolario che, come dice il titolo stesso, è “ragionato”. Ciò ha comportato per l’autore, evidentemente, uno sforzo supplementare: per ogni lemma (quasi 10.000), viene spiegata l’etimologia, ma anche le trasformazioni che esso ha subito nel tempo e nella parlata comune, fino alla versione definitiva. Per questo motivo, consiglio ai fruitori del vocabolario di leggere attentamente la nota introduttiva, laddove sono contenute indicazioni preziose e fondamentali per districarsi in questa complessa materia, e rimandare ad un secondo momento la ricerca dei termini che la curiosità certamente alimenterà. Un’altra peculiarità di rilievo è la corposa Appendice, che non costituisce un riempitivo, bensì il tentativo di rinverdire una tradizione fatta di modi di dire, proverbi, locuzioni e frasi a doppio senso che vogliono contrastare il “lento e progressivo spegnimento dei dialetti” preconizzato da più parti.
Prima di cedere il microfono per il primo intervento, vorrei rubare qualche minuto per dire, fondamentalmente, due cose. La prima, sull’intellettuale “eufemiese” Giuseppe Pentimalli, quarant’anni di insegnamento, trentatré dei quali presso l’Istituto superiore “Nicola Pizi” di Palmi, come docente di latino e greco. Cultore raffinato dei classici latini e greci e della loro interpretazione, come si può apprezzare nella raccolta Le muse discinte (2006), ma anche attento studioso degli aspetti storico-sociali della storia calabrese, che hanno avuto una sistemazione organica nel libro La Calabria antica (2003), riguardante l’arco temporale che va dall’età della pietra al 1060 dopo Cristo.
Cito volutamente per ultimo il saggio La ricostruzione del paese dopo il terremoto del 1908, contenuto nel volume edito da Rubbettino nel 1997 che raccoglie gli Atti del convegno di studi per il bicentenario dell’autonomia, organizzato dall’Associazione culturale Sant’Ambrogio nel 1990. E mi accosto a questo lavoro con profondo rispetto, perché ha avuto su di me un’influenza particolare, come spunto e termine di paragone e confronto per il mio libro sulla storia politica e amministrativa di Sant’Eufemia d’Aspromonte.
Ma c’è ancora un altro aspetto della figura di Pentimalli che va messo in evidenza: l’impegno di un intellettuale calato nella sua realtà e nel suo tempo, protagonista di primo piano negli ambienti culturali eufemiesi, ma non solo, se si pensa agli anni in cui il professore ha avuto responsabilità politiche e amministrative, come sindaco del paese a più riprese (1976-79; 1985-90; 1990-92) e, più in generale, come esponente di punta della sezione locale del partito comunista italiano. In questo quadro d’insieme, va inoltre ricordato il decennio di direzione della rivista “Incontri” (1995-2005), edita dall’Associazione culturale Sant’Ambrogio, sulla quale per la prima volta, ai tempi ormai lontani del liceo, io stesso vidi pubblicato il mio primo articolo e della quale, personalmente, avverto parecchio la mancanza.
Questo è per me “Peppino” Pentimalli, uno dei migliori figli della comunità eufemiese. Riporto – vox populi, vox dei – quanto dichiarato da un mio amico quando ha saputo della pubblicazione del vocabolario: “Solo Pentimalli poteva scriverlo”. Io non lo so se poteva scriverlo solo lui. Di certo, però, l’ha fatto e credo tanto basti per tributargli un doveroso ringraziamento.

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Anni come giorni volati via

In una canzone di successo Raf si domandava cosa sarebbe rimasto degli anni ’80, il decennio che ha portato la mia generazione alla soglia della maggiore età e che, come tutto ciò che il trascorrere del tempo rende romantico e “mitico”, appartiene alla sfera dei ricordi più piacevoli.
Innanzitutto gli odori. Quello della casa di mia nonna e delle rose bianche del suo piccolo giardino. A ripensarci adesso, l’orzata che ci preparava era imbevibile. Troppo dolce. Eppure andavamo al fondo del bicchiere d’un fiato, come con la gassosa al limone Marra, di gran lunga superiore alla Romanella. Era quello il rifugio dei nipoti per un break tra un gioco e l’altro: pane con olio e sale, oppure i gelati che eravamo autorizzati a prendere a credenza da Micuzzu ’u Grugnu o da Grazia ’a Rofalazza, tanto poi la nonna saldava tutto. Di nascosto dal nonno, però, che aveva una concezione del denaro molto genovese. La pipa della Gelca gusto vaniglia ci faceva assumere pose da adulti, nonostante i sandali color cuoio con fibbia allacciata sulla caviglia e i pantaloncini extra corti da maratoneta.
A mano a mano, gli spazi da conquistare aumentarono. Il campo da gioco della “tola” – una variante del nascondino – non aveva alcun limite. Anzi, quando il ruolo di cacciatore toccava al meno sveglio del gruppo, alcuni si rifugiavano in una lontanissima sala giochi o se ne andavano addirittura a casa. Con le biciclette si girava il paese, attaccata al manubrio o sotto la sella la targhetta con il numero personalizzato: ne avevamo recuperate a decine quando distrussero – verbo quanto mai calzante – il vecchio palazzo municipale. I più audaci si spingevano fino alla ferrovia e attraversavano il ponte e la galleria, correndo all’impazzata per nascondersi nelle “nicchie” quando la littorina annunciava il suo arrivo. Era la linea (dismessa dal 1997) che da Sinopoli portava a Gioia Tauro, utilizzata dai lavoratori, da coloro che frequentavano le scuole superiori fuori paese e da chi si concedeva un colpo di vita al cinema “Sciarrone” di Palmi.
Lo sport più praticato era il calcio. In qualsiasi posto. Per strada, in pineta, al municipio, ma soprattutto in piazza, dove con Micuzzu du’ café e suo fratello si combatteva una quotidiana guerra di logoramento: noi compravamo i palloni, loro li sequestravano. Anche se potevamo contare sulla quinta colonna dei loro nipoti che spesso e volentieri riuscivano a recupere quanto ci veniva sottratto. Quando non ci era consentito utilizzare un pallone “normale” – raramente il tango, in effetti troppo pesante per giocarci in piazza: solitamente il super santos, che era migliore del super tele – ci si arrangiava con quello di spugna. Nei momenti di maggiore tensione e di divieto assoluto, andava bene anche la pallina da tennis di spugna o – incredibile, ma vero! – la lattina di una bibita schiacciata.
Il mito era Shingo Tamai, l’antenato di Oliver Hutton capace di tiri impossibili, con il pallone che si deformava per la potenza del calcio e si impennava altissimo, prima di ricadere in terra e schizzare verso la porta, imparabile, dopo un lungo vorticare. I cartoni animati erano una costante dei nostri pomeriggi: il pugile Rocky Joe; le lotte titaniche dei robot dotati di armi potentissime (l’alabarda spaziale di Goldrake, i raggi fotonici di Mazinga Z e quello protonico di Jeeg Robot d’acciaio); il fascino della cicatrice sullo zigomo di Capitan Harlock; le peripezie dello sfortunatissimo Remì; Dick Dastardly e il suo assistente sghignazzante, il cane Muttley, alle prese ora con la cattura del piccione viaggiatore, ora con le “corse pazze” contro il Diabolico Coupé, Penelope Pitstop, l’Insetto Scoppiettante e tanti altri.
Sul finire del decennio, inaspettatamente, arrivò a casa mia il motorino, un Califfo dotato di pedali che in salita non ne voleva proprio sapere di andare. Un’esperienza brevissima, conclusasi senza alcun rimpianto. Anni dopo ne ho rivisto uno simile in una televendita: lo davano in omaggio, insieme ad altri articoli, a chi acquistava una batteria di pentole e un servizio completo da tavola.

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Il grande bla bla

C’è fermento o è solo ammuina? Guardando Tizio che parla con Caio, quello all’angolo della strada che dialoga fitto con gli altri, i due compari sulla macchina in giro per il paese, le riunioni carbonare che di carbonaro hanno tutto tranne che la segretezza dei luoghi e dei partecipanti, potrebbe sembrare che siano iniziate le grandi manovre in vista delle prossime elezioni comunali. Cosa ci riserverà il futuro non è possibile prevederlo. Troppo presto, troppa confusione, troppa approssimazione. La situazione è molto fluida. Almeno, così appare. Ma può darsi che sia in proiezione il consueto spettacolo dei cineasti della politica nostrana.
L’amministrazione Saccà è ai titoli di coda ed è tempo di guardare al futuro. Qualcuno ci sta già riflettendo. Anzi non ha altro pensiero, soprattutto perché per un giro è dovuto rimanere fermo ai box, a malincuore, per un forzato pit stop. Ne ha però approfittato per riallacciare qualche contatto bipartisan. E magari ripresentarsi come il nuovo. Non sarebbe la prima volta, e non solo a queste latitudini. In genere, il nuovo che avanza ha i capelli grigi, tinti o ne possiede pochissimi.
A memoria, chi ha ambizioni esce allo scoperto dopo l’estate. L’attuale è invece la fase dei guastatori, quelli che hanno un unico scopo, bruciare le possibili candidature in modo che, alla fine, qualcuno sia “costretto” al grande sacrificio: “mi sono dovuto candidare perché me l’hanno chiesto quasi in ginocchio”. C’è chi ama corteggiare, chi preferisce essere corteggiato e chi corteggia nascondendo il volto da cacciatore dietro la maschera della preda.
Si è sfiorata una lunghissima campagna elettorale, colpa dell’eccitazione suscitata dal rinnovo del consiglio provinciale che ha risvegliato istinti da tempo in naftalina, e si sta correndo il serio rischio di ritrovarsi con più pretendenti alla poltrona di primo cittadino che elettori. Un film già visto nel 2007, con la fantomatica terza lista abortita sul nascere perché, su otto promotori, sette aspiravano al vertice dell’amministrazione comunale. Todos caballeros. Qualcuno si è perso per strada, ma molti sono ancora in pista. Bisognerebbe rendersi conto che per guadagnarsi l’investitura è indispensabile avere un esercito dietro. L’orgoglio e le ambizioni personali non possono bastare, anzi andrebbero tenuti a freno. Anche perché l’autocandidatura non è per niente chic. Un moderno Copernico direbbe che occorre partire da un gruppo e da un programma, per poi procedere alla scelta del candidato più idoneo a rappresentare entrambi. Nell’ipotesi più striminzita, servono almeno i candidati al consiglio comunale. Tutt’altro che facili da trovare, soprattutto da quando i partiti sono passati a migliore vita e la selezione del personale politico-amministrativo predilige altri strumenti, trasversali ad ogni schieramento e imperniati sul rapporto personale, familiare o clientelare.
In questa situazione, quando i soliti noti avranno preso l’iniziativa, agli altri non rimarrà che accodarsi o defilarsi. E sul ponte di comando tornerà la calma: Tutti chilli che stanno a prora vann’ a poppa e chilli che stann’ a poppa vann’ a prora…


 
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Esami di maturità, un ricordo

Ho sempre considerato a dir poco bizzarri i “quattro ragazzi con la chitarra e un pianoforte sulla spalla” cantati da Antonello Venditti. Eppure anch’io, come milioni di ragazzi prima e dopo di me, ho ascoltato fino alla nausea “notte prima degli esami” in quel lontano giugno del 1992, riavvolgendo il nastro della musicassetta e facendolo ripartire un’infinità di volte. Specialmente la notte in cui, diversamente dal principe di Condè la vigilia della battaglia di Rocroi, non riuscii a dormire “profondamente”.

Al solito, le ipotesi sulla traccia del tema d’italiano si sprecavano. Ma anche le cartucciere e la fantasia di chi le congegnava. I pochissimi che ci presentammo senza neanche un temario fummo quasi irrisi. Eravamo sicuri che, nella peggiore delle ipotesi, saremmo stati in grado di affrontare la traccia di attualità. E infatti andò così. La tensione, altissima, era per il primo vero esame della vita, non per le prove in sé.
In Italia e nel mondo stava succedendo di tutto e cominciavamo a guardarci attorno con occhi attenti. Dopo la caduta del muro di Berlino, i paesi del blocco sovietico si affacciavano uno dopo l’altro alla democrazia. Da poco più di un anno era finita la prima guerra del Golfo, contro la quale avevamo organizzato una manifestazione terminata in piazza Matteotti con la lettura al megafono di un appello (addirittura) preparato da me, Nino e Luigi. A maggio la strage di Capaci s’era portato via Falcone. A esami in corso la notizia del tritolo in via D’Amelio contro Borsellino colse in spiaggia quelli che avevamo già sostenuto l’orale, portata da una ragazza che non la smetteva più di piangere. Increduli e sgomenti ci chiedevamo: “e ora che succederà?”. Cossiga picconava il sistema politico italiano ormai prossimo all’implosione, Craxi e Andreotti pensavano di essere ancora i burattinai del potere, ma i tempi stavano davvero per cambiare.
Qualche mese prima avevamo fatto il nostro primo viaggio all’estero, destinazione Barcellona. La colonna sonora la portarono i ragazzi di Bagnara: un tributo a Freddie Mercury, morto nel novembre precedente, integrato dai Litfiba allora all’apice del successo. Anche se mio fratello ci aveva stregato con la novità del momento, Edoardo Bennato nelle vesti di Joe Sarnataro (“È asciuto pazzo ’o padrone”). Portavamo a spasso le nostre acconciature improbabili (io il ciuffo alla Nicola Berti, il mio idolo calcistico), camicie orribili e jeans accorciati selvaggiamente a dieci centimetri dalle scarpe. Per la prima volta diventammo conquistatori “in trasferta”, qualche bacio carpito sulle scale dell’albergo e storie che proseguirono nel corso della prima estate da patentati, con la possibilità – quindi – di andare al mare autonomamente, a bordo della mitica 126 blu mediterraneo di Luigi. Ben presto l’esame di maturità diventò un ricordo, come l’incubo per la prova di matematica che non riuscimmo a completare e che Luis risolse alla sua maniera con un’esibizione straordinaria davanti alla cattedra, su una gamba stile Jim Morrison nella danza dello sciamano, conclusa con l’esclamazione: “ecco il punto di equilibrio richiesto dalla traccia!”.

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La fiera del voto

L’analisi del risultato elettorale da una prospettiva comunale offre interessanti spunti di riflessione. In primo luogo, va rilevata la crescente disaffezione per l’esercizio del voto, nonostante la presenza di tematiche e attori prossimi alla cittadinanza. Su 3.852 elettori, si sono recati alle urne 2.277 eufemiesi (59,11%). Dieci punti percentuali in meno rispetto al 2006 (69,18%), quando i votanti furono 2.546 su 3.680. Se a questo dato si aggiunge il “partito” composto da coloro che hanno annullato il voto (2,98%) o hanno optato per la scheda bianca (1,62%), il livello di partecipazione si riduce ulteriormente, consegnando la fotografia di un elettorato scarsamente mobilitato.
Non è inutile interrogarsi sui motivi di questo fenomeno. Una prima considerazione: a Sant’Eufemia, la capacità aggregativa è patrimonio esclusivo dei due uomini forti della politica cittadina, il capogruppo regionale del Pdl, Luigi Fedele, e il sindaco Vincenzo Saccà, che però hanno preferito il basso profilo e sono rimasti dietro le quinte, osservatori interessati degli scenari che potrebbero schiudersi tra un anno, quando si voterà per il rinnovo dell’amministrazione comunale. Nelle passate consultazioni provinciali, entrambi avevano un candidato sul quale misurare la rispettiva forza: il fratello dell’esponente pidiellino, Giovanni Fedele, e l’allora braccio destro di Saccà, Giuseppe Gelardi. Nell’agone c’era pure l’outsider Carmine Alvaro, che alla fine la spuntò e fu eletto consigliere per i socialisti della Rosa nel pugno. Apparentemente, tutti e tre hanno assistito alla contesa comodamente seduti in poltrona. Il candidato del Pdl, Domenico Giannetta, ha infatti ottenuto il minimo sindacale (115 voti, pari al 5,34%), mentre sia Saccà che Alvaro non hanno ufficialmente sostenuto alcun candidato. Le contrade eufemiesi si sono pertanto trasformate in terra di conquista per coloro che hanno potuto contare su qualche simpatia locale. Si spiegano così i 237 voti ottenuti dal deliese Domenico Fedele, i 121 del varapodiese Orlando Fazzolari, i 78 del sindaco di Oppido, Bruno Barillaro.
Contrariamente agli umori raccolti a spoglio ultimato, non valuto negativamente la performance dei due candidati eufemiesi (non considero ovviamente Carmela Forgione, che era un riempitivo). Pietro Violi, supportato da una squadra più folta, ha ottenuto 762 preferenze (966 in tutto il collegio); Saverio Garzo, che si è mosso un po’ fuori dagli schemi tradizionali, è arrivato a 511 (734 in totale). Per entrambi era obiettivamente difficile l’approdo a Palazzo Foti. E qui si impone un’ulteriore considerazione. Fatte salve le legittime ambizioni di chiunque, sono un segno dei tempi le candidature estemporanee, non legate allo svolgimento di un’attività politica. I partiti si riducono a comitati elettorali scelti in base alle possibilità di successo che offrono, taxi sui quali consumare il viaggio della campagna elettorale prima di finire dallo sfasciacarrozze. Socialisti uniti (Violi) e Sud (Garzo) sono due simboli privi di alcun radicamento o presenza a Sant’Eufemia, fatalmente destinati a scomparire con la stessa rapidità con la quale sono apparsi qualche mese fa. I luoghi della politica, specialmente nei piccoli centri, sono ormai fuori dalle segreterie dei partiti, che neanche esistono. Sono lontani i tempi in cui si potevano contare le sedi di tutte le forze presenti nell’arco costituzionale, le palestre in cui venivano formati e selezionati i futuri amministratori, al termine di un indispensabile apprendistato. Oggi prevale l’autocandidatura: basta avere un po’ di euro da investire in manifesti, santini e incontri con gli elettori e il gioco è fatto. Ripeto: legittimo. E però viene da rimpiangere la Prima Repubblica.
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Votantonio

Non invidio affatto i cittadini di Reggio, costretti ad inventarsi gli stratagemmi più incredibili per schivare gli assalti dell’esercito di candidati che, fino al 15-16 maggio, batteranno anche le vie solitamente meno frequentate della città. La lotta per conquistare la poltrona di Palazzo San Giorgio vedrà infatti impegnati 6 candidati a sindaco, supportati da 25 liste, per un totale di 746 candidati a consigliere comunale. A cui vanno aggiunti i 224 candidati delle 28 liste per le elezioni provinciali, presenti negli 8 collegi cittadini. Quasi un candidato ogni 160 elettori.

Voci incontrollate provenienti dal capoluogo riferiscono di vere e proprie ronde impegnate in estenuanti battute di caccia, con i fiancheggiatori a fare da corona al candidato che con passo sicuro incede al centro del gruppo. È un porta a porta asfissiante, nessun campanello viene risparmiato e a tutti viene consegnato il gadget del momento: un santino il cui testo, sciolte le briglia alla fantasia, in genere viene partorito al termine di interminabili notti insonni. Irraggiungibili le vette toccate altrove (su tutte: “Michele Dell’Utri. Non sono parente” e “Fabrizio D’Addario. Non sono una escort, ma mi candido lo stesso”), ma il divertimento è comunque garantito.
Immagino il povero elettore reggino uscire dal portone della propria abitazione con fare circospetto, imbacuccato per non farsi riconoscere, a dispetto del primo caldo. Uno sguardo a destra, uno a sinistra e zac!, di corsa sulla macchina, dove finalmente può tirare un sospirone di sollievo per lo scampato pericolo, non prima però di avere bloccato gli sportelli dall’interno.
A noi eufemiesi, per questo giro, è andata meglio, unicamente perché qui si vota soltanto per la Provincia. Certo, ci sono 28 candidati, ma la maggior parte di essi sono dei perfetti sconosciuti. Non lo sono ovviamente i due compaesani, entrambi schierati con la coalizione di centrodestra che appoggia Giuseppe Raffa: Saverio Garzo (lista Sud), da decenni vulcanico organizzatore di riuscitissime iniziative estive e attualmente consigliere comunale nel comune di Asso (Como) e Pietro Violi (Socialisti uniti), a lungo presidente della Pro-Loco eufemiese. Tra gli altri aspiranti inquilini di Palazzo Foti, sono abbastanza conosciuti tre sostenitori di Raffa: l’attuale sindaco di Oppido e presidente della Comunità montana versante tirrenico meridionale, Bruno Barillaro (Udc); il suo sfidante alle passate comunali, Domenico Giannetta (Pdl); Orlando Fazzolari (Scopelliti presidente), accidentalmente vice sindaco di Varapodio, ma soltanto perché la normativa vigente vieta tre mandati consecutivi. Due i volti noti in appoggio alla coalizione di centrosinistra capeggiata dall’uscente Giuseppe Morabito: Santo Gioffrè, assessore provinciale di Rifondazione comunista e Antonio Frisina, del Pd; altrettanti a sostegno di Pietro Fuda, candidato per il terzo polo: il consigliere provinciale uscente Domenico Fedele (Fuda presidente) e l’habitué Carmelo Vitalone (Autonomia e diritti). Ha invece lasciato campo libero, preferendo non ricandidarsi, il consigliere provinciale Carmine Alvaro, eletto nel 2006 con i socialisti della Rosa nel pugno. Per la gioia dei suoi rivali, che non dovranno fare i conti con il candidato più votato a Sant’Eufemia cinque anni or sono.
Le logiche che guidano le scelte nelle elezioni locali sono essenzialmente due. Quella dell’appartenenza (o dell’ideologia, come si diceva un tempo), che vive un periodo di appannamento, e quella del rapporto personale con il candidato, magistralmente espressa dal detto: “mi suꞌ pidocchi, ma mi suꞌ di nostri”. Ma c’è anche una terza via, indicata da Enzo Jannacci e valida nei casi in cui, avendo promesso il voto a tutti, si è quasi costretti a recarsi almeno al seggio. La praticano i tanti che, ritenendo che “la politica l’è una roba sporca (…), votano scheda bianca per non sporcare”.

 

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Chi sgobba, chi ride e chi piange

Per chi non avesse consultato l’albo pretorio sul sito web, il consiglio comunale di ieri poteva benissimo rientrare nella categoria delle riunioni carbonare. E pensare che la trasparenza era stato uno dei cavalli di battaglia della campagna elettorale, quando si favoleggiava addirittura di un ufficio stampa e di pubblicazioni periodiche sull’attività amministrativa del Comune. L’affissione per le strade del paese della convocazione del consiglio comunale doveva proprio rappresentare il segnale di un nuovo corso. È stato così fino a quando (casualità?) le acque non si sono agitate e si è cominciato ad economizzare sulla carta, prima affiggendo soltanto un manifesto dentro il Palazzo municipale, quindi eliminando anche quello.
Il primo punto all’ordine del giorno prevedeva la surrogazione di Eufemia Surace, presidente del consiglio dimessasi due mesi fa nell’indifferenza più completa, come se fosse normale che tre componenti, uno dopo l’altro, abbandonino il consiglio comunale. Un dovere di chiarezza che per la verità non hanno avvertito i consiglieri dimissionari per primi, almeno pubblicamente, nemmeno nei confronti dei propri elettori.
Torna così tra i banchi comunali “mastro” Mimmo Fedele, figura storica di amministratore che, dopo mezzo secolo, tra un anno dirà addio alla politica attiva dalla poltrona di presidente del consiglio. L’apertura di una discussione infinita, con botta e risposta tra il sindaco e i consiglieri di minoranza Creazzo e Papalia, ha dato vita ad un siparietto a tratti comico. Creazzo ha vestito i panni di alzatore, secondo l’eccellente tradizione pallavolistica italiana che da Fefè De Giorgi e Paolo Tofoli conduce a Valerio Vermiglio. E il sindaco non si è fatta sfuggire l’occasione per chiudere il punto. Ma si può citare come esempio di mala amministrazione la vicenda del campo di calcetto realizzato dalla passata maggioranza, quella dei propri colleghi di lista? Una struttura non collaudata, inaugurata in pompa magna per ragioni elettorali, abbandonata a se stessa e mai utilizzata. Eppure è accaduto.
Altra bizzarria, la votazione di un “ordine del giorno sulla crisi che investe il settore dell’agricoltura”, sui contenuti del quale nessuno ha proferito parola. Cosa sia stato deliberato, in concreto, resterà un mistero. Approvati infine lo schema di convenzione per la gestione associata di una stazione unica appaltante provinciale, gli oneri di urbanizzazione e lo scioglimento della convenzione di segreteria con il comune di Melicucco.
C’è stato anche il tempo per un’escursione sul terreno spinoso della centrale per la biomassa, quella dei settanta posti di lavoro propagandati in campagna elettorale, tanto per intendersi. A Papalia viene da ridere ogni volta che se ne parla, ma i giovani eufemiesi si sganasciano di meno. Il nuovo annuncio indica ottobre come possibile data di inizio dei lavori. Un risultato costato fatica reale, secondo quanto dichiarato dal sindaco: 240 kg di carta portati personalmente dallo scantinato di un palazzo della regione all’assessorato competente. Per fare il sindaco ci vuole davvero un fisico bestiale.

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Elogio del passo

Se qualche decennio fa mi avessero detto che un giorno un’amministrazione comunale avrebbe realizzato un progetto denominato “Piedibus” per incentivare l’uso dei piedi negli spostamenti, avrei fatto la faccia smarrita e stupita di quel tale la prima volta che vide un televisore acceso, talmente scettico da andare a controllare che non ci fosse qualcuno nascosto dietro lo schermo.
È di questi giorni la notizia dell’iniziativa del comune di Polistena per promuovere, in collaborazione con il Servizio civile nazionale, la mobilità pedonale mediante l’impiego di sedici operatori che accompagneranno gli alunni dalla fermata dei bus al portone delle scuole, al fine di “diminuire il traffico davanti alle scuole, ridurre il tasso di inquinamento e stimolare l’apparato fisico-motorio dei ragazzi”. Il kit in dotazione agli studenti prevede un cappellino rosso, un ombrellino e una mantellina antipioggia.
Le finalità sono lodevoli. Riuscire a limitare gli ingorghi mostruosi che si creano davanti alle scuole avrebbe già del miracoloso. Alcune considerazioni però sono inevitabili. È vero: nelle strade i pericoli sono aumentati. Tra motorini, automobili e scatolette per minorenni spesso si ha la sensazione di avventurarsi in una giungla pericolosissima. Per i bambini delle scuole elementari potrebbe essere troppo rischioso, anche se non dimentico che piccoletti si andava all’edificio scolastico tranquillamente a piedi, ovunque si abitasse. Altri tempi, certamente. Ma quell’abitudine facilitava la socializzazione, perché lungo il tragitto si incontravano altri coetanei, la comitiva s’ingrossava e si conversava di più. La strada percorsa per anni, tutte le mattine, rappresentava metaforicamente il percorso di crescita di ogni ragazzino.
Passi comunque per le elementari. Ma per la scuola media e per il liceo? Non voglio pensare che i genitori di oggi abbiano così tanta sfiducia sulle capacità dei propri figli di attraversare incolumi la strada. Né credo che i nostri genitori ci abbiano amato di meno o siano stati degli sconsiderati. Forse si tratta più di un fatto di costume: l’uscita della scuola come luogo d’incontro e momento delle pubbliche relazioni.
Al di là di ogni possibile riflessione, va detto che una passeggiata permette di apprezzare le bellezze di un paese, di osservarne gli scorci più suggestivi. Operazione che è difficilmente realizzabile da dietro il finestrino di una macchina. Chiunque ami il proprio paese dovrebbe ogni tanto fare “quattro passi” lungo le sue strade, specialmente quelle meno battute.
Provate a introdurvi nei vicoli della Matrice, a Diambra, a Mistra, ad attraversare il ponte crollato dell’Annunziata per poi percorrere il sentiero che un tempo portava alla stazione e a Sant’Oreste. Oppure salite dal Paese vecchio al Muraglio e alla contrada Peras, da lì proseguite verso Campanella e Sorvia, alle “due gebbie”, e poi scendete, sempre attraverso la campagna, al campo sportivo. Se vi rimangono ancora fiato e gambe, da lì andate a Crasta dopo avere attraversato i “Candilisi”, passate al guado la fiumara – quando l’acqua è bassa – e andate a bere alla fontana di San Bartolo. Vi sentirete parte di una storia umana antichissima, perché è il “passo” il ritmo della poesia, il respiro dell’anima di un posto, da catturare in ogni sua pietra, tavola, mattone.

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Se gli “apprendisti Ciceroni” sono dei veri professionisti

Si sa, è impresa facilissima accendere i riflettori su quanto di negativo caratterizza la nostra società. Non c’è neanche bisogno di affannarsi più di tanto per individuare una casistica sterminata. È un vizio insano, perverso e anche un po’ masochista. Soprattutto dalle nostre parti, dove si fatica ad ammettere l’ottima riuscita di iniziative realizzate da altri: “bravi, però questo non andava e qua hanno proprio toppato: avrebbero dovuto fare così”, col timbro grave e solenne di chi ha sempre una risposta definitiva. L’arte della ricerca del pelo nell’uovo celata dietro la logica del campanile.
Riflettevo su questo ieri, mentre ammiravo la bravura di alcuni ragazzi del nostro liceo, tutt’altro che improvvisati Ciceroni della “giornata FAI di Primavera”, manifestazione giunta alla 19ᵃ edizione e quest’anno dedicata al centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia. Ho pensato anche che chi vuole smantellare la scuola pubblica è un criminale da contrastare con forza, perché quanto i visitatori hanno potuto apprezzare è il frutto della dedizione e della passione di tanti insegnanti che riescono a trasmettere alle giovani generazioni l’amore per la bellezza del patrimonio artistico, culturale, naturalistico e storico del nostro Paese.
Sotto l’alto patronato del Presidente della Repubblica, con il patrocinio del Ministero per i beni e le attività culturali e del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, e con la collaborazione della Presidenza del consiglio dei ministri – Dipartimento protezione civile, il Fondo ambientale italiano ha predisposto l’apertura straordinaria di 660 beni in tutte le regioni italiane (26-27 marzo). A Sant’Eufemia d’Aspromonte, la collaborazione con il liceo scientifico “Enrico Fermi” – in particolare con la professoressa Carmela Cutrì – ha portato alla presentazione di un itinerario storico-artistico completo, interessante e poco noto ai più, che si è sviluppato in due sedi. Il museo della civiltà contadina, diretto dall’infaticabile Caterina Iero, ha ospitato diverse sezioni: i documenti sul Risorgimento e sulla storia locale; l’esposizione dei quadri di Saverio Carbone su Garibaldi e le camicie rosse; i pannelli informativi sulla storia, le tradizioni, le arti e i mestieri; i vestiti dei nostri avi; il lavoro (attrezzi agricoli, apparecchi e arnesi tessili) e gli oggetti delle abitazioni; il tempo libero (strumenti musicali e giochi per bambini del secolo scorso). All’interno della chiesa di San Giuseppe sono stati invece allestiti dei pannelli divulgativi su alcuni artisti eufemiesi dell’Ottocento e del Novecento, tra i quali Carmelo Tripodi, Rocco e Paolino Visalli. Sono state esposte opere scovate in dimenticati ripostigli che andrebbero restaurate per essere meglio valorizzate, così come alcuni pregiati oggetti di arte sacra in oro e argento realizzati dagli antichi cesellatori del posto. In ogni sezione, la garbata presenza degli “apprendisti Ciceroni” del liceo ha costituito il valore aggiunto di un’iniziativa che meriterebbe di essere riproposta durante l’estate, in favore di un pubblico più numeroso. Preparati, spigliati, cordiali: una bella iniezione di fiducia per il futuro della nostra comunità.

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