Buona regola, oltre che misura di prudenza, è attenersi al vecchio e saggio consiglio del Trap: “non dire gatto se non ce l’hai nel sacco”. In altre parole, non bisogna mai dare nulla per scontato. Soprattutto con “lui”. Ha già dimostrato ampiamente di avere una capacità di risollevarsi degna di Amintore Fanfani, il “rieccolo” di montanelliana memoria. D’altronde, viene spesso paragonato a “Ercolino sempre in piedi”, mitico pupazzo della Galbani che più lo atterravi e più si rialzava.
Comunque, pare che ormai sia cosa fatta. Questa potrebbe essere la settimana decisiva per scrivere la parola “fine” sulla fallimentare esperienza di governo iniziata nel 2008, con la più ampia maggioranza avuta da un governo repubblicano. Il vuoto creato attorno al presidente del consiglio è palpabile. In Italia e all’estero. Nel suo stesso schieramento, è un invito sempre più insistente a farsi da parte. E non solo tra i malpancisti, quella genia di parlamentari pronti a vendere la residua dignità per un posto da sottosegretario. “Responsabili” fino a quando hanno un tornaconto personale: una poltrona o la garanzia di una ricandidatura. Se anche Gianni Letta si è convinto che “così non si può andare avanti”, siamo ai titoli di coda. Non bastasse la fronda interna (con i vari Formigoni, Scajola e company attenti ai possibili movimenti tellurici del dopo Berlusconi), gli osservatori internazionali sono ancor più espliciti. Il titolo del Financial Times è eloquente: “In nome di Dio e dell’Italia, vattene”.
C’è quasi dell’eroismo nella resistenza opposta dal premier. O dell’irresponsabilità, dalla prospettiva opposta. Forse la consapevolezza che, una volta fuori dal bunker di Palazzo Chigi, molte giornate dovrà trascorrerle nelle aule dei tribunali.
Intanto, è un fuggi-fuggi generale. La maggioranza è un’anguilla che a tentare di bloccarla scappa da tutte le parti. Parlamentari dati in uscita sui quali il pressing di Denis Verdini e dello stesso premier non sembra più produrre effetto. Ma non definiamoli eroi. Tra coloro che ora vestono la maschera dei censori, la stragrande maggioranza è responsabile dello sfascio morale in cui si trova l’Italia. Sono quelli che hanno votato qualsiasi porcata e che si sono sfilati soltanto in questo decadente epilogo. E che con questa legge elettorale saranno rieletti. Difficile pensare che qualcuno sia disposto a fare cadere il governo e poi sparire dalla circolazione. I movimenti al centro sono frenetici ed è probabile che partiti di crinale come Udc ed Mpa diventeranno una lavanderia politica.
Fine di una storia, dunque. Con un rimpianto. Quello di non essere stati in grado di farcela da soli. Alla fine, dovremo ringraziare la comunità internazionale che ha provocato l’isolamento di Berlusconi, e Paolo Cirino Pomicino, il regista delle manovre che stanno sfilando uno ad uno i parlamentari pidiellini. Va a finire che moriremo davvero democristiani.
Il ritorno di Santoro
Che sarebbero state poche le novità, è stato chiaro sin dall’ingresso di Santoro nello studio sulle note della canzone di Vasco Rossi “I soliti”. Il pubblico di “Annozero” non ha avuto difficoltà a risintonizzarsi su “Servizio Pubblico”, praticamente il sequel del talk show andato in onda su Rai2. La stessa apertura con l’anteprima del conduttore, che ha ricordato due maestri del giornalismo, Enzo Biagi e Indro Montanelli, ed evocato la “rivoluzione civile” auspicata da Mario Monicelli. La stessa musica, quella di Nicola Piovani. Persino gli stessi caratteri utilizzati per scrivere il titolo del programma. Una formula vincente, confermata dai dati d’ascolto. Circa tre milioni di telespettatori e il 14% di audience (dietro soltanto a Rai1 e Canale5) il colpo messo a segno grazie ad una “multipiattaforma” composta da emittenti locali, Sky, siti internet e radio. La dimostrazione che è possibile fare televisione non di nicchia anche al di fuori del finto duopolio Rai-Mediaset.
“Sarà una tv che sale sulla gru”, era stata la promessa. E due gru, simbolo della protesta dei disoccupati, fanno parte della scarna scenografia. Con esse, tre torri d’acciaio da dove il “frate indignato” Vauro, con il suo “giramento di cordoni”, presenta le sue vignette, Giulia Innocenzi lancia in diretta i sondaggi su Facebook e il “paese reale”, quello dei disoccupati e dei precari, prende la parola. Sul palco non c’è il tavolo di “Annozero”, ma soltanto due sedie per gli ospiti della puntata, intitolata “Licenziare la casta”: l’imprenditore Diego Della Valle e il sindaco di Napoli Luigi De Magistris, sottoposti alle domande di Franco Bechis, Luisella Costamagna e Paolo Mieli, il “complottatore capo” (copyright di Giuliano Ferrara) del piano di disarcionamento del premier. Doppio Travaglio, come Vauro: “la balla della settimana” – il magistrato Ingroia “partigiano” della Costituzione – e “i soliti ignoti” sull’argomento della puntata. Asciutto e incisivo il servizio di Sandro Ruotolo sugli sprechi della politica, al quale hanno fatto da complemento le considerazioni di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, coppia di giornalisti abituata a fare le pulci alla casta. Ottimi i contributi provenienti dalla “strada”: l’intervista al deputato di Fli che ha definito Finmeccanica “il marchettatoio” di questo governo; le rivelazioni di Antonio Razzi, sedicente eroe per avere avuto il “coraggio” di tenere in vita il governo; la stizza di Claudio Scajola, beccato all’uscita dal famigerato appartamento, in parte pagato a sua insaputa dall’imprenditore Diego Anemone.
Nel complesso, prova superata, anche se alcune cose vanno riviste. Per esempio, sarebbe bene ascoltare più campane. E poi, non andare “fuori traccia”, un’impressione che si è avuta con l’intervista alla testimone chiave dei processi sul “bunga-bunga” e con il servizio sul latitante Valter Lavitola, autodefinitosi “lo sfigato della situazione”. Lo schema disegnato sulla lavagna dall’ex direttore dell’Avanti per spiegare i soldi a Tarantini è stato un numero da avanspettacolo, ma la vetta della comicità è stata raggiunta con il comizio di Scilipoti: “è finito il tempo dei cialtroni! È iniziato il tempo della meritocrazia!”.
Il Big Bang di Renzi e quell’idea che manca
Il segnale inequivocabile dell’approssimarsi delle elezioni sono le faide che si stanno scatenando all’interno del partito democratico e, più in generale, nel centrosinistra. Un riflesso pavloviano: appena si affaccia l’ipotesi di una votazione e, ancor più, di una possibile vittoria, iniziano i litigi. Verrebbe quasi da rimpiangere il centralismo democratico del vecchio Pci. Ora è “tutti contro tutti e ognuno per se”, al massimo per la propria corrente. I volti, alla fine, sono gli stessi di sempre. Sulla questione, ha ragione da vendere Matteo Renzi: “non è possibile che cambino continuamente i simboli dei partiti e restano sempre le stesse facce”.
La tre giorni alla stazione Leopolda ha ufficializzato le ambizioni di leadership del sindaco di Firenze. Una proposta di rottamazione del Pd e di un vecchio modo di fare politica, al quale si vuole contrapporre una proposta diretta e partecipata, non ingessata da rituali oligarchici. Un “partito format”, secondo la definizione di Aldo Grasso, giovanilista, ammiccante, piacione. “Si è presentato con il vestito della prima comunione”, ha ironizzato Luciana Littizzetto, mentre Maurizio Crozza è stato più cattivo: “il niente che avanza”. Il “Big Bang” ha ovviamente scatenato anche la reazione dell’establishment di sinistra. “Tardo blairismo in salsa populista”, per Rosy Bindi; “Renzi nel Pd è una contraddizione”, la quasi scomunica di Cofferati. Diplomatico invece Bersani. A differenza di Vendola: “Renzi è il vecchio”. Di certo, non unisce. Tanto da alimentare le peggiori illazioni. È stato addirittura ripescata dagli archivi Mediaset una puntata della Ruota della fortuna alla quale partecipò (e vinse). È stato ricordato l’incontro con Berlusconi ad Arcore (dicembre 2010), una visita a domicilio inconsueta da un punto di vista istituzionale, guardata dal Pd con sospetto e irritazione. È stato sottolineato con abbondante dose di malizia il contributo di Giorgio Gori (l’ex direttore di Canale 5 che portò in Italia il Grande Fratello, poi fondatore di Magnolia, società che produce L’Isola dei famosi) alla stesura delle “cento idee per l’Italia”. Tre indizi che fornirebbero la prova schiacciante di un Renzi “Berlusconi di sinistra”. Pierfranco Pellizzetti è andato giù pesante: “Il solo elemento di novità del renzismo è l’uso spregiudicato delle tecniche di comunicazione imbonitoria”.
Dalla disfida tra i ricostruttori di Bersani e i rottamatori di Renzi, a rimetterci potrebbe essere, come al solito, l’intero centrosinistra. Il programma della Leopolda, è stato detto, è discutibile e integrabile. A mio avviso, una lacuna andrebbe colmata in via preliminare. Altrimenti è impossibile confrontarsi sul resto. Il peccato originale della sinistra è la mancata approvazione di una legge sul conflitto d’interessi, subito dopo la vittoria alle elezioni del 1996. Bisogna stabilire, una volta per tutte, che chi – come il premier – si trova al centro di un groviglio di interessi, soprattutto nel settore dell’informazione, non può fare politica, per la ragione elementare che il suo tornaconto personale prevarrà sempre sul bene della collettività. Oggi, non sarebbe neppure un provvedimento punitivo contro Berlusconi, ormai al termine della sua parabola politica. Semplicemente, la regolamentazione di un’ anomalia inconcepibile in un Paese democratico.
Trentasei anni senza P.P.P.
Sono arrivato a Pier Paolo Pasolini da solo. O quasi. Ai tempi del liceo, lo sfiorai tra la prima e la seconda classe, quando la professoressa di lettere ci assegnò alcuni libri da leggere durante le vacanze estive. Conobbi così Pasolini, Cesare Pavese, Italo Calvino, Primo Levi e qualcun altro autore del Novecento. Le fortune dei ragazzi passano spesso dagli insegnanti che incontrano lungo il cammino scolastico. A me è andata bene. Nel biennio, un rapporto splendido, anche sotto il profilo umano, con la professoressa Paino; nel triennio, quello decisivo per la mia formazione con il professore Monterosso (storia e filosofia). In quinta, però, studiammo poco o niente gli autori del Novecento. Di sicuro, non li leggemmo. E anche se il professore di lettere avesse avuto questa intenzione, non credo che ci avrebbe fatto leggere Pasolini. Troppo distante dal suo mondo.
Per vie traverse ci sono però arrivato ugualmente. Mi capita spesso di leggere qualcosa che rimanda ad altri autori. E così è stato. Mi sono “imbattuto” nella raccolta di poesie Le ceneri di Gramsci e così ho prima approfondito il poeta, quindi sono passato alla lucidità del pensiero degli Scritti corsari, all’intellettuale scomodo, scandaloso e affascinante per chi si rifiuta di sottostare alle logiche e ai valori propagandati dal consumismo e dall’edonismo dominanti. Nessuno meglio di Pasolini ha saputo leggere i cambiamenti della società italiana nel secondo dopoguerra. Nessuno è stato così profetico e coraggioso nel mettere in guardia, con quarant’anni d’anticipo, dal baratro verso il quale l’umanità stava (e sta) precipitando. Le denunce contro il Palazzo, il ruolo e la funzione della televisione in una società di massa, l’omologazione culturale, la trasformazione antropologica della società sono temi drammaticamente attuali.
Domani ricorre il trentaseiesimo anniversario dell’assassinio di Pasolini. Una vicenda che presenta ancora molti lati oscuri. L’ennesimo mistero della storia d’Italia. Nella sua appassionata orazione funebre, Alberto Moravia pronunciò parole forti e condivisibili: “abbiamo perso prima di tutto un poeta, e poeti non ce ne sono tanti nel mondo, ne nascono soltanto tre o quattro in un secolo. Quando sarà finito questo secolo, Pasolini sarà tra i pochissimi che conteranno come poeta: il poeta dovrebbe essere sacro!”.
Si fa, non si fa, si fa, non si fa…
Il primo ad affrettarsi a dire che no, il ponte si farà lo stesso, nonostante l’approvazione della mozione presentata dal dipietrista Antonio Borghesi, è stato il ministro Ignazio La Russa: “la mozione dice che il governo eventualmente può sopprimere i finanziamenti per l’opera, ma posso assicurare che non lo farà”. A ruota, la precisazione di Palazzo Chigi, dello stesso tenore. Qualche giorno fa, era stato il ministro delle Infrastrutture, Altero Matteoli, a ribadire che il Ponte rimaneva una priorità del governo, nonostante l’Unione europea non avesse inserito il Ponte tra le opere prioritarie del Corridoio 1.
Troppo semplice cavarsela con la battuta di La Russa: “una mozione non si nega a nessuno, ma vale per quello che vale”. La sensazione è che sia stata posta una pietra tombale sulla grandeur berlusconiana da immortalare con una costruzione faraonica. Bocciata con un provvedimento di buon senso che rimedia ai tagli dei trasferimenti del governo a Regioni ed Enti locali per le infrastrutture, andando a recuperare così 1,7 miliardi di euro. Qualche considerazione sull’opportunità di un’opera che difficilmente risolverebbe i problemi della Calabria è inevitabile. Guadagnare trenta minuti nell’attraversamento dello Stretto non risolverebbe alcunché. Senza voler fare del facile “benaltrismo”, è un problema l’isolamento dei comuni calabresi delle zone interne, dovuto a collegamenti scarsi e disastrati. Sono un problema le code interminabili sull’A3, le stragi della 106 ionica, le frane che impongono la chiusura di intere strade provinciali, i fatiscenti treni-lumaca. Nello specifico, è un problema l’esistenza di un duopolio che gestisce il trasporto nello Stretto sulla pelle dei pendolari, permettendosi aumenti dei prezzi frequenti e inspiegabili, senza che le legittime proteste non si rivelino soltanto un avvilente abbaiare alla Luna.
Il Ponte unirebbe Calabria e Sicilia, in un deserto di infrastrutture. L’unica utilità sarebbe quella dichiarata da Berlusconi: “se uno ha un grande amore dall’altra parte dello stretto potrà andarci anche alle quattro del mattino senza aspettare i traghetti”. Sotto il profilo dello sviluppo economico, cambierebbe poco. La Calabria deve guardare oltre la Sicilia. Occorre puntare lo sguardo ai mercati del Nord Italia e dell’Europa, per cui servono strade e ferrovie che ne riducano le distanze. Deve guardare ai Paesi del Mediterraneo. Il suo sviluppo passa necessariamente dal rilancio e dal potenziamento del Porto di Gioia Tauro (indotto e iniziative imprenditoriali che non riducano lo scalo a box per il pit stop delle navi), ora in grave crisi per l’addio della Maersk Line che ha causato una drammatica diminuzione del traffico.
La quantità di soldi spesi fino ad ora per la “realizzazione” del Ponte è da guinness dei primati: 270 milioni di euro (8,5 miliardi il costo finale previsto). Niente male per un’opera che – probabilmente – non si farà. E pensare che l’11 giugno la Società Stretto di Messina ha compiuto trent’anni. Un compleanno che rischia di diventare amaro, anche se la sua scadenza è fissata al 31 dicembre 2050. Il tempo (per gli sprechi) non basta mai.
Tornano Santoro, Vauro e il baffone di Ruotolo
Manca oramai pochissimo all’esordio televisivo della squadra di Santoro, fissato al 3 novembre, ore 21.00. Il giovedì di Rai Due è intanto naufragato con i pessimi ascolti di Star Academy, soppresso prima che sul palco arrivassero i pomodori. A conferma delle politiche suicide della Rai dove, pur di fare favori al premier, si sta affossando la televisione pubblica. Pare che ora si voglia puntare su Giuliano Ferrara per un Annozero di destra, nello stesso canale e nello stesso orario. Un premio per il successo di Qui Radio Londra, programma rivelatosi di nicchia e per il quale, “stranamente”, nessuno ha chiesto la chiusura, causa ascolti nettamente al di sotto delle aspettative. Si potrà seguire Servizio pubblico (titolo del nuovo programma, inizialmente Comizi d’amore) su Sky, ma anche su diverse emittenti locali, oltre che in streaming sul sito di Repubblica, Il Fatto Quotidiano e Il Corriere della Sera.
A fare pubblicità al programma, nello spot che sta girando in rete, il premier in persona.
Ti saluto così
Tra i tanti ricordi, mi piace associarti alla tua grande passione: il volo degli uccelli. Chissà, forse più in là dirò altro. Ora mi piace pensarti con gli occhiali da sole dalle lenti spesse per potere meglio osservare senza rimanere accecato dalla luce, e il binocolo che tenevi sempre sulla macchina, pronto ad accostare appena scorgevi un punto sull’orizzonte. Spesso non riuscivi a capacitarti di come non riuscissimo a vederlo pure noi, che non avevamo l’occhio allenato come il tuo.
“Guarda quanto è bello l’adorno in volo!”, esclamavi innamorato.
Ciao, “zio” Pino
Una bandiera di vittoria piantata sulla pancia di un morto
Sono state spese fin troppe parole su Gheddafi, sulla sua parabola politica e umana, su quelli che nel giro di pochi giorni si sono accorti che a Tripoli regnava un dittatore e sono passati da un deferente baciamano alla condanna del regime e alla guerra. Per giustificare l’imbarazzo, si è anche parlato di logiche di realpolitik, attribuendo implicitamente una statura da grande attore internazionale a chi non ce l’ha, tanto da essere di recente sbeffeggiato pubblicamente da Sarkozy e Merkel. Invece era soltanto l’albertosordismo della politica estera italiana che ogni tanto riemerge: orecchie calate con i forti, volto truce con i deboli.
La logica preponderante nei rapporti internazionali è il cinismo, il “sic transit gloria mundi” con cui Berlusconi ha liquidato l’amicizia con Gheddafi. La fine che spesso tocca in sorte ai dittatori rappresenta plasticamente i termini della questione. Sostenuti, tollerati, foraggiati, vezzeggiati fino a quando sono funzionali a interessi politici ed economici prevalenti; scaricati senza troppi scrupoli quando non servono più o diventano ingestibili. Il colpo di grazia alla testa del dittatore libico ha levato dall’imbarazzo quanti, tra i protagonisti della politica internazionale, sarebbero stati chiamati da Gheddafi a testimoniare in un regolare processo. La furia giustizialista che da più parti si è levata puzza di sospiro di sollievo per lo scampato pericolo e nasconde un intento autoassolutorio.
Ma i fatti sono sotto gli occhi di tutti. Il tentativo della Nato di giustificare il bombardamento del convoglio sul quale viaggiava Gheddafi è goffo. Come ha sostenuto il ministro degli esteri russo, non vi era “alcun collegamento tra la no-fly zone e un attacco a un bersaglio a terra”. Infine, il rais è stato catturato in una buca, ferito ma ancora vivo, ed è stato giustiziato sul posto. C’è qualcosa di intollerabile nella caccia all’uomo, nella furia che si scatena quando la belva annusa il sangue della preda: “e gli occhi dei soldati cani arrabbiati/ con la schiuma alla bocca cacciatori di agnelli” (Sidun, Fabrizio De André).
Non è in discussione il giudizio su Gheddafi, per niente ammorbidito dalla fine tragica. Era e rimane un criminale, un aguzzino del popolo libico. Però, anche lui, aveva diritto ad un regolare processo. La giustizia sommaria è sempre una giustizia barbara, violenza che si aggiunge a violenza, in una vertigine di sangue che rievoca i versi di Ignazio Buttitta: “scippari l’occhi l’unu cu l’autru,/ scurciari l’unu cu l’autru, ammazzarinni/ e chiantari banneri di vittoria/ nte panze di morti” (Ncuntravu u Signuri).
Saluti da Londra/ bis
Anche l’ammiraglio Nelson ci teneva a salutare. A proposito, dice Mario che un suo amico, arrivato a Trafalgar Square abbia esclamato: “ma quello e’ Napoleone?”

Da Piccadilly Circus, invece, il saluto di Cupido. Domanda: secondo voi, il buontempone che ha “lasciato” una mano dentro le mutande del dio dell’amore e’ londinese?!

Oscar Wilde ci ricorda che “siamo tutti nel fango, ma alcuni di noi stanno guardando le stelle”.

“Mentre attraversavo London Bridge”, non ho potuto fare a meno di canticchiare “Geordie”.

Ancora: Tower Bridge…

… e London Tower.

Possibile che ci sia tutto questo vento?!

Ma no, va tutto bene. Garantisce Mr “cool” Britannia!

Saluti da Londra

Pronto? Mi sentite? La “perfida Albione” non e’ come dicono. Per esempio, non e’ vero che a Londra piove sempre. E’ un luogo comune messo in giro dai francesi…


… pero’ e’ vero che mangiano da cani! Il cornetto farcito con il salame piccante non l’avevo mai visto…

… e neanche la seppia fluorescente! Dall’espressione perplessa di mio fratello Mario riflessa sul vetro, suppongo si tratti di una novita’ della cucina cinese a Soho.

Il Big Ben non ha detto stop…

… purtroppo, neanche i cannoni, come si evince dal presidio pacifista davanti alla House of Commons.

Se ti scappa e ti trovi da “Costa”, serve lo scontrino della consumazione, su cui si trova stampato il codice da digitare per aprire la porta della toilette. Se non paghi, te la puoi fare addosso…

… anche se ti chiami Elisabetta!!