Wish you were here

Vorrei che tu fossi qui. Cinque parole per definire un’assenza lancinante, insanabile. Vorrei ma non ci sei, non ci sarai. Un’assenza che brucia nel petto, destinata ad ardere in eterno e che mai si spegnerà. La fine di una storia alla quale non si può porre rimedio. Definitiva come il finale di un film che toglie il respiro e fa tornare a casa turbati, disorientati e sospesi tra ciò che si era e ciò che si è diventati. Paralizzati dal dolore. Vorrei che tu fossi qui. Quasi un sussurro affidato al vento e rivolto dai Pink Floyd al fondatore del gruppo e anima psichedelica della prima stagione, Syd Barrett, il “diamante pazzo” smarritosi tra la nebbia degli acidi.
Sette anni dopo l’addio, il 5 giugno 1975 Syd si presenta nello studio di Abbey Road dove la band stava registrando l’album Wish you were here, e non verrà riconosciuto dai suoi compagni. Alienato, appare di molto ingrassato e dall’aspetto trasandato. Calvo e con le sopracciglia rasate, sembra un vecchio nonostante abbia soltanto 29 anni: «Fu quasi come l’apparizione di un fantasma», dirà il batterista Nick Mason. Riappare proprio mentre si parla di lui e della sua assenza, in uno degli album più iconici della storia del rock, 20 milioni di copie vendute. Il brano che dà il titolo all’album è stato scritto per lui, così come Shine on you crazy diamond, che apre e chiude l’album.
Le domande iniziali della canzone sono nodi che Barrett è incapace di sciogliere: paradiso e inferno, cieli blu e dolore, un campo verde da una fredda rotaia, un vero sorriso da un sorriso velato, nascosto, falso. Metafore forti sul male di vivere che nasce da un irrisolto dramma esistenziale, che in Barrett deflagra anche a causa dell’abuso di droghe.
Ma Wish you were here non parla solo di e a Barrett. Una lettura che spacchi la crosta della superficie consente di intuire un messaggio universale: ed è questo il tratto caratteristico delle opere d’arte.
La frattura più profonda è quella tra la vita e la non vita, che si manifesta quando si è schiacciati dalla propria maschera, dal ruolo che ci diamo o che ci viene assegnato.
Moriamo ogni volta che alziamo un muro tra noi e il mondo, come il protagonista del concept album The Wall (1979), intrepretato nel film omonimo di Alan Parker (1982) da un immenso Bob Geldof e nel quale c’è molto della vicenda umana e professionale di Barrett, non solo di Roger Waters.
Moriamo ogni volta che siamo portati a barattare i nostri eroi con dei fantasmi: ciò in cui crediamo diventa il nostro incubo; la cenere calda con gli alberi: confondiamo la distruzione e la morte con la vita; l’aria calda con la brezza fresca: pensiamo di trovare refrigerio e sollievo in ciò che invece opprime. Ogni volta che – è la risposta sottintesa all’ultima domanda della seconda strofa – si rinuncia a combattere (“a walk on part in the war”) nella vita di tutti i giorni, preferendo “un ruolo da protagonista in gabbia”. Prigionieri della propria incapacità di adattarsi e di affrontare i cambiamenti, di continuare a vivere “dentro” la vita che scorre.
Come i pesci che nuotano in tondo nell’acqua di una boccia, non ci capiamo, né comprendiamo il senso della vita. Corriamo senza meta, tormentati dalle “stesse vecchie paure”.
Vorrei che tu fossi qui. Impotenti, non sappiamo dire altro.

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