Venticinque anni dopo, la stessa voglia di pioggia

Il mio incontro con Fabrizio De André è avvenuto intorno ai tredici anni. Merito del professore Saverio Garzo, che d’estate caricava di ragazzini la sua BMW 316 e li portava al mare. Tra le musicassette che facevano da colonna sonora durante il viaggio, una raccolta di canzoni di De André, che così entrò nella mia vita. Pochi anni dopo ricevetti come regalo per il mio compleanno il vinile di “Tutti morimmo a stento”, concept album del 1968 che parla della “morte psicologica, morale, mentale, che un uomo normale può incontrare durante la sua vita”. Sulla scena musicale italiana fanno il loro ingresso drogati, assassini, impiccati; per la prima volta un cantautore affronta il tema della pedofilia (“Leggenda di Natale”). Ritratti di personaggi derelitti, abbandonati ai margini della società, sui quali sin dall’inizio della carriera De André posa lo sguardo riconoscendo loro dignità e il diritto ad una possibilità: quella di “consegnare alla morte una goccia di splendore, di umanità, di verità” (“Smisurata preghiera”). In loro il cantautore genovese intravede l’altra faccia della luna, in loro trova il bagliore di una tragica grandezza. Siano essi ladri, prostitute, travestiti, criminali: se non proprio gigli, in fondo vittime di questo mondo (“La città vecchia”). Compresi i suicidi, ai quali al tempo era negata anche l’umana pietà: «Di un omicidio – scriverà – sono responsabili soltanto gli autori del crimine ed eventualmente i loro mandanti; di un suicidio, invece, è generalmente responsabile tutta la società o almeno quella microsocietà che lo ha reso possibile».
Subito dopo acquistai il doppio album del concerto del 1979 con i brani arrangiati dalla Premiata Forneria Marconi. Una contaminazione riuscitissima, che raggiunge l’acme nell’interpretazione chitarristica di “Amico fragile” proposta da Franco Mussida.
Dietro le canzoni di Fabrizio De André c’è uno studio gigantesco, una ricerca continua e originale tra le culture non soltanto musicali del suo tempo. Georges Brassens e l’anarco-individualismo nella primissima fase della sua carriera. I vangeli apocrifi studiati per raccontare nell’album “La buona novella” la vicenda del “più grande rivoluzionario di tutti i tempi” attraverso la voce degli esclusi dalla storia ufficiale, come il ladrone Tito, che in punto di morte “nella pietà che non cede al rancore” impara l’amore.
Genova e il Mediterraneo crocevia di culture e di sonorità sublimate nel capolavoro assoluto “Crêuza de mä”. E ancora: il ’68 e la contestazione in “Storia di un impiegato”, con la maturazione della convinzione che non esistono poteri buoni, l’esperienza collettiva del carcere e l’anatema “per quanto voi vi crediate assolti, siete lo stesso coinvolti”. Edgar Lee Masters e la sua “Antologia di Spoon River” tradotta da Fernanda Pivano in “Non al denaro, non all’amore né al cielo”: la dimostrazione che musica e letteratura possono fondersi senza perdere in bellezza, forza, profondità. E chissà se sulla collina De André ha finalmente incontrato il matto che nella penombra inventa parole. Il parallelismo tra popolo sardo e nativi americani nell’album dell’indiano, con l’esperienza autobiografica del sequestro di persona del quale fu vittima insieme a Dori Ghezzi, nella struggente “Hotel Supramonte”. Le collaborazioni con Giuseppe Bentivoglio, Francesco De Gregori, Massimo Bubola, la Premiata Forneria Marconi, Nicola Piovani, infine Ivano Fossati nell’ultimo straordinario lavoro, “Anime salve”. Ancora un viaggio – l’ultimo – denso di suggestioni, per dare voce a chi viaggia in direzione ostinata e contraria, ma anche la premonizione dell’imminente congedo nel sibillino “mi sono visto che ridevo/ mi sono visto di spalle che partivo”.
Come le nuvole di un altro suo fortunato brano, anche Fabrizio De André sta tra noi e il cielo, va, viene e ogni tanto si ferma, come per darci un riferimento, una chiave di lettura su ciò che nel mondo accade. Senza che, venticinque anni dopo, sia minimamente diminuita la voglia di pioggia che la sua scomparsa ci ha lasciato.

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Gaza come la Sidone di De Andrè

Le parole possono cambiare il mondo? Qualcuno le ascolta? La risposta è un doppio no. Le parole potrebbero forse cambiare il mondo se l’umanità tendesse l’orecchio verso l’altro, se tutti facessimo tesoro della raccomandazione del filosofo Plutarco al giovane Nicandro, contenuta nell’opuscolo “L’arte di ascoltare”: «Il saper ascoltare bene è il punto di partenza per vivere secondo il bene».
Ciò che sta succedendo a Gaza conferma la nostra sordità. Beati i possessori della verità e del giusto, beati coloro che sventolano vessilli da ultras: bandiere di vittoria da piantare nelle pance dei morti, sosteneva Ignazio Buttitta, in una spirale di contrapposizione ideologica e di violenza della quale non si riesce a vedere la fine.
Ragione e torto, dicevamo. Il diritto di esistere di Israele, il diritto della popolazione palestinese a vivere con dignità.
Le brigate al-Qassam e Netanyahu sono indifendibili. Criminali. Non esiste una ragione che spieghi la caccia all’uomo di Hamas nei kibbutz della Striscia e non esiste una ragione che giustifichi la vendetta indiscriminata di Israele sui civili di Gaza.
Si è indifferenti alle conseguenze di un disastro umanitario spaventoso, ancora soltanto all’inizio. E sono state spazzate dal vento le parole di umana pietà dedicate da Fabrizio De Andrè all’attacco subito dalla città libanese di Sidone, ad opera delle truppe del generale Sharon nel 1982, nel corso della guerra civile libanese: «Me la sono immaginata – spiegò – come un uomo arabo di mezz’età, sporco, disperato, sicuramente povero, che tiene in braccio il proprio figlio macinato dai cingoli di un carro armato».
L’album era il capolavoro Crêuza de mä (1984). La canzone, in dialetto genovese come tutte le tracce del disco, si intitolava Sidùn. Di seguito, il testo tradotto in italiano:

Il mio bambino il mio
il mio
labbra grasse al sole
di miele di miele
Tumore dolce benigno
di tua madre
spremuto nell’afa umida
dell’estate dell’estate
E ora grumo di sangue orecchie
e denti di latte
e gli occhi dei soldati cani arrabbiati
con la schiuma alla bocca cacciatori di agnelli
a inseguire la gente come selvaggina
finché il sangue selvatico non gli ha spento la voglia
e dopo il ferro in gola i ferri della prigione
e nelle ferite il seme velenoso della deportazione
Perché di nostro dalla pianura al molo
non possa più crescere albero né spiga né figlio
ciao bambino mio l’eredità
è nascosta
in questa città
che brucia che brucia
nella sera che scende
e in questa grande luce di fuoco
per la tua piccola morte

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Essere Bob Dylan

Ha suscitato stupore il tour italiano di Bob Dylan, cinque concerti “phone free show” caratterizzati dal divieto di tenere accesi i telefonini. Con i fan costretti, all’ingresso, a inserire gli smartphone in una custodia tenuta sigillata per tutta la durata dell’esibizione. Cose da Bob Dylan, l’unico musicista Premio Nobel per la letteratura, che può permettersi di piegare il pubblico alle sue regole, di pretendere che sia la platea ad “andare verso di lui” per ascoltare esclusivamente le sue canzoni. A pensarci, la ragione più profonda e intima di un concerto dovrebbe riassumersi proprio in questa apparente banalità. Volare sulle ali dei versi, protagonisti assoluti delle esibizioni del menestrello di Duluth. Tanto è vero che Dylan quasi non si vede. Per quasi tutta la durata del concerto resta dietro il pianoforte collocato in un angolo del palco, nella penombra. Nel 2004 vissi l’esperienza unica di un suo concerto a Villa Erba, sul lago di Como. Com’è sua consuetudine, anche quella volta stravolse l’esecuzione delle sue canzoni, tanto da rendere faticoso persino il riconoscimento dei brani più celebri. Problema superato in questo tour, nel quale Dylan non ha neanche proposto i successi storici.
Dylan ci spinge a riflettere sulla funzione delle parole, sulla guerra che le vede soccombere sotto il maglio delle immagini. Una battaglia romantica perché destinata alla sconfitta, pertanto eroica; ma che è riduttivo archiviare come provocazione snobistica. Un gesto rivoluzionario, semmai, che sfida il conformismo con l’arma della libertà. La propria.
Al giorno d’oggi, il bando dei telefonini da un concerto è surreale. La partecipazione a qualsiasi evento non appare finalizzata al godimento di un momento irripetibile, la sensazione è che sia più importante fare sapere di “esserci”. Contano le immagini, che siano fotografie o video da postare sui social.
Le parole sono morte, uccise dall’enfasi e dalla retorica, bistrattate da commenti tutti uguali, pescati a piene mani dagli abusati aforismari del web. Tutto è superlativo, “bellissimo” e “straordinario”: da filmare e fotografare, per qualche like in più. Viviamo in un mondo alla rovescia, che considera eccezionale la normalità ed essenziale il futile. Per restare nel paradossale campo delle immagini, non proprio un bel vedere.

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Wish you were here

Vorrei che tu fossi qui. Cinque parole per definire un’assenza lancinante, insanabile. Vorrei ma non ci sei, non ci sarai. Un’assenza che brucia nel petto, destinata ad ardere in eterno e che mai si spegnerà. La fine di una storia alla quale non si può porre rimedio. Definitiva come il finale di un film che toglie il respiro e fa tornare a casa turbati, disorientati e sospesi tra ciò che si era e ciò che si è diventati. Paralizzati dal dolore. Vorrei che tu fossi qui. Quasi un sussurro affidato al vento e rivolto dai Pink Floyd al fondatore del gruppo e anima psichedelica della prima stagione, Syd Barrett, il “diamante pazzo” smarritosi tra la nebbia degli acidi.
Sette anni dopo l’addio, il 5 giugno 1975 Syd si presenta nello studio di Abbey Road dove la band stava registrando l’album Wish you were here, e non verrà riconosciuto dai suoi compagni. Alienato, appare di molto ingrassato e dall’aspetto trasandato. Calvo e con le sopracciglia rasate, sembra un vecchio nonostante abbia soltanto 29 anni: «Fu quasi come l’apparizione di un fantasma», dirà il batterista Nick Mason. Riappare proprio mentre si parla di lui e della sua assenza, in uno degli album più iconici della storia del rock, 20 milioni di copie vendute. Il brano che dà il titolo all’album è stato scritto per lui, così come Shine on you crazy diamond, che apre e chiude l’album.
Le domande iniziali della canzone sono nodi che Barrett è incapace di sciogliere: paradiso e inferno, cieli blu e dolore, un campo verde da una fredda rotaia, un vero sorriso da un sorriso velato, nascosto, falso. Metafore forti sul male di vivere che nasce da un irrisolto dramma esistenziale, che in Barrett deflagra anche a causa dell’abuso di droghe.
Ma Wish you were here non parla solo di e a Barrett. Una lettura che spacchi la crosta della superficie consente di intuire un messaggio universale: ed è questo il tratto caratteristico delle opere d’arte.
La frattura più profonda è quella tra la vita e la non vita, che si manifesta quando si è schiacciati dalla propria maschera, dal ruolo che ci diamo o che ci viene assegnato.
Moriamo ogni volta che alziamo un muro tra noi e il mondo, come il protagonista del concept album The Wall (1979), intrepretato nel film omonimo di Alan Parker (1982) da un immenso Bob Geldof e nel quale c’è molto della vicenda umana e professionale di Barrett, non solo di Roger Waters.
Moriamo ogni volta che siamo portati a barattare i nostri eroi con dei fantasmi: ciò in cui crediamo diventa il nostro incubo; la cenere calda con gli alberi: confondiamo la distruzione e la morte con la vita; l’aria calda con la brezza fresca: pensiamo di trovare refrigerio e sollievo in ciò che invece opprime. Ogni volta che – è la risposta sottintesa all’ultima domanda della seconda strofa – si rinuncia a combattere (“a walk on part in the war”) nella vita di tutti i giorni, preferendo “un ruolo da protagonista in gabbia”. Prigionieri della propria incapacità di adattarsi e di affrontare i cambiamenti, di continuare a vivere “dentro” la vita che scorre.
Come i pesci che nuotano in tondo nell’acqua di una boccia, non ci capiamo, né comprendiamo il senso della vita. Corriamo senza meta, tormentati dalle “stesse vecchie paure”.
Vorrei che tu fossi qui. Impotenti, non sappiamo dire altro.

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La sera dei miracoli

Al civico numero 7 di vicolo del Buco, a Trastevere, una targa ricorda una delle più belle canzoni di Lucio Dalla, “La sera dei miracoli” (1980), dedicata dal cantautore bolognese a Roma, dove visse tra il 1980 e il 1986: «Una canzone – spiegò anni dopo – che ho scritto in un momento di fuoco di Roma, bellissimo in un’estate come questa, di parecchio tempo fa. Io tornai a casa, abitavo a Trastevere, mi misi al pianoforte. Avevo visto Roma incendiata da feste, da canti, da gente ubriaca bene. Da veramente un momento di grande gioia collettiva».
Gli anni di piombo stanno per finire, si comincia a respirare un desiderio di normalità, di leggerezza, di “effimero”, di vita, dopo un cupo decennio di morte. Interprete di questo sentimento di rinascita fu a Roma l’architetto Renato Nicolini, assessore alla cultura dal 1976 al 1985 nelle giunte di sinistra guidate dai sindaci Giulio Carlo Argan, Luigi Petroselli e Ugo Vetere, il quale ideò l’Estate Romana, un esperimento visionario che rivoluzionava il rapporto cultura/masse e abbatteva gli steccati tra élite e popolo con manifestazioni di piazza (spettacoli teatrali, musicali, proiezioni cinematografiche, reading) fruibili da tutti gli strati sociali.
La canzone di Lucio Dalla fa riferimento proprio al “miracolo” realizzato da Nicolini, il quale avrebbe lasciato testimonianza di quel periodo di straordinaria creatività in un prezioso volume edito da Città del Sole: Estate romana. 1976-85: un effimero lungo nove anni (2011).
“La sera dei miracoli” esprime la gioia collettiva dell’Estate Romana, ma ad un livello più alto e universale è un inno alla ripartenza nel quale chiunque può specchiarsi, sia individualmente che collettivamente. Accade ogni volta che dal profondo di ciascuno di noi sale un impellente desiderio di ricominciare a vivere e di lasciarsi alle spalle dolore, ansie e preoccupazioni.
La sera, iniziata con qualcuno intento a fare a pezzi con la bocca una canzone, con il trascorrere delle ore trasforma la città nella visione onirica, felliniana, di una nave sulle onde. Ovunque c’è gente che corre, il protagonista cerca di individuare in tutta quella confusione la propria stella: «Perché mi perderei/ se dovessi capire che stanotte non ci sei», confessa in due versi da brividi.
Il miracolo si compie nel finale, quando la notte sta per finire. Qualcuno, ora, ha sanato la frattura iniziale scrivendo una canzone, mentre “lontano una luce diventa sempre più grande” e la nave può finalmente fare ritorno per portare tutti a dormire. Con nel cuore la promessa di un nuovo inizio.

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I Pink Floyd per l’Ucraina

Si intitola “Hey Hey Rise Up” il brano musicato dai Pink Floyd che segna il ritorno della leggendaria band, a 28 anni dall’album “The Division Bell”, l’ultima uscita del gruppo nel 1994. La canzone, che dodici ore dopo la pubblicazione su YouTube aveva già oltre due milioni di visualizzazioni, nasce dalla collaborazione di David Gilmour (chitarra) e Nick Mason (batteria) con il bassista Guy Pratt e il tastierista Nitin Sawhney, mentre la voce è quella di Andriy Khlyvnyuk, frontman della band ucraina Boombox.
Gilmour aveva conosciuto Khlyvnyuk a Londra nel 2015, in un concerto di solidarietà in supporto dei membri di “Belarus Free Theatre” imprigionati, che prevedeva la partecipazione del gruppo russo Pussy Riot, già perseguitato da Putin (su questo blog ne ho scritto nel 2012: Putin, pussy via) e, appunto, dei Boombox. Khlyvnyuk ebbe però problemi con il visto e non poté esibirsi, per cui il resto della band accompagnò Gilmour nella sua performance, che vide tra l’altro l’esecuzione della celebre “Wish You Were Here”, dedicata proprio al leader dei Boombox.
In tournée negli Stati Uniti al momento dell’invasione russa, Khlyvnyuk ha lasciato la band ed è rientrato in Ucraina per difendere la propria terra. Qualche settimana fa su Instagram ha postato dalla piazza Sofiyskaya di Kiev un video, nel quale intona un brano risalente alla prima guerra mondiale (“Il vilburno rosso nel prato”), diventato oggi l’inno della resistenza ucraina: «Un momento potente – ha dichiarato Gilmour – che mi ha spinto a volerlo trasformare in musica».
Il titolo del nuovo brano dei Pink Floyd riprende l’ultima frase della canzone, un incoraggiamento a rialzarsi e a tornare a gioire (nella traduzione inglese: «Hey, Hey, Rise up and rejoice»). Nel video, le terribili immagini della distruzione e della disperazione provocate dalla guerra si sovrappongono a quelle dei quattro musicisti e di Khlyvnyuk in piazza: «Abbiamo fatto cantare Andriy sullo schermo mentre suonavamo. Quindi noi quattro avevamo un cantante, anche se non fisicamente presente con noi».
Copertina del brano, i cui ricavi saranno devoluti all’Ukraine Humanitarian Relief Found, è il girasole (fiore nazionale dell’Ucraina) realizzato dall’artista cubano Yosan Leon. Un riferimento esplicito alla scena della donna che affronta un soldato russo regalandogli semi di girasole: «Prendili e mettili in tasca – l’esortazione divenuta virale – così almeno cresceranno quando voi tutti morirete qui».

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I settant’anni di Vasco

Chi l’avrebbe detto? Forse neanche lui contava di arrivare a settant’anni. Ma poco importa. I miti restano sempre giovani e Vasco è lì a ricordarcelo con il suo rock. Meno capelli e qualche chilo in più, ma niente di disastroso. Tutto sommato, è invecchiato benissimo. Anzi, la maturità gli ha consegnato un’autorevolezza che prima non gli era riconosciuta. Tranne che dai fans, ovviamente, per i quali è da sempre un dio.
Per me rimane il personaggio malinconico e incazzato del poster che tenevo nella cameretta, tra Karl Heinz Rummenigge e Diego Armando Maradona. Mano appoggiata sull’asta del microfono, quasi aggrappato come il naufrago alla fune.
Ci siamo innamorati con le sue canzoni: Ogni volta e Canzone, la mia preferita e negli anni diventata il momento più toccante dei suoi concerti con quel «Viva Massimo Riva» che ripete alla fine dell’esecuzione per ricordare l’amico e chitarrista morto di overdose: «È nell’aria/ ancora il tuo profumo/ dolce caldo morbido/ come questa sera/ mentre tu/ mentre tu/ non ci sei più».
Ho “incontrato” Vasco quando avevo circa 12 anni, nella metà degli anni Ottanta. Saltò fuori dal taschino del giubbotto di jeans di un ragazzo più grande di me che frequentava la sala biliardi del “Bar Mario”: era la musicassetta di Non siamo mica gli americani!, album del 1979 celebre perché conteneva la traccia Albachiara, probabilmente la canzone più cantata dai seguaci del rocker di Zocca. Le sue due recenti ed uniche partecipazioni al Festival di Sanremo (1982 e 1983) erano andate malissimo con due brani che poi avrebbero fatto la storia del rock italiano: Vado al massimo e Vita spericolata. Con mio fratello Luis cominciammo a comprare le sue musicassette, prodotte dall’etichetta “Carosello Records”, con la caratteristica custodia arancione. Ma negli anni a seguire acquistammo anche i dischi, perché il vinile è uno stile di vita.
Vasco è stato la colonna sonora della nostra gioventù. Lui sbatteva in faccia al mondo il dito medio urlando Siamo solo noi e noi ci sentivamo meno soli. Le sue canzoni sembravano scritte per noi, che fossimo innamorati, delusi, incazzati (Portatemi Dio). Un po’ sopra le righe o strafottenti (Sensazioni forti), quando cedevamo al fatalismo (Anima fragile) o non trovavamo il nostro posto nel mondo (La noia). Sotto la “nostra” panchina in piazza, uno di quei giorni in cui un adolescente vorrebbe soltanto sprofondare, scrissi con un colore a spirito nero le strofe finali di Canzone: «E intanto i giorni passano/ ed i ricordi sbiadiscono/ e le abitudini cambiano».
Quella scritta non c’è più; non ci sono più neanche quella panchina e quella piazza. E non c’è più nemmeno quel ragazzo, che ogni tanto riaffiora dal passato e si lascia abbracciare dalla struggente nostalgia di Vivere o di Stupendo: «Ed ora che non mi consolo/ guardando una fotografia/ mi rendo conto che il tempo vola/ e che la vita poi è una sola».

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Della felicità

Quanto è transitoria la felicità? Dalla sua impermanenza deriva il manifestarsi a lampi, con bagliori accecanti che nascondono il paesaggio circostante. Quando siamo felici, esistiamo soltanto noi e lei: chiunque o qualsiasi cosa essa sia. Di tutto il resto si percepiscono i contorni imprecisati, quinte sfocate del teatro che calpestiamo.
Sono attimi da respirare a pieni polmoni come dalla cima della montagna; da gustare come nespole succulente. Quando il bagliore si spegne, i ricordi del passato trapuntano di nostalgia la tela buia.
Per questa sua natura effimera, la felicità è la collezione di attimi del clown di Böll, il carpe diem di Orazio, il viaggiare leggero di de Saint-Exupery.
Ciascuno di noi insegue la propria felicità, che «sappiamo soltanto guardare, aspettare, cercare già fatta/ quasi fosse anagramma perfetto di facilità/ barando su un’unica lettera», fa notare Guccini mettendo in guardia su quanto essa sia complicata da raggiungere.
A volte non si è neanche in grado di riconoscerla, bombardati come siamo dal nulla fuorviante che ci opprime. Eppure pretendiamo di essere felici; addirittura rivendichiamo la felicità come un nostro diritto, alla maniera dei padri fondatori degli Stati Uniti che lo scolpirono nella Dichiarazione d’indipendenza. Un principio impegnativo, tanto suggestivo quanto illusorio. Buono per riempire cornici da appendere al muro.
Qualcuno ha affermato che di Federico Fellini sta al cinema come l’Ulisse di James Joyce sta alla letteratura. Il film premio Oscar nel 1964 racconta la crisi esistenziale e professionale del regista Guido Anselmi, interpretato da Marcello Mastroianni. Nella celebre scena del colloquio tra Anselmi/Fellini e il Cardinale, la risposta dell’alto prelato al regista che espone il suo dramma («Eminenza, io non sono felice») è terrificante: «Perché dovrebbe essere felice? Il suo compito non è questo. Chi le ha detto che si viene al mondo per essere felici?».

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Non al denaro non all’amore né al cielo

L’11 novembre ricorreva il cinquantesimo anniversario del concept album di Fabrizio De André Non al denaro non all’amore né al cielo, nato dalla collaborazione con Giuseppe Bentivoglio (testi) e Nicola Piovani (musiche, arrangiamenti, direzione d’orchestra).
L’album è liberamente tratto dall’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters (1915), arrivata in Italia grazie a Cesare Pavese, appassionato studioso della letteratura americana che affidò il libro ricevuto dagli Stati Uniti ad una sua ex studentessa, la giovane Fernanda Pivano, che lo tradusse tra il 1937 e il 1941. Si era in pieno regime fascista, la cultura americana veniva osteggiata e la politica di italianizzazione toccava vette irraggiungibili di ridicolo: clamorosa l’imposizione del vocabolo “mescita” in luogo dell’inglese “bar”. L’esatto contrario di ciò che accade oggi con l’invasione di termini inglesi utilizzati anche quando non ce ne sarebbe bisogno. Da un eccesso all’altro, verrebbe da considerare.
L’ostracismo culturale investiva il campo musicale (jazz) e quello della letteratura: la stessa Pivano pagò con qualche giorno di carcere la traduzione del libro, pubblicato dalla casa editrice Einaudi nel 1943. La questione era politica poiché la raccolta di poesie di Masters toccava temi non graditi al regime, come dichiarò anni dopo “Nanda”: «Parlava della pace, contro la guerra, contro il capitalismo, contro in generale tutta la carica del convenzionalismo. Era tutto quello che il governo non ci permetteva di pensare. Mi hanno messo in prigione e sono molto contenta di averlo fatto».
De André, che aveva scoperto Edgar Lee Masters a circa diciotto anni, rimase colpito dal fatto che «nella vita, si è costretti alla competizione, magari si è costretti a pensare il falso o a non essere sinceri, nella morte, invece, i personaggi di Spoon River si esprimono con estrema sincerità, perché non hanno più da aspettarsi niente, non hanno più niente da pensare. Così parlano come da vivi non sono mai stati capaci di fare». Anni dopo riprese il libro, scelse 9 tra le 244 poesie e le riscrisse attualizzandone le vicende. Fernanda Pivano valutò straordinaria l’operazione: «Sono contenta dei suoi cambiamenti e mi pare che lui abbia molto migliorato le poesie. Sono molto più belle quelle di Fabrizio, ci tengo a sottolinearlo».
Nelle nove tracce musicali sfila l’umanità tipica della poetica deandreiana degli ultimi: lo scemo del villaggio che non riesce a dare forma al “mondo” che custodisce nel cuore; il giudice nano che si vendica del pettegolezzo della gente condannando a morte per soddisfare il proprio sadismo; l’ateo al quale due guardie bigotte cercano l’anima a forza di botte; il malato di cuore che muore baciando la donna amata (“il mio cuore le restò sulle labbra”); il medico che cura i più miserabili senza chiedere alcuna retribuzione; il chimico che muore da solo per paura dell’amore; l’ottico che realizza lenti speciali per consentire ai suoi clienti di “inventare i mondi sui quali guardare”; l’autobiografico suonatore Jones, musicista alcolizzato il cui anarchismo ispira il titolo dell’album.
Dormono tutti sulla collina, insieme alle vittime del lavoro e ai caduti in guerra, a Bert ucciso in una rissa, ad Ella morta di aborto e alla prostituta Maggie, “uccisa in un bordello dalle carezze di un animale”. Accomunati dalla morte, la livella che ci rende uguali e fa di ogni esistenza “un corpo fra i tanti a dar fosforo all’aria”.

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La cura

Ero poco più che un adolescente quando cominciai ad ascoltare Franco Battiato nelle musicassette EMI. All’inizio mi incuriosiva questo personaggio singolare, anche se non riuscivo a cogliere tutti i riferimenti culturali che le sue canzoni suggerivano. Mi affascinavano la profondità del pensiero e l’eclettismo di una produzione improntata sulla sperimentazione artistica. Intuivo che i suoi testi contenevano più livelli di lettura anche quando l’orecchiabilità del brano poteva trarre in inganno, come nelle celeberrime “Centro di gravità permanente” e “Bandiera bianca”. Tutto questo mi bastava: è stato il punto di partenza per entrare in mondi a me sconosciuti; mi ha suggerito letture e domande sul mondo, sugli uomini e sul rapporto con il divino.
Mi è venuto in mente questo mio “incontro” con Battiato, ascoltando per caso alla radio “La cura” (album: “L’imboscata”, 1996). Con la tristezza nel cuore per le condizioni di salute che hanno determinato il ritiro di Battiato dalle scene e alimentato le voci di una misteriosa malattia che ne avrebbe intaccato le facoltà mentali. La più atroce delle condanne per chi ha cercato di spingere la mente oltre i gretti accadimenti terreni e materiali.
Ho chiuso gli occhi e ho cercato di concentrarmi sui versi composti da Battiato e dal filosofo Manlio Sgalambro, per “respirarli” a pieni polmoni. Non so se “La cura”, come qualcuno sostiene, sia la più bella canzone d’amore italiana. Graduatorie di questo genere sono antipatiche. Come si fa a stabilire se sia più bella di “Caruso” (Dalla), “La costruzione di un amore” (Fossati), “Vorrei” (Guccini), “Sempre e per sempre” (De Gregori)? Si potrebbe continuare a lungo.
“La cura” non è una semplice canzone d’amore. Tratta dell’amore nella sua forma più alta e universale, quella capace di elevare lo spirito e di condurre l’uomo alla scoperta della sua vera essenza, temi che Battiato ha sviluppato attraverso lo studio delle dottrine religiose orientali e la pratica del sufismo. Se il verso “tesserò i tuoi capelli come trame di un canto” è un inno d’amore, “percorreremo assieme le vie che portano all’essenza” richiama il misticismo già affrontato nel brano “E ti vengo a cercare”.
Per qualcuno, l’io narrante della canzone è Dio stesso. Sarà Dio a prendersi cura dell’artista, un “essere speciale”. Lo proteggerà da paure, turbamenti, ingiustizie, inganni, fallimenti. Gli porterà il silenzio e la pazienza. Percorrerà al suo fianco le vie che portano all’essenza. Gli donerà le leggi del mondo.
Mentre le parole libravano nell’aria, pensavo a Battiato oggi. Forse sofferente, forse “non presente a se stesso”: o forse, finalmente al di là del tempo e dello spazio, nella condizione di pace inseguita per tutta la vita.

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