La libertà è un colpo di tacco

Mancavano dieci giorni al compimento dei miei nove anni quando, il 5 luglio 1982, il capitano del Brasile Socrates beffò Dino Zoff con un rasoterra tra palo e gamba sinistra, nello stadio Sarrià di Barcellona che ospitava l’ultima partita del secondo turno eliminatorio del gruppo C, nel mondiale di Spagna. Ma il gol segnato dal Doutur (era laureato in medicina) non servì alla squadra allenata da Tele Santana, schiantata dalla tripletta di Paolo Rossi che ribaltò anche il secondo pareggio di Falcao e trascinò i ragazzi di Enzo Bearzot in semifinale e infine all’apoteosi del Bernabeu contro la Germania. Per i tifosi verdeoro fu “la tragedia del Sarrià”, seconda soltanto al Maracanazo contro l’Uruguay nel 1950. Troppo impegnati a contemplare il proprio ombelico, si disse dei vari Socrates, Falcao, Zico, Junior, Cerezo, Eder, interpreti della Seleção più talentuosa e meno vincente di tutti i tempi.
Non sapevo ancora niente di quello spilungone barbuto, proprio in quegli anni protagonista di una vicenda sportiva, umana e politica capace di cambiare la storia del Brasile.
Intingendo la penna nell’inchiostro della poesia e della malinconia, Riccardo Lorenzetti ha ricostruito in La libertà è un colpo di tacco (pubblicato nel 2014 da Armando Curcio Editore, con la prefazione di Federico Buffa) l’epopea culminata con i due campionati paulisti consecutivi (1982 e 1983) conquistati dal Corinthians di San Paolo.
Il contesto del romanzo è quello del Brasile del regime dei “Gorillas”, che governò il Paese tra il 1964 e il 1985. Una dittatura militare ormai ai titoli di coda, alla cui caduta contribuì in maniera decisiva il Corinthians dell’allenatore Mario Travaglini, del presidente Waldemar Pires e del sociologo direttore sportivo Adilson Monteiro Alves, del leader Socrates, elegante esteta del colpo di tacco, la giocata imprevedibile e spettacolare che fu il suo inconfondibile marchio di fabbrica. Il Corinthians di Wladimir, Casagrande, Zenon, Ataliba, Biro-Biro, Zé Maria: «Gente che avrebbe potuto indifferentemente vincere un campionato. O scatenare una rivoluzione. E infatti, fecero entrambe le cose».
Socrates fu l’ideatore della “democrazia corinthiana”, fondata sui principi dell’uguaglianza, della partecipazione e della libertà: «I calciatori devono votare. Quello che non avviene nel nostro Paese da vent’anni». Una sorta di comune caratterizzata dall’autogestione e dal ricorso al voto tra calciatori, dirigenti e magazzinieri per decidere sull’organizzazione dello spogliatoio, la scelta del ritiro, il menù del pranzo, la modalità degli allenamenti, la formazione da mandare in campo, la campagna acquisti e la composizione della rosa, oltre che per stabilire la strategia “politica” del club: lo striscione portato a centrocampo all’inizio delle partite (“Vincere o perdere, ma sempre con democrazia”) e le scritte sulle magliette: Democracia Corinthiana o Dia 15 vote, con la quale i brasiliani furono esortati a partecipare alle elezioni che si sarebbero tenute, per la prima volta dopo quattro lustri, nel novembre del 1982. Un modello di democrazia che incise profondamente nel clima asfittico degli anni della dittatura, con ripercussioni sociali e politiche sconvolgenti.
In un’intervista del 1983, Socrates aveva dichiarato: «Vorrei morire di domenica, nel giorno in cui il Corinthians vince il titolo». Morì di domenica, il 4 dicembre 2011, poche ore prima del derby Corinthians-Palmeiras. Da brividi, nel minuto di silenzio osservato a inizio partita nello stadio Pacaembu di San Paolo, il pugno chiuso alzato da tifosi e giocatori per dare l’addio al proprio idolo con il gesto che Socrates ripeteva dopo ogni suo gol. A fine gara il Corinthians si laureò campione nazionale, nel nome del Doutur.

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