Once upon a time in Calabria: stories of Sant’Eufemia

Qualche anno fa scrissi del poema-diario di Giuseppe Ciccone (Trough the circles of hell: a soldier’s saga, Relicum Press 2016), un preziosissimo documento sulla prima guerra mondiale pubblicato a cura della figlia Tina (Fortunata) e del nipote Joseph Richard Ciccone, professore di Psichiatria presso l’Università di Rochester.
La storia di Tina è singolare. Dopo un’intera esistenza trascorsa negli Stati Uniti (l’ultimo suo viaggio in Italia risale a mezzo secolo fa), che ne aveva quasi cancellato il passato italiano, calabrese ed eufemiese, giunta alla terza età si è dedicata al recupero delle proprie radici. L’ultimo frutto di questo esercizio della memoria è un omaggio a figli, nipoti e pronipoti: Once upon a time in Calabria: stories of Sant’Eufemia, uno spaccato degli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso a Sant’Eufemia d’Aspromonte.
Il capofamiglia va avanti e indietro dagli Usa e ogni volta che lascia il paesino ha un figlio in più: Luigi, Nino, Orsola, Rosa e Tina. Gradualmente, tutta la famiglia raggiunge il genitore, tranne Orsola, che si trasferisce a Roma dopo il matrimonio con il ragazzo che per cinque anni percorre in bicicletta la strada da Delianuova per poterla corteggiare mentre si approvvigiona d’acqua in una fontana pubblica. Nel 1950 giungono infine negli Stati Uniti la diciannovenne Tina e la mamma, Francesca Pillari.
L’emigrazione era allora un fenomeno caratterizzato da mesi, anni di silenzi. Quando arrivava una lettera, per tutto il giorno era festa tra le mura di casa Ciccone, un’abitazione con giardino che era stata residenza estiva dei Ruffo e nella quale, secondo una leggenda locale non riscontrata, aveva addirittura pernottato Garibaldi.
Francesca, che da bambina aveva casualmente incontrato il brigante Giuseppe Musolino, è una sorta di autorità medica, in virtù della frequentazione dello studio del medico condotto Bruno Gioffré-Napoli, la cui immensa libreria è per Tina un luogo magico oltre che di formazione. Emblematico l’episodio del parto podalico, portato a termine senza procurare danni né alla neonata né alla partoriente.
Sono tempi difficili, caratterizzati da un’alta mortalità infantile. Tina conosce presto il volto della morte, quando perde una compagna di scuola per una malattia sconosciuta che la consuma nel giro di pochi giorni. Ogni tanto in paese si sviluppa un incendio che distrugge le baracche in legno. Ninuzzo, il primo ad accorrere ovunque quando si trattava di domare le fiamme, muore mentre tenta di spegnere il fuoco che divora la sua abitazione.
I “quadri” storici di Tina sono popolati dagli artigiani del tempo, veri e propri “artisti”: scultori, orafi, ebanisti, calzolai, sarti. Sono gli anni del consenso al regime fascista: «Non avevamo idee politiche, ma eravamo felici di indossare le uniformi, di marciare, di fare gli esercizi ginnici». Tina stessa partecipa e vince un concorso, per il quale viene premiata a Reggio Calabria, sviluppando la traccia “Cosa significa per te essere un balilla o una giovane italiana?”.
Molte ragazze vanno dalle suore e imparano a cucire, a lavorare a maglia, a ricamare, a stirare: tutto ciò che serve per diventare brave donne di casa. La società è patriarcale e non priva di pregiudizi. Domenico, il figlio del fornaio, viene appellato “il poeta” perché porta i capelli lunghi e veste in modo eccentrico. La sua omosessualità è “una vergogna per la sua famiglia”, tanto che il padre perde i clienti e le sorelle non riescono a trovare marito. Maria non viene assunta come domestica dai Gioffré–Napoli perché è una ragazza madre. Un’altra giovane è molto chiacchierata perché troppo “moderna” e la stessa Tina viene rimproverata dalla madre quando prova il rossetto: «Cosa direbbe tuo padre se ti vedesse?». Quel padre lontano ma presente, in posa nella foto incorniciata e tenuta accanto a quella del presidente statunitense Franklyn Delano Roosvelt, che precauzionalmente finirà in fondo al baule della biancheria negli anni del secondo conflitto mondiale.
I ricordi più dolorosi sono legati alla guerra, il cui andamento Tina e la mamma seguono alla radio. Alcuni eufemiesi ospitano gli sfollati dei paesi vicini colpiti dai bombardamenti e, quando fa buio, scatta l’ordine di oscurare le finestre con i vestiti del lutto, per non dare punti di riferimento all’aviazione alleata. La popolazione si rifugia nella galleria o in tunnel scavati sui costoni della montagna. La prima volta Tina avverte un forte senso di claustrofobia, stringe forte la mano della mamma, non riesce a dormire.
Ma poi la guerra finisce e si può tirare un sospiro di sollievo. Non avendo altro, la popolazione festante regala ai liberatori frutta di stagione, ma ci sono anche strascichi negativi. Le armi abbandonate dai tedeschi in fuga finiscono nelle mani sbagliate e delinquenti terrorizzano il paese con furti, richieste di soldi e soprusi. Bruno torna traumatizzato dai campi di prigionia in Germania, pronuncia parole senza senso e ripete ossessivamente nome, numero di matricola, plotone di appartenenza. A Cosimo, compagno di giochi di Tina, un ordigno trovato nei campi dell’Aspromonte strappa un braccio.
I ricordi di Tina sono stati messi nero su bianco, in lingua inglese, per una diffusione “familiare”. Eppure, nonostante qualche inesattezza storica e l’inevitabile ripetitività di alcuni passaggi, il libro ha il pregio di ricostruire con dovizia di particolari un periodo storico importante anche per la piccola comunità eufemiese.
La storia, quella grande così come quella piccola, risulta di difficile comprensione se non si segue la raccomandazione storicistica dell’autrice: non si può giudicare ciò che è stato utilizzando i valori di oggi; non si può guardare al passato indossando gli occhiali del presente.

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My long distance friend Tina e l’Agape

Racconto questa bella storia per tre ragioni: perché la protagonista mi ha autorizzato a renderla pubblica; perché le belle persone vanno indicate come modelli positivi di cittadini del mondo; perché spesso i social sono un luogo dove prevale l’odio, mentre questa storia dimostra che fortunatamente non sempre è così. Puoi utilizzare un martello per attaccare un quadro ad una parete, in modo da renderla più bella; puoi utilizzare lo stesso martello per spaccare la testa a qualcuno che non ti sta particolarmente simpatico. La differenza è sostanziale e sta tutta nell’uso che di un determinato strumento viene fatto.
Con Tina (Fortunata) Ciccone Sturdevant ci siamo “conosciuti” su Facebook nell’aprile del 2016, un mese dopo la pubblicazione negli Stati Uniti di “Through the Circles of Hell: A Soldier’s Saga”, la testimonianza sulla Prima guerra mondiale di Giuseppe Ciccone, suo padre. Una sorta di diario in versi tenuto in un baule fino al 1971, quando viene consegnato dall’anziano genitore alla figlia, che insieme al nipote J. Richard Ciccone (professore presso l’Università di Rochester) decide di darlo alle stampe quarantacinque anni dopo averlo ricevuto, con una traduzione inglese a fronte.
Da allora siamo rimasti sempre in contatto: “keep in touch” è infatti la chiusura delle nostre email e lettere, che firmiamo “your long distance friend”. All’inizio utilizzavamo entrambi l’inglese, poi qualche volta io l’italiano e lei l’inglese, infine entrambi l’italiano.
Tina è infatti nata e cresciuta a Sant’Eufemia. Ha ricordi della vita in paese e di alcuni suoi personaggi degli anni Trenta e Quaranta: ad esempio mi ha più volte scritto del dottore Giuffrè-Napoli (’u medicu da ’rrina), la cui abitazione ha frequentato. Nel 1950, raggiunge con la mamma negli Stati Uniti il padre, due fratelli e una sorella; successivamente sposa Ernest Sturdevant e dà alla luce quattro figli: Gary, Donna, Lisa e Linda. Oggi vive a Silver Spring (Maryland) ed è una nonna e bisnonna felice.
Gli articoli del mio blog hanno restituito a Tina le radici, facendole anche recuperare quella lingua italiana che non utilizzava più da mezzo secolo: così mi ha scritto più volte lusingandomi parecchio, perché lo scopo principale di “Messaggi nella bottiglia” è proprio il recupero della nostra memoria storica. “Fatti di oggi, memorie di ieri” è il sottotitolo del blog: e tra i fatti di oggi ci sono anche le iniziative dell’Agape. Parlare di volontariato non vuol dire “sentirsi belli”: è un tentativo di allargare il campo, di spingere soprattutto i giovani a provare questa esperienza utile per sé e per la comunità nella quale si vive.
Tina ha sempre dimostrato di apprezzare le nostre attività: talmente tanto da decidere di “dare una mano”, nonostante la distanza. Così, inaspettata, è giunta in questi giorni una donazione per la nostra associazione: «Voglio mandare un regaluccio per i bambini aiutati dall’Agape». Un assegno a nome mio, da girare all’Agape “per un programma di tua scelta”, che ha suscitato in tutti noi volontari emozione e gratitudine.
Il contenuto della lettera di accompagnamento è tra i riconoscimenti più belli che abbia mai ricevuto, ma quello lo tengo per me. Grazie, grazie, grazie, mia cara “long distance friend”.

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Dall’Aspromonte al Carso

Un baule misterioso sigillato da decenni e un uomo dall’espressione assente, immerso in una dimensione impenetrabile. Una camera diventata il rifugio di un anziano signore che vi trascorre, barricato dentro, gran parte del proprio tempo. Trafitto dai ricordi, inseguito dai demoni di un passato che in realtà non è mai passato, dentro la testa l’inferno vissuto nelle trincee del Carso più di mezzo secolo prima. Con l’apertura della vecchia cassa il segreto viene svelato. Un segreto che emerge dalle pagine ingiallite del vecchio quaderno custodito come una reliquia da sorvegliare, notte e giorno. E che consente di riavvolgere il nastro della vita di quell’uomo taciturno, dai pensieri inceppati come le parole tartagliate e pronunciate a fatica a causa della balbuzie.
Gli anni Settanta sono appena iniziati: Tina Ciccone Sturdevant torna a Sant’Eufemia d’Aspromonte per fare visita al genitore ultraottantenne, da tempo ritiratosi nel paese natio dopo decenni di spola tra gli Stati Uniti e l’Italia. Giuseppe Ciccone, primogenito di Luigi e Orsola Orlando, ha soltanto diciassette anni quando, nel 1904, per la prima volta solca l’Atlantico a bordo del tre alberi “Patria”, costruito nel 1882 a Stettino e battente bandiera tedesca con il nome “Rugia”, prima di passare al servizio di Francia e Italia per coprire le tratte transoceaniche Marsiglia-New York e Napoli-New York: 96 viaggiatori di prima classe e 1.100 in seconda. Negli anni successivi ritorna più volte in Italia: nel 1912 sposa Francesca Pillari, dalla quale avrà cinque figli (Luigi, Nino, Orsola, Rosa e Tina) che saranno allevati dalla mamma nell’abitazione di via Carlo Muscari. Proprio negli Stati Uniti, tramite il Consolato italiano di Albany (New York), Giuseppe viene raggiunto dalla chiamata alle armi “per mobilitazione”, ai sensi del Regio Decreto 22 maggio 1915 n. 703.
Il racconto dell’odissea vissuta dal fante Ciccone – numero di matricola 13784 – riemerge oggi, a distanza di un secolo, grazie alla figlia Tina, che nel 1971 riceve dal genitore il regalo che è la chiave di quei silenzi, tenuta fino ad allora ben nascosta dentro il baule. Tina custodisce per più di quarant’anni il manoscritto, infine decide di curarne la pubblicazione ricorrendo all’aiuto del nipote Joseph Richard Ciccone, professore di Psichiatria presso l’Università di Rochester, il quale individua nel diario dodici eventi traumatici responsabili del “disturbo da stress post traumatico” (PTSD: post-traumatic stress disorder) di cui Giuseppe Ciccone era probabilmente affetto, una patologia che si manifesta con la perdita di interesse per la realtà circostante. Il risultato finale è nelle pagine di Trough the circles of hell: a soldier’s saga. Giuseppe Ciccone (Relicum Press, marzo 2016), poema-diario in lingua originale con traduzione inglese a fronte, in un volume impreziosito dalle illustrazioni di Philip Costa e da un’appendice fotografica.
Un documento straordinario, testimonianza preziosa dell’esperienza vissuta da un contadino dell’Aspromonte nelle trincee del Carso, il mattatoio della “inutile strage” denunciata da Benedetto XV. Nel dialetto italianizzato caratteristico di chi possiede un’istruzione approssimativa, Ciccone dà forma e sostanza ai ricordi del periodo che va dal suo imbarco sul “Duca d’Aosta” (21 ottobre 1916) all’agosto del 1917, data in cui il racconto si interrompe. La forma letteraria è quella del poema con versi in rima più o meno regolare, al quale l’autore dà un titolo significativo: “Guerra Italo Austriaca. Storia della mia vita sventurata”. Il manoscritto è stato scritto e riscritto più volte prima di essere copiato in un quaderno che, dal logo della Cornell University stampato sulla copertina, consente di fissare anteriormente agli anni Quaranta la stesura definitiva, presumibilmente dopo la “fuga” di Ciccone negli Stati Uniti a bordo della nave “Conte Biancamano” nel 1931, su suggerimento dei parenti preoccupati dalla possibilità che le sue esternazioni critiche nei confronti del regime mussoliniano potessero provocare la ritorsione delle autorità fasciste. Negli anni a seguire anche il resto della famiglia giunge alla snocciolata nel Nuovo Continente e, per i figli, l’emigrazione diventa una scelta di vita definitiva.
Il diario si apre con il rientro dagli Stati Uniti “per fare l’obrico [il dovere] di cittadino onorato”. La navigazione travagliata, lo sbarco a Genova e il viaggio in treno fino a Roma e da lì a Bagnara, l’incontro festoso con la famiglia (“Mi sono allegrato di troppo vino/ ora il mio paese era vicino”) e le due ore di cammino a piedi per arrivare a Sant’Eufemia. A fine gennaio 1917 si trova già a Lecce, per l’addestramento con il 48° Reggimento (Brigata Ferrara): due mesi di esercitazioni, marce e tiri al bersaglio, ma anche la lotta quotidiana contro i pidocchi, la sporcizia e la “puzza di sepoltura” della caserma (“il paese dei porci”). Quindi la partenza per il fronte, il 13 aprile: “era un giorno caldo e bello/ ma io ero in tribolazione/ il treno era venuto presto/ i soldati erano con male amore/ tutte le borghese si misero a gridare/ le bandiere vennero a sventolare”.
Nei versi sofferti del componimento prendono vita la tragedia della guerra, la paura e le preghiere dei soldati, ma anche l’inadeguatezza del comando dell’esercito, che la storiografia ufficiale confermerà in maniera inconfutabile e che però appare evidente già agli occhi del fante eufemiese.
Ciccone si ritrova nel mezzo dell’inferno scatenato dall’offensiva italiana nella X Battaglia dell’Isonzo (12 maggio – 4 giugno 1917): “Alle 10 venne l’ordine del Comando/ dovevamo andare tutte all’assalto/ come le pecore senza padrone”. La sua compagnia si trova nel settore del Dosso Fáiti (o Dosso dei Faggi), sotto il fuoco e dei cannoni e delle incursioni aeree del nemico. La trincea è uno spettacolo spaventoso di sangue, di morti che Ciccone sposta di peso per lasciare libero il passaggio. Il bombardamento che annienta “la metà della compagnia” lo sorprende proprio mentre cerca di guadagnare il camminamento per cercare riparo dietro la linea del fuoco. È vivo per miracolo, nonostante la ferita provocata alla natica destra da una scheggia che lo fa cadere a terra “tramortito”. La scheda trovata tra i documenti dell’Ufficio notizie militari, oggi consultabili presso l’Archivio di Stato di Reggio Calabria, attesta il ricovero di Ciccone presso l’ospedale da campo 031 di Mariano del Friuli, dove giunge su una barella dopo che i commilitoni lo recuperano dolorante e riescono a trarlo in salvo. Il racconto della sofferenza dei soldati è straziante: le urla disumane dei feriti e dei militari sottoposti all’amputazione di braccia e gambe (“pareva che scannano li maiali”), le invocazioni disperate ai Santi e alla Madonna.
Il diario si conclude con le dimissioni dall’ospedale il 2 agosto e la sosta a Cividale del Friuli, prima del ricongiungimento con il comando del 48° Reggimento, a San Lorenzo di Mossa. I curatori del libro sono certi della continuazione del poema in un altro quaderno, purtroppo andato perso, che doveva completare il racconto dell’esperienza di Ciccone sui campi di battaglia della Grande Guerra. Gli ulteriori ricoveri annotati sulla scheda dell’Ufficio notizie militari confermano che il conflitto bellico, per il soldato di Sant’Eufemia, non si conclude con la vicenda del suo ferimento: 19 settembre 1917, catarro gastrico (ospedale di guerra 57); 1 agosto 1918, enterite (ospedale da campo 0142); 28 ottobre 1918, febbre (ospedale da campo 0107). Tuttavia, non è possibile affermare con certezza che Ciccone, Cavaliere dell’Ordine di Vittorio Veneto con decreto del 31 marzo 1971, sia stato in prima linea nell’XI Battaglia dell’Isonzo e nello sforzo decisivo che porta l’esercito italiano alla Vittoria.
Dettagli che non intaccano il valore etico e storico di un documento unico, che mescola onore e codardia, senso del dovere e orrore, facendo diventare universale la vicenda umana del protagonista: un uomo traumatizzato dagli eventi bellici e sopravvissuto soltanto fisicamente alla mattanza della Prima guerra mondiale, commovente nello sforzo di connettere la propria esistenza con la vita della moglie, dei figli, dei nipoti e, in definitiva, con il mondo brulicante fuori dalla stanza eletta a prigione volontaria.

*Articolo pubblicato su Il Quotidiano del Sud, 03/07/2016

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