Gli anni Ottanta di mio fratello Mario. E anche i miei

A scrivere sugli anni Ottanta, non ci si stancherebbe mai. Sarà che eravamo dei ragazzini spensierati, sarà che il passato ci strappa quasi sempre un sorriso, sarà che l’ingenuità e l’innocenza di quel tempo non le ritroveremo più. Molti di voi conoscono mio fratello Mario, da 14 anni “esule” (secondo la sua autoironica definizione) a Londra. È più piccolo di me di nemmeno due anni, per cui abbiamo avuto un’adolescenza identica. Ha scritto un pezzo sugli anni Ottanta, che sono felice di riproporre sul mio blog. Chi in quegli anni c’era sorriderà, chi non c’era forse avrebbe voluto esserci. Alcune chicche, tipo quella finale del mangianastri sulle Vespe, le avevo scordate.

Associo gli anni Ottanta alla parola “semplicità”. Nel 1980 avevo 5 anni e grazie al telefilm Spazio 1999, vivevo nella certezza che il mondo sarebbe finito nel 2000. Nel mio cervello da bambino, però, il 1999 era lontano anni luce, perciò non c’era niente di cui preoccuparsi. Non c’erano complicazioni allora. Il mio unico problema esistenziale riguardava la “signora” dell’asilo, la quale aveva notato che ero mancino ed aveva deciso di correggere quel mio difetto, obbligandomi a tenere la mano sinistra dietro la schiena. Sfortunatamente per lei, anche a quell’età facevo di testa mia. A casa scrivevo con la sinistra, pagine e pagine di vocali e lettere dell’alfabeto. All’asilo, tenevo la matita con la destra, ed appena la megera voltava occhio, scattavo dai box con la sinistra. Ero velocissimo. Fui scoperto una mattina d’inverno, ma troppo tardi. Il danno era fatto, non avrei mai scritto con la destra, se non altro per questioni di principio.
La scuola elementare si rivelò una pacchia immane. Il mio professore credeva nell’attività fisica. Ricordo con piacere gli sguardi di invidia degli altri bambini sempre chiusi in classe o nella migliore delle ipotesi in terrazzo mentre noi si giocava per ore in cortile. Le bambine erano delle funambole nel gioco dell’elastico. Noi bambini eravamo impegnati in interminabili partite di pallone, interrotte solo al suono della campanella. Se pioveva, si andava in palestra. Per motivi tuttora a me alieni, io ero il primo della classe, uno status che mi permetteva di esprimere un’opinione su tutto.
Erano gli anni di Dallas, che mia madre guardava religiosamente il lunedì sera. Le attrici avevano delle acconciature impossibili. Quando un giorno il professore mi chiese di dare la definizione di volume, io risposi che un esempio eclatante erano i capelli di Sue Ellen, la moglie ubriaca di JR. Anche da bambino mi dilettavo in associazioni di idee improbabili ma che il mio professore incoraggiava. Quando le disse che ero un creativo, mia madre non dimostrò però nessun entusiasmo. In TV guardavo tutti i cartoni animati, ma poiché Candy Candy, Anna dai Capelli Rossi, Remi e Heidi erano roba da bambini rammolliti, io mi concentravo su Gig Robot d’acciaio, Goldrake e Mazinga Zeta: probabilmente le tette esplosive di Afrodite A, la fidanzata di Mazinga, al giorno d’oggi sarebbero state censurate durante la fascia protetta. Il sabato c’era Fantastico con Pippo Baudo ed Heather Parisi, che non solo era americana, ma era entrata nell’immaginario collettivo perché un gran bel pezzo di figliuola.
In un batter d’occhio mi ritrovai nell’86, in scuola media, corso C, quello d’Inglese. Guardavamo con sufficienza gli sfigati del corso A e B, che studiavano Francese e quindi venivano ritenuti inferiori. Inspiegabilmente, ero ancora primo della classe, ma in realtà ero ignorante come una capra. L’87 è stato l’anno dei miei primi turbamenti pre-adolescenziali. All’improvviso, il mensile taglio di capelli diventò un momento irrinunciabile. Penso che i barbieri di paese fossero responsabili dell’educazione sessuale di intere generazioni di ragazzi. A meno che non si avesse un fratello maggiorenne, era lì che si aveva accesso a materiale VIETATO e fumetti porno. I più popolari erano Sukia, la vampira assetata non solo di sangue, ed Il Camionista, che incidentalmente aveva il mio stesso nome: non vedevo l’ora di farmi crescere i baffi.
Ad 11 anni scoprii la “piazza” (piazza Matteotti) e la mia vita cambiò radicalmente. Si giocava a calcio dalle 16 alle 20, quando mia madre prelevava me e i miei fratelli in Fiat 500. Quelli erano gli anni dei record. Il più eclatante era quello dei giri della piazza in bicicletta senza mani, tuttora detenuto da Calarco. Si fermò a mille per sopraggiunta oscurità. Io detenevo quello del giro della piazza in pattini a rotelle: fermai il cronometro a 17.9 secondi. Talvolta facevamo delle trasferte in pineta, che a suo tempo era un pezzo di bosco, una distesa d’erba ed alberi. Lì, dribblando pure i tronchi, sfidavamo a calcio i bambini “pinetoti”. Il mio albero era però in piazza, sulla sinistra, vicino al muretto, che era un altro punto di incontro dove si svolgevano anche le sfide di briscola. Spendevamo ore arrampicati su quell’albero. Ognuno aveva il suo ramo, sul mio vi avevo inciso il mio nome. Quell’albero lo tagliarono nel 1993: piansi. Quando avevamo fame ci riversavamo sugli orti: eravamo peggio delle locuste e mangiavamo di tutto: ciliegie, prugne, fragole, albicocche, pesche, lattuga, finocchi, fave. Non lavavamo mai niente. Al limite ci soffiavamo sopra. Nessuno è mai stato male, a riprova che l’esposizione allo sporco ed ai batteri tempra il sistema immunitario e che le pubblicità odierne su prodotti che uccidono il 99.9 di batteri dovrebbero essere bandite perché promuovono solo psicosi di massa.
Quelli erano anche gli anni dell’orologio Casio con calcolatrice incorporata, del cubo di Rubik, di jeans avvolti sulle caviglie, di pettinature improbabili e di cinture dalle fibbie pesantissime, armi improprie da dichiarare ai Carabinieri. In paese imperversavano le Vespa 50, rigorosamente truccate. Avrei venduto mia madre per possederne una, con tanto di antenna e mangianastri incastrato nel porta oggetti, così tamarramente geniale che proporrei una raccolta di firme per riproporla. Poi, all’improvviso giunse il 1989, con una tempesta ormonale che mi fece esplodere la faccia. Fu la fine dell’innocenza.
Mi chiamo Mario, ho 37 anni. Negli anni Ottanta ero un bambino. Segretamente, lo sono ancora.

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La Giornata della Memoria

La memoria è un dovere e il modo migliore per commemorare l’Olocausto è affidarsi alle parole di chi c’era.
Perché non accada mai più.

Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo. In un attimo, con intuizione quasi profetica, la realtà ci si è rivelata: siamo arrivati al fondo. Più giù di così non si può andare: condizione umana più misera non c’è, e non è pensabile.
Nulla più è nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli; se parleremo, non ci ascolteranno, e se ci ascoltassero, non ci capirebbero. Ci toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare sì che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga.
Noi sappiamo che in questo difficilmente saremo compresi, ed è bene che così sia. Ma consideri ognuno, quanto valore, quanto significato è racchiuso anche nelle più piccole nostre abitudini quotidiane, nei cento oggetti nostri che il più umile mendicante possiede: un fazzoletto, una vecchia lettera, la fotografia di una persona cara. Queste cose sono parte di noi, quasi come membra del nostro corpo; né è pensabile di venirne privati, nel nostro mondo, ché subito ne ritroveremmo altri a sostituire i vecchi, altri oggetti che sono nostri in quanto custodi e suscitatori di memorie nostre.
Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso; tale quindi, che si potrà a cuor leggero decidere della sua vita o morte al di fuori di ogni senso di affinità umana; nel caso più fortunato, in base ad un puro giudizio di utilità.

[Primo Levi, Se questo è un uomo, p. 23]

Di seguito, la testimonianza di Primo Levi raccolta da Enzo Biagi e riproposta ne Il Fatto, trasmissione di successo andata in onda sulla Rai dal 1995 al 2002, quando fu soppressa dall’“editto bulgaro”.

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Il 2011 dalla A alla Z

A – AZZARÀÈ durata quattro mesi la prigionia di Francesco Azzarà, logista presso un centro pediatrico aperto da Emergency a Nyala, nel Darfur meridionale. In mano a una banda di sequestratori sudanesi dal 14 agosto, il cooperante di Motta San Giovanni (RC) è stato rilasciato il 16 dicembre, dopo che il suo rapimento aveva provocato una vasta mobilitazione dell’opinione pubblica.
B – BIN LADEN. Nel decennale dell’attacco qaedista alle Torri Gemelle, lo “sceicco del terrore” viene scovato ed eliminato in un nascondiglio ad Abbottabad, in Pakistan, il 2 maggio. Il corpo di Bin Laden viene poi gettato in mare. L’immagine che passerà alla storia ritrae il presidente Obama, il vice Biden, Hillary Clinton, il capo del Pentagono e lo staff presidenziale mentre seguono in diretta il blitz dei Navy Seals dalla Situation Room della Casa Bianca.
C – CATASTROFI NATURALI. L’Italia frana e ogni temporale diventa un’emergenza ambientale. Anche il 2011 piange parecchie vittime (5 nelle Marche e in Romagna, 12 nello spezzino e in Lunigiana, 6 a Genova e 3 nel messinese) e conta danni per milioni e milioni di euro. La devastazione ambientale e l’incuria dell’uomo sono il migliore alleato della natura, che ogni tanto si ribella e lascia dietro di se soltanto fango e morte.
D – DSK. Annus horribilis per il direttore generale del Fondo monetario internazionale Dominique Strauss-Kahn, passato dall’altare della possibile sfida a Sarkozy per la conquista dell’Eliseo al carcere, accusato di tentata violenza sessuale ai danni della cameriera di un hotel di New York. Accuse rivelatesi infondate, che hanno alimentato le voci di un complotto politico. Prosciolto negli Usa, DSK è stato successivamente accusato di molestie in Francia.
E – EURO. Lo strappo di Londra, il tandem Francia/Germania, le due velocità dell’Europa, zavorrata dal peso del debito dei PIGS (Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna) e dalla sofferenza dei conti italiani. La crisi del debito “sovrano” in Grecia è stata la spia della difficoltà dell’eurozona. Il rischio è che sulla moneta unica si scateni la resa dei conti: “salvare l’Euro o salvare l’Europa?”. Senza unione politica, il destino dell’euro sembra segnato.
F – FUKUSHIMA. Il numero delle vittime provocate dal terremoto (8.9 scala Richter) e dallo tsunami che ha colpito il Giappone l’11 marzo è incerto (circa 30.000), ma la tragedia della centrale nucleare di Fukushima avrà conseguenze sull’ecosistema dell’intero pianeta per i prossimi decenni. Radiazioni, contaminazione dell’aria e del sottosuolo: il disastro ecologico ha indotto la Germania ad abbandonare l’energia atomica; in Italia, un referendum ha chiuso la porta al nucleare.
G – GURU. “Stay hungry, stay foolish” (Siate affamati, siate folli), il monito lanciato da Steve Jobs ad una platea di neolaureati quando già il male lo stava divorando. Vinto dal cancro il 5 ottobre, il cofondatore di Apple e ideatore di prodotti tecnologici innovativi come l’iPhone e l’iPad è diventato un’icona, un “genio creativo e visionario” paragonato a straordinarie personalità del passato (Leonardo, Newton, Einstein) per la capacità di incidere sul corso della storia.
H – HASHTAG. Il 2011 è stato l’anno di Twitter. Dalla Primavera araba alla crisi di governo italiano, alle manifestazioni degli Indignati, non c’è stato avvenimento che non sia stato raccontato da protagonisti e testimoni comuni armati di smartphone. Simbolo di questo nuovo modo di raccontare la cronaca è l’hashtag (#), l’etichetta che raccoglie i tweet su un determinato tema. #yearinhashtag, ideato da Claudia Vago, Luca Alagna, Marina Petrillo, Maximiliano Bianchi e Mehdi Tekaya sintetizza dodici mesi di notizie “da un punto di vista particolare: la Rete e i suoi utilizzatori”.
I – IRAQ. Otto anni e 4.474 morti dopo gli Usa lasciano l’Iraq. Per le vittime irachene il bilancio è incerto: almeno 100.000 tra militari e civili, “effetti collaterali” dei bombardamenti di villaggi sospettati di nascondere truppe fedeli al regime di Saddam. Delle cause portate a pretesto per scatenare la guerra (appoggio ad Al-Qaeda e programma di armamenti di distruzione di massa) nessuna si è rivelata fondata. L’eliminazione di Saddam non ha pacificato l’Iraq e il ritiro dell’esercito Usa lascia un grosso punto di domanda sul futuro di Baghdad.
L – LACRIME. Quelle di Elsa Fornero, ministro del lavoro e delle politiche sociali nel governo Monti, durante la presentazione della manovra economica “lacrime e sangue” (tanto per restare in tema). Ma soprattutto le nostre, se tagli al welfare, tasse e aumenti vari non saranno compensati da misure per la crescita. Ora come ora, l’impressione è che a pagare saranno i soliti, mentre altri soliti la faranno franca, visto che rendita, patrimoni e privilegi sono stati appena scalfiti. Non ci resta (davvero) che piangere.
M – MONTI. Anche se un suo ministro piange, il professore rimane impassibile, tanto da continuare ad illustrare i contenuti della riforma previdenziale e, bando alla ciance, “correggimi; commuoviti ma correggimi”. Invocato come il salvatore della patria per porre un argine ai disastri del governo Berlusconi, con Monti l’Italia sta lentamente riguadagnando la credibilità che scandali, “cene eleganti” e altre amenità del genere avevano affossato. Il Paese però appare sfiduciato e depresso. Il 2012 sarà un anno di ulteriori sacrifici.
N – NIPOTE DI MUBARAK. È stata la bufala dell’anno, ma l’Italia è un Paese talmente bizzarro che ha ricevuto l’avallo istituzionale. Ruby “rubacuori”, amichetta del premier finita in Questura per un litigio con una prostituta brasiliana, è la nipote marocchina dell’ex leader egiziano Mubarak. L’ha stabilito la Camera dei deputati votando la richiesta di sollevare davanti alla Corte costituzionale un conflitto di attribuzione nei confronti dell’autorità giudiziaria per spostare il processo “Ruby” dal Tribunale di Milano al Tribunale dei ministri. La degna chiusura del ciclo berlusconiano.
O – OCCUPY WALL STREET. Per il magazine statunitense “Time” è il contestatore la “persona dell’anno 2011”. Dagli Indignados in Spagna, scesi in piazza a maggio per manifestare contro le misure economiche del governo Zapatero, a Piazza Tahrir, dove sboccia la primavera araba, a Zuccotti Park, luogo simbolo della protesta nel cuore di Manhattan sgomberato a metà novembre, dopo due mesi di occupazione, è un susseguirsi di manifestazioni culminate con la giornata mondiale dell’indignazione, il 15 ottobre.
P – PRIMAVERA ARABA. È appena iniziato l’anno quando muore Mohamed Bouazizi, laureato disoccupato e venditore ambulante abusivo che a dicembre si era dato fuoco in segno di protesta per le condizioni di miseria in cui vive gran parte della Tunisia. Inizia la “primavera araba”: migliaia di giovani si riversano in piazza e costringono il presidente Ben Alì alla fuga. La rivolta contagia il Nord Africa. Piazza Tahrir, al Cairo, diventa l’epicentro della rivolta egiziana, che costringe Mubarak a passare la mano ai militari. Quindi è la volta della Libia, che si solleva contro Gheddafi e, grazie al sostegno decisivo dell’Occidente, pone fine alla dittatura ultraquarantennale del rais.
Q – QUATTRO SÌDopo 24 quesiti affossati consecutivamente a partire dal 1995, il 12-13 giugno è stato raggiunto il quorum necessario per rendere valida la consultazione referendaria. Le urne hanno detto che gli italiani sono contrari al nucleare e alla privatizzazione dell’acqua. Ma hanno anche bocciato Berlusconi, già bastonato nelle amministrative di maggio, cancellando la legge sul “legittimo impedimento”, una delle tante leggi ad personam licenziata dal Parlamento dei “nominati”.
R – ROYAL WEDDING. Il “matrimonio reale” tra William e Kate è stato l’evento mediatico dell’anno. Seguito in diretta televisiva e sul web da oltre due miliardi di spettatori in tutto il mondo, il “sì” pronunciato nell’abbazia di Westminster ha riconciliato la monarchia Windsor con il popolo inglese, che non aveva mai completamente elaborato il lutto per la perdita di Lady D. La favola moderna della giovane coppia reale ha tutti gli ingredienti per soddisfare la richiesta di sogno presente, in tutti i tempi e ad ogni latitudine, presso l’opinione pubblica.
S – SPREAD. Non avremmo mai sospettato che il nostro primo pensiero, una volta svegli, potesse essere rivolto allo spread. Ormai il nostro umore sale e scende in maniera inversamente proporzionale all’andamento della differenza di rendimento tra i Bund tedeschi e i Btp italiani. Superata quota 500, chiamiamo il 118. Per la prima volta nella storia della Repubblica italiana lo spread ha fatto cadere un governo e ne ha issato un altro. È il primato dell’economia sulla politica.
T – TELEVISIONE. Non siamo ancora al superamento del duopolio Rai-Mediaset, ma segnali di novità importanti arrivano dall’ascesa di La7, trascinata dall’effetto Chicco Mentana e da una politica semplice, favorita dallo smantellamento dell’azienda di viale Mazzini. La Rai si lascia scappare i pezzi pregiati e mantiene fino alla caduta di Berlusconi Minzolini, autore del “più brutto telegiornale della storia” (Aldo Grasso). A parte le quattro puntate di Fiorello, c’è poco da salvare. Interessante l’esperimento di Santoro, in onda su una “multipiattaforma” (emittenti locali, Sky, siti internet e radio).
U – UNITÀ D’ITALIA. Il 150° anniversario è stata un’occasione persa, scivolato nella retorica delle ragioni unitarie e identitarie, da un lato, e nella strumentalizzazione di un revisionismo politico prima che storiografico, dall’altro. Affidata alla penna di giornalisti polemisti più che al rigore scientifico degli storici, la ricostruzione del Risorgimento italiano si è per lo più trasformato in una “controstoria” buona soltanto per i rutti leghisti e per le parate in costume dei neoborbonici.
V – VASTO. Non sappiamo se qualcuno, contraddicendo la raccomandazione di Nichi Vendola, abbia strappato la foto di Vasto, che ritraeva sorridenti il leader di Sel, quello di Idv Antonio Di Pietro e il segretario del Pd Pierluigi Bersani, proiettati verso un’alleanza elettorale e di governo per il dopo-Berlusconi. La costituzione del governo Monti ha rimescolato le carte. Soprattutto l’approvazione della manovra economica ha raffreddato i rapporti tra chi l’ha votata (Pd), chi ha negato la fiducia (Idv) e chi, non avendo rappresentanti in Parlamento, si è ritrovato nel mezzo (strattonato ora dall’uno, ora dall’altro). Le sirene del Terzo polo potrebbero dare il colpo definitivo alle speranze di unità a sinistra.
Z –ZAPATERO. Che sia un periodaccio per la sinistra, anche a livello internazionale, lo conferma la parabola del premier spagnolo Zapatero, travolto dopo sette anni di governo dalla crisi economica: 5 milioni di disoccupati, rischio default e Indignados nelle piazze. Il leader del Psoe ha almeno salvato la faccia, dimettendosi prima della scadenza naturale del mandato e affidando il destino della Spagna ad elezioni anticipate, stravinte dal candidato del partito popolare Mariano Rajoy. Si chiude così una stagione di importanti conquiste in materia di diritti civili (la più nota, la legislazione sulle coppie omosessuali), guardata con interesse dalle sinistre di tutto il mondo.

Pubblicato il 31 dicembre 2011 su http://www.scirocconews.it/index.php/2011/12/31/lalfabeto-del-2011-dalla-a-alla-z/

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E meno male che non è successo niente

Ha dovuto arrendersi all’evidenza. Non ce n’era più uno favorevole alla “bella morte” in un’ordalia parlamentare di prodiana memoria. Si è fermato un attimo prima. Merito, forse, dell’invito di Bossi a fare un passo “di lato”, giunto dopo che già il ministro dell’Interno Maroni aveva dichiarato che l’accanimento terapeutico non aveva senso. Verrebbe proprio da dire sic transit gloria mundi, pensando a quanto i destini e la fortuna della Lega siano dipesi dal rapporto preferenziale avuto con Berlusconi.
L’immagine del premier in Aula, impegnato a controllare i tabulati della votazione per accertarsi sull’identità dei “traditori” è una nemesi crudele per il presidente del consiglio insediatosi con la più ampia maggioranza della storia repubblicana. Sino alla fine, nonostante l’atmosfera da fine impero, è stata però una gara a chi era più convincente e surreale nel minimizzare. Bastava ascoltare il giornalista di Libero Filippo Facci, tanto per fare un esempio utile anche per deprecare la latitanza della Rai, nel momento più delicato per il governo, e l’ottimo servizio pubblico reso invece da una televisione privata (La7), con la lunghissima no-stop pomeridiana: “non è successo nulla”. Cos’altro doveva accadere, se hanno votato 308 deputati su 630 (309 se si prende per buona la giustificazione di Gianni Malgieri: “ero in bagno”)? Il Rendiconto generale dello Stato è stato approvato grazie all’astensione dell’opposizione. In altre parole, la maggioranza non esiste. E Maurizio Paniz aveva ancora la forza di argomentare che “non è detto che quelli che si sono astenuti oggi siano contrari al governo. Occorre fare prevalere la legge dei numeri. Da qui a dire che si è conclusa una storia politica ce ne corre”. Mentre Antonio Martino cercava di metterla sul decoro: “Berlusconi merita una fine più gloriosa. Dovrebbe cercare la fiducia in Parlamento sulla lettera della BCE e, se il Parlamento vota contro, vuol dire che in questo Parlamento non c’è nulla”. Un giochino, o un ricatto.
Sul piano strettamente procedurale, il premier non è tenuto a dimettersi, in assenza di un voto di sfiducia. Ma i consigli degli alleati e lo spread Btp/Bond schizzato a quasi 500 punti non hanno certamente confortato i propositi di resistenza ad oltranza. Cosicché, poco dopo le 18.30, c’è stata la tanta invocata salita al Colle e la promessa di rassegnare le dimissioni subito dopo l’approvazione della Legge di Stabilità. Un modo per concedersi un finale di partita dignitoso, prima di passare il pallino a Napolitano.
A quel punto inizierà un’altra partita, nonostante la contrarietà del leader del Pdl ad ogni ipotesi contraria alle elezioni anticipate. I giochi di Palazzo sono iniziati. Con il fronte anti-voto, interno allo stesso Pdl, pronto ad appoggiare una personalità prestigiosa capace di traghettare il Paese fino al 2013. Altri, invece, temono l’ennesimo bluff. Di Pietro, per esempio, consiglia prudenza e insinua il dubbio sulle reali intenzioni di Berlusconi. Che alla fine potrebbe approfittare dei prossimi giorni per realizzare l’ennesimo gioco di prestigio e ricompattare la maggioranza. Una provocazione, data la promessa fatta al presidente della Repubblica. Ma al tramonto le ombre si allungano e fanno più paura che mai.

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Il ritorno di Santoro

Che sarebbero state poche le novità, è stato chiaro sin dall’ingresso di Santoro nello studio sulle note della canzone di Vasco Rossi “I soliti”. Il pubblico di “Annozero” non ha avuto difficoltà a risintonizzarsi su “Servizio Pubblico”, praticamente il sequel del talk show andato in onda su Rai2. La stessa apertura con l’anteprima del conduttore, che ha ricordato due maestri del giornalismo, Enzo Biagi e Indro Montanelli, ed evocato la “rivoluzione civile” auspicata da Mario Monicelli. La stessa musica, quella di Nicola Piovani. Persino gli stessi caratteri utilizzati per scrivere il titolo del programma. Una formula vincente, confermata dai dati d’ascolto. Circa tre milioni di telespettatori e il 14% di audience (dietro soltanto a Rai1 e Canale5) il colpo messo a segno grazie ad una “multipiattaforma” composta da emittenti locali, Sky, siti internet e radio. La dimostrazione che è possibile fare televisione non di nicchia anche al di fuori del finto duopolio Rai-Mediaset.
“Sarà una tv che sale sulla gru”, era stata la promessa. E due gru, simbolo della protesta dei disoccupati, fanno parte della scarna scenografia. Con esse, tre torri d’acciaio da dove il “frate indignato” Vauro, con il suo “giramento di cordoni”, presenta le sue vignette, Giulia Innocenzi lancia in diretta i sondaggi su Facebook e il “paese reale”, quello dei disoccupati e dei precari, prende la parola. Sul palco non c’è il tavolo di “Annozero”, ma soltanto due sedie per gli ospiti della puntata, intitolata “Licenziare la casta”: l’imprenditore Diego Della Valle e il sindaco di Napoli Luigi De Magistris, sottoposti alle domande di Franco Bechis, Luisella Costamagna e Paolo Mieli, il “complottatore capo” (copyright di Giuliano Ferrara) del piano di disarcionamento del premier. Doppio Travaglio, come Vauro: “la balla della settimana” – il magistrato Ingroia “partigiano” della Costituzione – e “i soliti ignoti” sull’argomento della puntata. Asciutto e incisivo il servizio di Sandro Ruotolo sugli sprechi della politica, al quale hanno fatto da complemento le considerazioni di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, coppia di giornalisti abituata a fare le pulci alla casta. Ottimi i contributi provenienti dalla “strada”: l’intervista al deputato di Fli che ha definito Finmeccanica “il marchettatoio” di questo governo; le rivelazioni di Antonio Razzi, sedicente eroe per avere avuto il “coraggio” di tenere in vita il governo; la stizza di Claudio Scajola, beccato all’uscita dal famigerato appartamento, in parte pagato a sua insaputa dall’imprenditore Diego Anemone.
Nel complesso, prova superata, anche se alcune cose vanno riviste. Per esempio, sarebbe bene ascoltare più campane. E poi, non andare “fuori traccia”, un’impressione che si è avuta con l’intervista alla testimone chiave dei processi sul “bunga-bunga” e con il servizio sul latitante Valter Lavitola, autodefinitosi “lo sfigato della situazione”. Lo schema disegnato sulla lavagna dall’ex direttore dell’Avanti per spiegare i soldi a Tarantini è stato un numero da avanspettacolo, ma la vetta della comicità è stata raggiunta con il comizio di Scilipoti: “è finito il tempo dei cialtroni! È iniziato il tempo della meritocrazia!”.

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Il Big Bang di Renzi e quell’idea che manca

Il segnale inequivocabile dell’approssimarsi delle elezioni sono le faide che si stanno scatenando all’interno del partito democratico e, più in generale, nel centrosinistra. Un riflesso pavloviano: appena si affaccia l’ipotesi di una votazione e, ancor più, di una possibile vittoria, iniziano i litigi. Verrebbe quasi da rimpiangere il centralismo democratico del vecchio Pci. Ora è “tutti contro tutti e ognuno per se”, al massimo per la propria corrente. I volti, alla fine, sono gli stessi di sempre. Sulla questione, ha ragione da vendere Matteo Renzi: “non è possibile che cambino continuamente i simboli dei partiti e restano sempre le stesse facce”.
La tre giorni alla stazione Leopolda ha ufficializzato le ambizioni di leadership del sindaco di Firenze. Una proposta di rottamazione del Pd e di un vecchio modo di fare politica, al quale si vuole contrapporre una proposta diretta e partecipata, non ingessata da rituali oligarchici. Un “partito format”, secondo la definizione di Aldo Grasso, giovanilista, ammiccante, piacione. “Si è presentato con il vestito della prima comunione”, ha ironizzato Luciana Littizzetto, mentre Maurizio Crozza è stato più cattivo: “il niente che avanza”. Il “Big Bang” ha ovviamente scatenato anche la reazione dell’establishment di sinistra. “Tardo blairismo in salsa populista”, per Rosy Bindi; “Renzi nel Pd è una contraddizione”, la quasi scomunica di Cofferati. Diplomatico invece Bersani. A differenza di Vendola: “Renzi è il vecchio”. Di certo, non unisce. Tanto da alimentare le peggiori illazioni. È stato addirittura ripescata dagli archivi Mediaset una puntata della Ruota della fortuna alla quale partecipò (e vinse). È stato ricordato l’incontro con Berlusconi ad Arcore (dicembre 2010), una visita a domicilio inconsueta da un punto di vista istituzionale, guardata dal Pd con sospetto e irritazione. È stato sottolineato con abbondante dose di malizia il contributo di Giorgio Gori (l’ex direttore di Canale 5 che portò in Italia il Grande Fratello, poi fondatore di Magnolia, società che produce L’Isola dei famosi) alla stesura delle “cento idee per l’Italia”. Tre indizi che fornirebbero la prova schiacciante di un Renzi “Berlusconi di sinistra”. Pierfranco Pellizzetti è andato giù pesante: “Il solo elemento di novità del renzismo è l’uso spregiudicato delle tecniche di comunicazione imbonitoria”.
Dalla disfida tra i ricostruttori di Bersani e i rottamatori di Renzi, a rimetterci potrebbe essere, come al solito, l’intero centrosinistra. Il programma della Leopolda, è stato detto, è discutibile e integrabile. A mio avviso, una lacuna andrebbe colmata in via preliminare. Altrimenti è impossibile confrontarsi sul resto. Il peccato originale della sinistra è la mancata approvazione di una legge sul conflitto d’interessi, subito dopo la vittoria alle elezioni del 1996. Bisogna stabilire, una volta per tutte, che chi – come il premier – si trova al centro di un groviglio di interessi, soprattutto nel settore dell’informazione, non può fare politica, per la ragione elementare che il suo tornaconto personale prevarrà sempre sul bene della collettività. Oggi, non sarebbe neppure un provvedimento punitivo contro Berlusconi, ormai al termine della sua parabola politica. Semplicemente, la regolamentazione di un’ anomalia inconcepibile in un Paese democratico.

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Trentasei anni senza P.P.P.

Sono arrivato a Pier Paolo Pasolini da solo. O quasi. Ai tempi del liceo, lo sfiorai tra la prima e la seconda classe, quando la professoressa di lettere ci assegnò alcuni libri da leggere durante le vacanze estive. Conobbi così Pasolini, Cesare Pavese, Italo Calvino, Primo Levi e qualcun altro autore del Novecento. Le fortune dei ragazzi passano spesso dagli insegnanti che incontrano lungo il cammino scolastico. A me è andata bene. Nel biennio, un rapporto splendido, anche sotto il profilo umano, con la professoressa Paino; nel triennio, quello decisivo per la mia formazione con il professore Monterosso (storia e filosofia). In quinta, però, studiammo poco o niente gli autori del Novecento. Di sicuro, non li leggemmo. E anche se il professore di lettere avesse avuto questa intenzione, non credo che ci avrebbe fatto leggere Pasolini. Troppo distante dal suo mondo.
Per vie traverse ci sono però arrivato ugualmente. Mi capita spesso di leggere qualcosa che rimanda ad altri autori. E così è stato. Mi sono “imbattuto” nella raccolta di poesie Le ceneri di Gramsci e così ho prima approfondito il poeta, quindi sono passato alla lucidità del pensiero degli Scritti corsari, all’intellettuale scomodo, scandaloso e affascinante per chi si rifiuta di sottostare alle logiche e ai valori propagandati dal consumismo e dall’edonismo dominanti. Nessuno meglio di Pasolini ha saputo leggere i cambiamenti della società italiana nel secondo dopoguerra. Nessuno è stato così profetico e coraggioso nel mettere in guardia, con quarant’anni d’anticipo, dal baratro verso il quale l’umanità stava (e sta) precipitando. Le denunce contro il Palazzo, il ruolo e la funzione della televisione in una società di massa, l’omologazione culturale, la trasformazione antropologica della società sono temi drammaticamente attuali.
Domani ricorre il trentaseiesimo anniversario dell’assassinio di Pasolini. Una vicenda che presenta ancora molti lati oscuri. L’ennesimo mistero della storia d’Italia. Nella sua appassionata orazione funebre, Alberto Moravia pronunciò parole forti e condivisibili: “abbiamo perso prima di tutto un poeta, e poeti non ce ne sono tanti nel mondo, ne nascono soltanto tre o quattro in un secolo. Quando sarà finito questo secolo, Pasolini sarà tra i pochissimi che conteranno come poeta: il poeta dovrebbe essere sacro!”.

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Tornano Santoro, Vauro e il baffone di Ruotolo

Manca oramai pochissimo all’esordio televisivo della squadra di Santoro, fissato al 3 novembre, ore 21.00. Il giovedì di Rai Due è intanto naufragato con i pessimi ascolti di Star Academy, soppresso prima che sul palco arrivassero i pomodori. A conferma delle politiche suicide della Rai dove, pur di fare favori al premier, si sta affossando la televisione pubblica. Pare che ora si voglia puntare su Giuliano Ferrara per un Annozero di destra, nello stesso canale e nello stesso orario. Un premio per il successo di Qui Radio Londra, programma rivelatosi di nicchia e per il quale, “stranamente”, nessuno ha chiesto la chiusura, causa ascolti nettamente al di sotto delle aspettative. Si potrà seguire Servizio pubblico (titolo del nuovo programma, inizialmente Comizi d’amore) su Sky, ma anche su diverse emittenti locali, oltre che in streaming sul sito di Repubblica, Il Fatto Quotidiano e Il Corriere della Sera.
A fare pubblicità al programma, nello spot che sta girando in rete, il premier in persona.

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Rai. Di pochi, sempre di meno

Diventa sempre più arduo ricacciare indietro il pensiero sgradevole che tra le motivazioni che spinsero Silvio Berlusconi a “scendere in campo” vi fosse lo smantellamento della televisione pubblica. Nel caso contrario, qualcuno dei dirigenti Rai succedutisi in questi anni di pseudo-concorrenza dovrebbe spiegare quale sia stata e sia la linea editoriale di Viale Mazzini. Dall’esterno, sembra la cronaca di un suicido annunciato, la declassazione e lo svilimento di un patrimonio, economico e culturale, che altrove avrebbe fatto alzare le barricate.
In Italia, invece, soltanto qualche polemica, peraltro vagamente strumentale, visto che il rapporto tra informazione e politica, pur con accenti diversi, è sempre stato problematico, al di là dell’inquilino di Palazzo Chigi. Le vette raggiunte durante l’epopea berlusconiana sono però inarrivabili. A partire dal tristemente celebre editto bulgaro che anticipò l’epurazione di Michele Santoro, Daniele Luttazzi ed Enzo Biagi, accusati di fare “un uso criminogeno della televisione di Stato”. Per proseguire con la direzione di Augusto Minzolini al tg1 e i casi eclatanti di Piero Damosso, Paolo Di Giannantonio, Tiziana Ferrario, Maria Luisa Busi. Mi è capitato, due o tre volte, di assistere a trenta secondi di Qui Radio Londra (andare oltre è umanamente impossibile), programma di Giuliano Ferrara – tra i più influenti consiglieri di Berlusconi – collocato proprio nell’orario che fu di una della trasmissioni di maggiore successo di Rai Uno, Il fatto, condotto da Biagi. Se quello di Biagi è stato un uso criminogeno, per questo di Ferrara urge un neologismo. Perché è complicato fare rientrare nella categoria del giornalismo l’apologia e la propaganda più smaccate, un pulpito dal quale si pronunciano omelie e si scagliano anatemi. Se poi si vuole ragionare in termini di ascolti, il paragone è imbarazzante. E desolante. Quando gli va bene, Ferrara racimola la metà degli spettatori che furono di Biagi. Per comprendere il gradimento di cui gode l’Elefantino, è sufficiente considerare che quasi un milione di spettatori, finito il tg1, abbandona la rete per 5 minuti (la durata del suo programma) e ci ritorna subito dopo, per vedere I soliti ignoti.
Che il gradimento e i soldi degli sponsor non stiano alla base delle scelte dei vertici Rai è evidente. Altrimenti, sulla base dei pessimi ascolti del suo telegiornale, Minzolini avrebbe fatto la valigia già da un pezzo. E per la squadra di Santoro, capace di garantire i maggiori ascolti ed incassi per Rai Due, sarebbe stato srotolato un tappeto rosso. La sostituzione di Annozero con Star Academy, già chiuso per fallimento, dice tutto sulle logiche di allestimento dei palinsesti. È facilmente prevedibile, invece, il successo di Comizi d’amore, il nuovo programma della Santoro band, in onda dal 3 novembre su una ventina di emittenti locali (tra cui Videocalabria) e sul canale 504 Sky che, al grido di “10 euro di tivvù”, ha già raccolto sottoscrizioni per 600.000 euro.
Sul cadavere della Rai svolazzano gli avvoltoi. Quello di La7, che si sta portando via tutto: l’ex direttore di Rai Tre Paolo Ruffini, Corrado Formigli, Roberto Saviano, Serena Dandini, gli spettatori. E, ovviamente, quello di Mediaset, al quale, come in una nota pubblicità, “piace vincere facile”, contro una concorrenza che, di fatto, concorrenza non è.

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Anni come giorni volati via

In una canzone di successo Raf si domandava cosa sarebbe rimasto degli anni ’80, il decennio che ha portato la mia generazione alla soglia della maggiore età e che, come tutto ciò che il trascorrere del tempo rende romantico e “mitico”, appartiene alla sfera dei ricordi più piacevoli.
Innanzitutto gli odori. Quello della casa di mia nonna e delle rose bianche del suo piccolo giardino. A ripensarci adesso, l’orzata che ci preparava era imbevibile. Troppo dolce. Eppure andavamo al fondo del bicchiere d’un fiato, come con la gassosa al limone Marra, di gran lunga superiore alla Romanella. Era quello il rifugio dei nipoti per un break tra un gioco e l’altro: pane con olio e sale, oppure i gelati che eravamo autorizzati a prendere a credenza da Micuzzu ’u Grugnu o da Grazia ’a Rofalazza, tanto poi la nonna saldava tutto. Di nascosto dal nonno, però, che aveva una concezione del denaro molto genovese. La pipa della Gelca gusto vaniglia ci faceva assumere pose da adulti, nonostante i sandali color cuoio con fibbia allacciata sulla caviglia e i pantaloncini extra corti da maratoneta.
A mano a mano, gli spazi da conquistare aumentarono. Il campo da gioco della “tola” – una variante del nascondino – non aveva alcun limite. Anzi, quando il ruolo di cacciatore toccava al meno sveglio del gruppo, alcuni si rifugiavano in una lontanissima sala giochi o se ne andavano addirittura a casa. Con le biciclette si girava il paese, attaccata al manubrio o sotto la sella la targhetta con il numero personalizzato: ne avevamo recuperate a decine quando distrussero – verbo quanto mai calzante – il vecchio palazzo municipale. I più audaci si spingevano fino alla ferrovia e attraversavano il ponte e la galleria, correndo all’impazzata per nascondersi nelle “nicchie” quando la littorina annunciava il suo arrivo. Era la linea (dismessa dal 1997) che da Sinopoli portava a Gioia Tauro, utilizzata dai lavoratori, da coloro che frequentavano le scuole superiori fuori paese e da chi si concedeva un colpo di vita al cinema “Sciarrone” di Palmi.
Lo sport più praticato era il calcio. In qualsiasi posto. Per strada, in pineta, al municipio, ma soprattutto in piazza, dove con Micuzzu du’ café e suo fratello si combatteva una quotidiana guerra di logoramento: noi compravamo i palloni, loro li sequestravano. Anche se potevamo contare sulla quinta colonna dei loro nipoti che spesso e volentieri riuscivano a recupere quanto ci veniva sottratto. Quando non ci era consentito utilizzare un pallone “normale” – raramente il tango, in effetti troppo pesante per giocarci in piazza: solitamente il super santos, che era migliore del super tele – ci si arrangiava con quello di spugna. Nei momenti di maggiore tensione e di divieto assoluto, andava bene anche la pallina da tennis di spugna o – incredibile, ma vero! – la lattina di una bibita schiacciata.
Il mito era Shingo Tamai, l’antenato di Oliver Hutton capace di tiri impossibili, con il pallone che si deformava per la potenza del calcio e si impennava altissimo, prima di ricadere in terra e schizzare verso la porta, imparabile, dopo un lungo vorticare. I cartoni animati erano una costante dei nostri pomeriggi: il pugile Rocky Joe; le lotte titaniche dei robot dotati di armi potentissime (l’alabarda spaziale di Goldrake, i raggi fotonici di Mazinga Z e quello protonico di Jeeg Robot d’acciaio); il fascino della cicatrice sullo zigomo di Capitan Harlock; le peripezie dello sfortunatissimo Remì; Dick Dastardly e il suo assistente sghignazzante, il cane Muttley, alle prese ora con la cattura del piccione viaggiatore, ora con le “corse pazze” contro il Diabolico Coupé, Penelope Pitstop, l’Insetto Scoppiettante e tanti altri.
Sul finire del decennio, inaspettatamente, arrivò a casa mia il motorino, un Califfo dotato di pedali che in salita non ne voleva proprio sapere di andare. Un’esperienza brevissima, conclusasi senza alcun rimpianto. Anni dopo ne ho rivisto uno simile in una televendita: lo davano in omaggio, insieme ad altri articoli, a chi acquistava una batteria di pentole e un servizio completo da tavola.

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