Perché la Liberazione non sia solo una data cerchiata di rosso

Condannato, dopo diversi anni di esilio e di fuga, a undici anni di reclusione dal tribunale speciale per la difesa dello Stato, Sandro Pertini si trova nel carcere dell’isola di Pianosa quando le sue condizioni di salute si aggravano. Incitata dagli amici del figlio, la madre scrive alle autorità per chiedere la grazia, ma Pertini si dissocia immediatamente dalla richiesta con una sconfessione dai toni durissimi e carica di dignità: “mi sento umiliato – scrive Pertini – al pensiero che tu, sia pure per un solo istante, abbia potuto supporre che io potessi abiurare la mia fede politica pur di riacquistare la libertà”: 

Mamma,
con quale animo hai potuto fare questo? Non
ho più pace da quando mi hanno comunicato, che tu hai presentato domanda di
grazia per me. Se tu potessi immaginare tutto il male che mi hai fatto ti
pentiresti amaramente di aver scritto una simile domanda.
Debbo frenare lo
sdegno del mio animo, perché sei mia madre e questo non debba mai dimenticarlo.
Dimmi mamma, perché hai voluto offendere la mia fede? Lo sai bene, che è tutto
per me, questa mia fede, che ho sempre amato tanto. Tutto me stesso ho offerto
ad essa e per essa con anima lieto ho accettato la condanna e serenamente ho
sempre sopportate la prigione. E’ l’unica cosa di veramente grande e puro, che
io porti in me e tu, proprio tu, hai voluto offenderla così? Perché mamma,
perché? Qui nella mia cella di nascosto, ho pianto lacrime di amarezza e di
vergogna – quale smarrimento ti ha sorpreso, perché tu abbia potuto compiere un
simile atto di debolezza?
È mi sento umiliato al pensiero che tu, sia pure
per un solo istante, abbia potuto supporre che io potessi abiurare la mia fede
politica pur di riacquistare la libertà. Tu che mi hai sempre compreso, che
tanto andavi orgogliosa di me, hai potuto pensare questo? Ma, dunque, ti sei
improvvisamente cosi allontanata da me, da non intendere più l’amore, che io
sento per la mia idea?
Come si può pensare, che io, pur di tornare libero,
sarei pronto a rinnegare la mia fede? E privo della mia fede, cosa può
importarmene della libertà? La libertà, questo bene prezioso tanto caro agli
uomini, diventa un sudicio straccio da gettar via, acquistato al prezzo di
questo tradimento, che si è osato proporre a me.
Nulla può giustificare
questo tuo imperdonabile atto.
Lo so, più di te sono colpevoli coloro che ti
hanno consigliata di compierlo. Vi sono stati spinti dall’amicizia che per me
sentono e dalla pietà che provano per le mie condizioni di salute?
Ma pietà
ed amicizia diventano sentimenti falsi e disprezzabili, quando fanno compiere
simili azioni. Mi si lasci in pace, con la mia condanna, che è il mio orgoglio e
con la mia fede, che è tutta la mia vita. Non ho chiesto mai pietà a nessuno e
non ne voglio. Ma mi sono lagnato di essere in carcere e perché, dunque,
propormi un cosi vergognoso mercato? E tu povera mamma ti sei lasciata
persuadere, perché troppo ti tormenta il pensiero, che io non ti trovi più al
mio ritorno. Ma dimmi, mamma, come potresti abbracciare tuo figlio, se a te
tornasse macchiato di un così basso tradimento? Come potrei vivere vicino, dopo
aver venduto la mia fede, che tu hai sempre tanto ammirata?
No mamma, meglio
che tu continui a pensarlo qui, in carcere, ma puro d’ogni macchia, questo tuo
figliuolo, che vederlo vicino colpevole, però, d’una vergognosa viltà.
Che
male ho fatto per meritarmi questa offesa?
Forse ho peccato di orgoglio,
quando andavo superbo di te, che con fiera rassegnazione sopportavi il dolore di
sapermi in carcere. E ne parlavo con orgoglio ai miei compagni. E adesso non
posso più pensarti, come sempre ti ho pensata: qualche cosa hai distrutto in me,
mamma, e per sempre. È bene che tu conosca la dichiarazione da me scritta
all’invito se mi associavo alla domanda da te presentata. Eccola: “ La
comunicazione, che mia madre ha presentato domanda di grazia in mio favore, mi
umilia profondamente.
Non mi associo, quindi, ad una simile domanda, perché
sento che macchierei la mia fede politica, che più d’ogni altra cosa, della mia
stessa vita, mi preme”.
Per questo mio reciso rifiuto la tua domanda sarà
respinta. Ed adesso non mi rimane che chiudermi in questo amore, che porto alla
mia fede e vivere di esso. Lo sento più forte di me, dopo questo tuo atto.
E
mi auguro di soffrire pene maggiori di quelle sofferte fino ad aggi, di fare
altri sacrifici, per scontare io questo male che tu hai fatto. Solo così
riparata sarà l’offesa, che è stata recata alla mia fede ed il mio spirito
ritroverà finalmente la sua pace. Ti bacio tuo Sandro.
P.S. Non ti
preoccupare della mia salute, se starai molto priva di mie lettere.
Pianosa,
23 febbraio 1933

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Zucco scrittore e il suo tempo

Testo del mio intervento al convegno “Nino Zucco: pittore, scultore, scrittore, cantore della memoria eufemiese”, svoltosi l’8 aprile presso la Sala del consiglio comunale di Sant’Eufemia d’Aspromonte.

Qualche mese fa avevo sollevato la questione dell’oblio ingiustamente caduto su Nino Zucco (Nessuno è profeta in patria: Nino Zucco), proprio mentre nella vicina Palmi l’artista eufemiese veniva celebrato con i dovuti onori. Non ho difficoltà ad ammettere che fino a non molti anni fa ignoravo l’esistenza di questo artista poliedrico: pittore, scultore e scrittore, come recita il titolo del convegno. Nessuno me ne aveva parlato e reperire i suoi libri è un’impresa non da poco. Nella biblioteca comunale di Sant’Eufemia se ne trova soltanto uno; per gli altri, occorre rivolgersi altrove: Palmi, Polistena, Reggio Calabria.

Il mio primo “incontro” con Nino Zucco è avvenuto sulle colonne di un quotidiano locale, grazie alla lettura di un articolo che segnalava l’organizzazione del convegno “Nel centenario della nascita: Nino Zucco, una vita per l’arte” (2010), a cura dell’associazione culturale “Le Muse” di Reggio Calabria, presieduta dal professore e critico d’arte Giuseppe Livoti. Risale invece a qualche mese fa la notizia che il figlio, Antonello, aveva consegnato all’amministrazione comunale di Palmi una ventina di opere del padre (taccuini, oggetti personali, acquarelli, grafiche, sculture).

A Sant’Eufemia, prima di oggi, il silenzio più assoluto. Riflettendo su questo, consideravo quanto fosse triste constatare come il paese d’origine di una personalità così significativa nel panorama culturale nazionale non avesse mai pensato di perpetuarne in qualche modo il ricordo. Anche soltanto procurando i libri scritti da Zucco, per custodirli presso la biblioteca comunale e metterli a disposizione della collettività. L’articolo registrò le immediate repliche di Antonello Zucco e di monsignore Giorgio Costantino (nipote dell’artista eufemiese), alle quali fece seguito l’azione dell’amministrazione comunale, che ha tempestivamente accettato la donazione di sette opere d’arte proposta da Antonello Zucco e che, in breve tempo, ha organizzato il convegno odierno.

Molto è stato detto sul valore artistico di Zucco pittore e scultore. Meno note, invece, sono le sue qualità letterarie, anch’esse di livello e apprezzate da fior di critici.

I suoi racconti, in genere ispirati dai luoghi della memoria (Diambra, Mistra, Muraglio), possono essere accostati ad alcuni bozzetti di Giovanni Verga o di Luigi Capuana, i maestri del verismo italiano. Già a una prima lettura appare evidente un tratto inconfondibile, che svela l’influenza esercitata dall’arte pittorica sullo stile narrativo. La parola si fa pennello; così come la tela diventa un foglio bianco sul quale scrivere storie vissute o ascoltate. Nino Zucco è questo: uno scrittore che dipinge e un pittore che racconta.
Il suo primo libro è Fuoco a Diambra (1956), raccolta di racconti con protagonisti alcuni “personaggi” del paese natio. Il titolo rievoca uno dei tanti incendi verificatisi nella storia di Sant’Eufemia e fornisce all’autore lo spunto per soffermarsi sulla storica rivalità tra gli abitanti del “Vecchio Abitato” e quelli della “Pezzagrande”. Una vicenda che rimanda a quanto accaduto dopo il terremoto del 1908, quando – al termine di una polemica molto aspra – fu deciso di ricostruire il paese nel nuovo rione della “Pezzagrande”, mantenendo però anche il precedente sito (da allora, “Paese Vecchio” o “Vecchio Abitato”), che la fazione più “tradizionalista” si rifiutava di abbandonare.

Il volume è impreziosito dall’autorevole recensione di Arrigo Benedetti, noto giornalista che si era formato alla scuola di Leo Longanesi, sulle pagine della rivista “Omnibus”. Proprio insieme a Longanesi e a Mario Pannunzio, altro nome di primo piano del giornalismo italiano, Benedetti aveva firmato, su “Il Messaggero” del 26-27 luglio 1943, l’editoriale che annunciava la fine del Ventennio fascista, dopo l’approvazione dell’ordine del giorno “Grandi” e l’incarico per la formazione del nuovo governo affidato da Vittorio Emanuele III al generale Pietro Badoglio. Fondatore e direttore di alcune tra le riviste italiane di maggiore successo (“Oggi”, “L’Europeo”, “L’Espresso”), Benedetti diresse inoltre “Il Mondo” e “Paese Sera”.

A proposito di Fuoco a Diambra, Benedetti scrive:

In questi racconti, tutti pervasi da una calda umanità, l’Autore, da acuto osservatore, delinea aspetti della vita del nostro tempo. Sia che rappresenti con crudo realismo personaggi della sua Calabria, sia che, portato a scrutare in profondità gli aspetti deteriori della società, ne scopra il volto più ignorato, egli raggiunge, attraverso una felice creazione di caratteri, un’efficacia descrittiva che fa dei suoi racconti un tipico e genuino esempio di narrativa moderna.
Lo stile dei RACCONTI DI DIAMBRA, scarno e privo di inutili orpelli, non sconfina mai – come forse gli argomenti trattati potrebbero suggerire – nella facile retorica, ma si mantiene costantemente su un tono elevato che contribuisce a mantenere desto l’interesse del lettore
.

Nel 1977 Zucco dà alle stampe I racconti di Mistra, volume che ebbe una vicenda editoriale singolare. Nello stesso anno vede infatti la luce Viaggio all’alba (sottotitolo: I racconti di Mistra), che contiene gli stessi racconti, con identiche impaginazione e numerazione delle pagine. Di fatto, lo stesso libro, pubblicato nel medesimo anno, con una copertina diversa (il dipinto dell’autore dal titolo “Tramonto”). Altra differenza, la presenza, nel risvolto di copertina, di un precedente giudizio critico dello scultore Michele Guerrisi (deceduto nel 1963), la cui bottega romana Zucco frequentò e con il quale ebbe un rapporto di profonda amicizia. Proprio al 1977 risale il lungo articolo scritto da Zucco per la rivista reggina “La Procellaria”: Michele Guerrisi: scrittore, scultore, filosofo.
Il suggestivo toponimo “Mistra” trae origine dall’omonima città del Peloponneso, dalla quale provenivano i fondatori di Sant’Eufemia, greci al seguito dei monaci basiliani che intorno al IX secolo emigrarono per sfuggire alle persecuzioni degli imperatori iconoclasti. Una delle strade più antiche di Sant’Eufemia è appunto “via Mistra”; pertanto, si legge “Mistra” (come, altrove, “Diambra” o “Muraglio”), ma deve intendersi “Sant’Eufemia”. L’autore, introducendo i racconti, osserva:

Mistra pare abbia mille anni di vita: lo si desume da alcuni atti custoditi nell’Archivio di Stato di Napoli. Mistra è un nome greco. Si vuole che i primi ad arrivare lassù e a fondare il borgo siano stati i basiliani, gli stessi monaci che pare abbiano piantato i grandi boschi di uliveti che dalle falde dell’Aspromonte degradano per colline e piani fino al mare di Medma e Locri. Mistra è situata in una di queste colline, ai piedi del monte. A nord e a sud è delimitata da orti rigogliosi e fertili che producono frutta succosa e ortaggi saporiti e teneri. L’acqua scende dalle gole dell’Aspromonte limpida e fresca. Verso l’alto, i viottoli degli orti sono coperti da fitti pergolati di uva “olivella” e “ruggia”, così chiamata perché i chicchi, grossi come noci, hanno il colore della ruggine.

Nel 1983 esce il romanzo Il Muraglio. Cronaca di ieri. Prefatore del libro è Mario De Gaudio, giornalista originario di Cosenza che fu capo del servizio esteri e redattore capo del quotidiano romano “Il Messaggero”. Esperto di questioni sudamericane, seguì le vicende del colpo di Stato di Augusto Pinochet in Cile (1973) e fu il primo giornalista occidentale a raccogliere la testimonianza della moglie di Salvador Allende, fuoruscita dal Cile subito dopo la morte del marito. Poeta e scrittore, per diversi anni presidente del Centro studi “Corrado Alvaro” di Roma, nel presentare Il Muraglio, De Gaudio annota:

Nelle sue narrazioni, Nino Zucco, con l’una e con l’altra qualità di scrittore e di pittore, ha reinterpretato i protagonisti di una umanità meridionale cruda e pertinace. Figure d’altri tempi, ma moderne per il male di vivere che li circonda, per le angosce inespresse, ma presenti nella filosofia segnata da bibliche dannazioni. Figure che sembrano uscite da una tela, dove il nero incornicia volti di donne straziate da logoranti attese di morte [e qui la mente corre, necessariamente, al quadro “Donne di Mistra”, riprodotto nella copertina dei “Racconti di Mistra” e che fa da sfondo alla locandina della manifestazione odierna]. Ma innanzi questa morte c’è lo splendore di una natura percepita in lontananza e ferma davanti ad un destino ostinatamente chiuso alla gioia.

La sintesi del profilo biografico dei critici che hanno recensito i libri di Zucco avvalora la tesi di una collocazione tutt’altro che marginale dell’artista eufemiese negli ambienti intellettuali della Capitale. Per averne maggiore consapevolezza occorre però leggere il libro Incontri, pubblicato nel 1978.

Gli incontri in questione non si riferiscono ai rapporti di amicizia più significativi e intimi che Zucco coltivò con “la meglio gioventù” calabrese trasferitasi a Roma nella prima metà del Novecento: il compositore palmese Francesco Cilea, il pittore e scultore Michele Guerrisi (nato a Cittanova), lo scultore Alessandro Monteleone (originario di Taurianova), gli scrittori Corrado Alvaro (San Luca) e Leonida Repaci (Palmi).
Incontri presenta tutta una serie di protagonisti di rilevo del circuito artistico regionale, nazionale, ma anche internazionale (si pensi agli “incontri” con il direttore d’orchestra Leonard Bernstein e con il pittore Salvador Dalì) con i quali Zucco si relazionava, restituendo così al lettore l’atmosfera culturale che Zucco respirò.

Tra i corregionali, Raoul Maria De Angelis apprezzò molto Fuoco a Diambra. Giornalista, pittore e scultore, il romanzo più famoso dello scrittore nato a Terranova da Sibari è La peste a Urana (1943), che fu al centro di una querelle per le accuse di plagio rivolte ad Albert Camus, autore qualche anno dopo del capolavoro La peste. Significativo anche l’incontro con Antonio Piromalli (originario di Maropati), uno dei maggiori storici della letteratura italiana, autore dell’opera in due volumi La letteratura calabrese.

Zucco frequentò inoltre assiduamente lo scrittore, saggista e critico letterario Italo Borzi, uno dei massimi studiosi di Dante e Pirandello (presiedette l’Istituto di studi Pirandelliani), dei quali curò l’opera omnia per la casa editrice Newton Compton. L’artista eufemiese si recava a trovarlo presso la Fondazione Besso, dove Borzi leggeva e commentava magistralmente i canti della Divina Commedia.

Altra frequentazione capitolina, il critico letterario Giovanni Orioli, profondo conoscitore del poeta Giuseppe Gioacchino Belli, del quale curò la pubblicazione dello “Zibaldone”. Orioli presentò Fuoco a Diambra all’interno dello storico “Caffè Greco” di via Condotti e nella recensione redatta per la rivista “Nuova Antologia” inserì Nino Zucco tra gli eredi della scuola verista dell’Ottocento.
E poi Mario Dell’Arco (pseudonimo di Mario Fagiolo), architetto e poeta romano, con Pier Paolo Pasolini curatore per la casa editrice Guanda dell’antologia Poesia dialettale del Novecento (1952). In Incontri Zucco ricorda che Dell’Arco si affidava spesso alla sua “consulenza” per tradurre in lingua italiani i vocaboli più ostici del dialetto calabrese.

Infine, l’attore reggino Leopoldo Trieste, che collaborò con i più grandi registi cinematografici (Federico Fellini, Roberto Rossellini, Steno, Mario Monicelli, Dino Risi, Pietro Germi); il popolarissimo Mino Maccari, giornalista e scrittore, oltre che pittore e scultore; e tanti altri personaggi del mondo della cultura e dello spettacolo.

L’incontro più importante fu però quello con Francesco Cilea, nelle cui vene scorreva un po’ di sangue eufemiese, dato che la nonna materna Rachele Parisi era nata a Sant’Eufemia, dove aveva contratto matrimonio, nel 1822, con il nonno del compositore (suo omonimo), un medico originario di Pentidattilo.

Zucco fu ospite assiduo della casa del compositore palmese, sia a Roma che a Varazze, in provincia di Savona, dove Cilea trascorse gli ultimi anni di vita. Un suo celebre quadro raffigura l’insigne musicista seduto al pianoforte della propria abitazione; un disegno a carboncino ne ritrae invece il volto sofferente, a pochi giorni dalla morte. Fu grazie alla sua opera di convincimento che la moglie di Cilea, inizialmente contraria, acconsentì di rilevare il calco del viso del marito, per realizzarne la maschera.

Nel 1981, a trent’anni dalla morte del maestro, Zucco diede alle stampe un devoto e affettuoso ricordo: Francesco Cilea. Ricordi e confidenze.

Queste brevi note bio-bibliografiche evidenziano lo spessore culturale di Nino Zucco. Con la realizzazione del convegno e con la collocazione di alcune sue opere nella pinacoteca comunale, Sant’Eufemia oggi rimedia agli errori del passato, anche se – purtroppo – è andata persa la possibilità di ricevere, a costo zero, una parte consistente del patrimonio pittorico di Zucco, che è finito a Palmi e che invece avrebbe potuto dare prestigio e bellezza a questo Palazzo municipale.
Per una comunità, è colpa grave non valorizzare i talenti dei propri figli. Spesso si discute su cosa fare per rendere migliore l’ambiente in cui si vive e ci si perde in discussioni sterili sui massimi sistemi. In realtà, non ci vuole molto. È sufficiente, ad esempio, una manifestazione come quella di oggi. Un’iniziativa che io considero il modo in cui Sant’Eufemia si riconcilia con la propria storia e una forma di risarcimento nei confronti di Nino Zucco.

Pertanto, mi auguro che in futuro si possano realizzare altre iniziative analoghe. Occorre incoraggiare tutti i tentativi di fare memoria, per soddisfare quel bisogno naturale di identificarsi in una storia collettiva e di sentirsi parte di un destino comune.

Sono convinto che sarà la bellezza della cultura a salvarci. Perché la capacità di fare, divulgare e apprezzare la cultura rende gli individui migliori e più vivibile la società nella quale essi operano.
Ringrazio quindi il sindaco Creazzo e l’amministrazione comunale e li esorto a continuare su questa strada: la strada della cultura; la strada della riscoperta delle nostre radici; la strada delle nostre piccole e grandi storie; la strada che ci è stata indicata da concittadini illustri come Nino Zucco.

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Sconfitta e metodo democratico nelle parole di don Luigi Sturzo

In esilio ormai da dieci anni, nel febbraio del 1936 don Luigi Sturzo scriveva sulle colonne del giornale spagnolo “El Matì” un articolo con il quale si rivolgeva agli amici cattolici spagnoli, alleati del Fronte Nazionale, dieci giorni dopo le elezioni che avevano visto la vittoria del Fronte Popolare. Di lì a poco sarebbe scoppiata la guerra civile terminata nel 1939 con l’instaurazione della dittatura di Francisco Franco. Quella di Sturzo è una lezione di umiltà e un avvertimento sui pericoli che può determinare la contrapposizione feroce tra le forze politiche. L’esempio italiano, caratterizzato dall’incomunicabilità tra socialisti, cattolici e liberali, da questo punto di vista era emblematico e l’affermazione del fascismo, nel 1922, stava lì a dimostrarlo.

Altra utilità, che viene dalla sconfitta, è studiarne oggettivamente le cause […]. Non è a credere che gli avversari abbiano sempre torto, e che noi abbiamo sempre ragione. La sconfitta ci deve dare un senso di umiltà (che spesso non abbiamo) in confronto ai nostri avversari.

È applicabile al caso la massima ascetica che nessuno si deve credere migliore di qualsiasi persona. La ricerca delle ragioni morali della sconfitta (più che quelle politiche o tattiche) ci conduce a rivalutare tutti i problemi della vita pubblica.

Ma su tutti questo problema, che è fondamentale: nella vita pubblica non siamo soli, non siamo sempre dominatori […]. Ciò significa che si deve avere sempre presente il proposito di non portare la lotta politica a fondo per la distruzione dell’avversario, di non rendere impossibile l’intesa con i partiti che si combattono, di non tagliare mai i ponti sul terreno elettorale e parlamentare.

L’errore enorme di ridurre il paese a due blocchi fermi e chiusi per l’eliminazione del competitore dovrebbe essere bandito con ogni cura […]. Non bisogna mai portare le lotte sul piano di una guerra civile.

[Don Luigi Sturzo]

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Il cavallo di Chiuminatto

Finalmente siamo in stampa: in anteprima per gli amici del blog prima e quarta di copertina. Il cavallo di Chiuminatto (Nuove Edizioni Barbaro, pp. 192; con prefazione di Francesco Arillotta).
In libreria dopo Pasqua

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Il gran rifiuto

Il pensiero è corso istintivamente a Pietro Angelerio da Morrone, passato alla storia con il nome di Celestino V, il Papa scovato da Dante tra la massa delle anime degli ignavi in uno dei passaggi più celebri della Divina Commedia: “Poscia ch’io vebbi alcun riconosciuto,/ vidi e conobbi l’ombra di colui/ che fece per viltade il gran rifiuto”. Ma, ora come allora, si tratta di viltà o la rinuncia al Soglio di Pietro, proprio perché quasi inconcepibile (“dalla croce non si scende”, l’esempio recente di Giovanni Paolo II, che la croce abbracciò fino all’ultima stazione del suo personalissimo calvario), è un atto rivoluzionario, finanche eroico?

Già Petrarca era stato più indulgente e, nel De vita solitaria, aveva sottolineato come il gesto di Pietro da Morrone fosse stato “utile a se stesso e al mondo”, epilogo quasi naturale per uno spirito libero, refrattario a imposizioni e giochi di potere: un asceta dedito allo studio e alla solitudine della preghiera, gli unici veri strumenti per arrivare a Dio.

Quasi settecento anni dopo (Celestino fu Papa per sei mesi, nel 1294), sarebbe toccato a Ignazio Silone fare giustizia con L’avventura d’un povero cristiano (1968), ultimo libro pubblicato dallo scrittore marsicano prima di morire. Pietro da Morrone appare nella sua dimensione storica, quella di un eremita di origini contadine con fama di guaritore e santo, eletto Papa per una questione politica: la necessità della ratifica pontificia sull’accordo che prevedeva il passaggio della Sicilia da Giacomo II d’Aragona a Carlo II d’Angiò, a fronte della perdurante incapacità, da parte del Conclave, di eleggere il nuovo pontefice, nonostante fossero trascorsi più di due anni dalla morte di Niccolò IV. Una soluzione di compromesso, considerata vantaggiosa per l’età (ottantacinque anni), ma soprattutto per l’estraneità di Pietro da Morrone agli ambienti della Curia, circostanza che avrebbe consentito agli alti prelati di continuare a coltivare i rispettivi orticelli e ad accrescere potere e ricchezza. Calcoli sbagliati, evidentemente. Quando infatti si accorse che i cardinali utilizzavano in maniera illegittima il suo nome e le pergamene papali in bianco, Celestino V abdicò per “non offendere la propria coscienza”. Dopo di che fu fatto rinchiudere dal suo successore (Bonifacio VIII) in un castello a Fumone, nei pressi di Anagni, e lì morì nel 1296.

In Celestino, ci dice Silone, la coscienza viene prima del potere. Considerazione che probabilmente oggi vale anche per Benedetto XVI, travolto da una delle più grandi crisi abbattutesi sul cattolicesimo in duemila anni di storia. Il carattere rivoluzionario del gesto pone il paradosso della “relativizzazione” della Chiesa per mano di colui che più di tutti si è scagliato contro la “dittatura del relativismo” (Missa pro eligendo romano Pontefice, 18 aprile 2005), ma non sorprende. Nella Via Crucis del 2005 l’allora cardinale Ratzinger aveva infatti denunciato con forza la “sporcizia” che c’è nella Chiesa, “una barca che sta per affondare, una barca che fa acqua da tutte le parti”.
La superficialità con cui ci si esercita nel confronto tra Benedetto XVI e Giovanni Paolo II non meriterebbe alcun commento. Senza volere qui esprimere giudizi di valore, si consideri soltanto quanto il corpus teologico del pontificato di Wojtyla debba alla riflessione del cardinale Ratzinger, sin dal 1981 prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede: un dato che aiuta a comprendere come tale contrapposizione sia illogica e banale.
Spesso la realtà è più semplice di quanto si creda. Vatileaks, scandali finanziari, vicenda dello Ior, corvi nel Vaticano, pedofilia nel clero: la barca è davvero sballottata dalle onde e solo un gesto dirompente poteva richiamare l’attenzione sulla drammaticità del momento che sta vivendo la Chiesa.
“Nascosto al mondo” Benedetto XVI dedicherà gli ultimi anni della sua esistenza alla preghiera e agli amatissimi studi che era stato costretto ad accantonare, con dichiarato rammarico, in un silenzio che fuori dal suo rifugio potrebbe risultare assordante.

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Strade, storia e storie di Sant’Eufemia

Ora ne posso parlare. Dalla primavera scorsa la tentazione c’è stata più volte, ma mi ha sempre frenato il timore di sbilanciarmi troppo quando ancora, in effetti, non sapevo come sarebbe andata a finire. Il progetto aveva cominciato a frullarmi in testa dopo il convegno organizzato dal Terzo Millennio e dal liceo scientifico per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia (marzo 2011). In quella circostanza, mi resi conto che, per la maggior parte degli eufemiesi, i protagonisti della storia locale non sono nient’altro che un nome stampato agli incroci delle strade. Pensai che sarebbe stato utile saperne di più.

Certo, perché un progetto diventi realtà, occorre una buona molla, che è arrivata un anno dopo. Fino ad ora avevo scritto libri per passione, per “dovere”, per lenire un dolore. Questo l’ho scritto per rabbia e perché lo scrivere, per me, ha sempre rappresentato una formidabile valvola di sfogo.

Mi sono divertito tantissimo. Dal 1861 ad oggi i nomi di alcune strade sono cambiati, nuove vie si sono aggiunte, di altre denominazioni addirittura non si ha più notizia. Scomparsi i nomi, cancellate – fisicamente – anche le vie. Allarga di qua, allarga di là, un corpo avanzato, una recinzione e addio strada.

In tutto, ho redatto 106 voci. Ovviamente, su personaggi come Dante o Cavour c’era poco da aggiungere a quanto già non sia noto. Un buon ripasso, comunque, dà sempre giovamento.
Recuperare le notizie riguardanti i personaggi eufemiesi è stata invece una caccia al tesoro, a volte spassosissima, altre irritante. Ho chiesto delle informazioni all’anagrafe di Genova e all’archivio storico della banca commerciale italiana e mi sono state fornite dopo ventiquattro ore. Mi sono rivolto allo stato civile del comune di Palmi e ho fatto prima a girarmi tutto il cimitero alla ricerca di una tomba (soprattutto, di una data che in nessun archivio avevo trovato) che sospettavo si trovasse là e che alla fine è saltata fuori: eureka!

A distanza di venti anni, mi sono cimentato nuovamente con il latino per decifrare un registro di battezzati del Settecento e ho esultato (in italiano) quando, finalmente, ho scovato l’informazione che cercavo da mesi. E poi le risate, che non ce l’ho fatta a non condividere con qualcuno, davanti alla scoperta degli strafalcioni che campeggiano in bella vista su alcune tabelle toponomastiche.

Strade, storie e storia di Sant’Eufemia, dato che il libro è anche il pretesto per scrivere di storia locale e per portare alla luce aneddoti legati ai personaggi o a alle strade che a quei personaggi sono dedicate.

* Per la pubblicazione se ne parlerà nel 2013. No, il titolo non lo rivelo neanche sotto tortura.

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Il giornalismo copia-incolla

Sostengo da tempo che tutti i giornali locali dovrebbero fare uno sforzo economico per assumere in redazione un giornalista che si occupi esclusivamente della supervisione dei contributi di giornalisti e collaboratori vari. Figura professionale che tra l’altro esiste e la cui importanza nell’economia di un giornale non va assolutamente sminuita. Sono innumerevoli i casi di giornalisti famosi che hanno iniziato come correttori di bozze. Partendo dal gradino più basso, Eugenio Balzan arrivò addirittura alla direzione amministrativa e alla comproprietà del “Corriere della Sera”, negli anni in cui il giornale di via Solferino era diretto da Luigi Albertini.

Ciò eviterebbe lo spettacolo che si presenta agli occhi dei lettori con la pubblicazione di strafalcioni ortografici e sintattici raccapriccianti e, francamente, inammissibili. Se poi il correttore di bozze fosse anche un discreto lettore di libri (dotato di un minimo di cultura generale) e un fruitore attento alle dinamiche e alle modalità della comunicazione sul web, il giornale farebbe bingo.

Quanto meno non incapperebbe nella figuraccia occorsa a Calabria Ora. Il giornale diretto da Piero Sansonetti, nell’edizione di oggi, ha infatti dedicato uno speciale di tre pagine (I Quaderni di Calabria Ora) ai novant’anni della “marcia su Roma”. A pagina 14, Quel che resta a 90 anni da quella marcia, articolo di Giuseppe Cantarano. A pagina 15, due interviste: la prima, di Marco Cribari, al presidente de “La Destra” Francesco Storace (“Negarla? È antistorico”); la seconda, di Camillo Giuliani, allo storico Giovanni De Luna (Fu vera rivolta solo nel ’25). Il capolavoro (si fa per dire) è però a pagina 16, interamente riservata alla ricostruzione della “marcia” (La capitale sotto tiro). Insospettito dalla mancanza della firma dell’autore in calce all’articolo, ho voluto prendermi la briga di fare una veloce verifica. Come sospettavo, l’articolo è tagliato/ copiato/ incollato dalla voce “marcia su Roma” presente su Wikipedia, “l’enciclopedia libera e collaborativa”, redatta sostanzialmente dagli internauti e cliccatissima sul web. Pezzi interi sono copiati e incollati, altri modificati soltanto nel raccordo tra un taglio e l’altro (l’articolo online è infatti più lungo di quello del quotidiano calabrese).

La deontologia, in questi casi, prevede la citazione della fonte e il virgolettato, ma per ragioni facilmente intuibili non “fa figo” citare Wikipedia, molto utilizzata (ahinoi) dagli studenti per le loro ricerche, ma sulla cui autorevolezza è bene non mettere la mano sul fuoco.

Il giornalismo copia-incolla è la metafora di un’epoca che ha messo sull’altare l’approssimazione, la superficialità e la strafottenza. Tempi tristi.

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Un nuovo genere cinematografico: la fantastoria all’italiana

E ora? Ora che il tribunale di Milano ha stabilito che la tesi della doppia bomba a piazza Fontana è una panzana alla quale non occorre dare alcun credito, come la mettiamo?
Ma come può essersi imbarcato in un’operazione così azzardata e discutibile il regista che ha diretto I cento passi? Il film di Marco Tullio Giordana sulla strage alla Banca Nazionale dell’Agricoltura non era ancora uscito nelle sale che già era volato qualche fischio di disapprovazione. E non in nome dell’italica usanza a criticare un film “senza prima di vederlo”, bensì per la bocciatura che in precedenza aveva ricevuto il libro dal quale Romanzo di una strage è liberamente tratto: Il segreto di piazza Fontana, scritto dal giornalista Paolo Cucchiarelli.

Sulla vicenda di piazza Fontana, come su quella, più complessiva, della strategia della tensione, delle stragi di Stato e degli anni di piombo, la verità storica presenta pochissimi aloni di mistero. Già nel 1974 (“Cos’è un golpe?”, articolo pubblicato sul Corriere della Sera e l’anno successivo inserito tra gli Scritti corsari proprio con il titolo utilizzato da Giordana per il suo film), Pier Paolo Pasolini aveva fatto vibrare alto il suo “io so”, nonostante l’impotenza dell’intellettuale “che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero”, ma che in definitiva deve ammettere: “io so, ma non ho le prove”.
È sulla verità giudiziaria che lo Stato ha puntualmente fallito, nel solco di una tradizione avviata con la nascita stessa della democrazia in Italia, un filo rosso che lega Portella della Ginestra ai misteri dei nostri giorni.
Responsabili della strage del 12 dicembre 1969 (il giorno della “perdita dell’innocenza”) sono i neofascisti di Ordine Nuovo, i servizi segreti deviati e apparati dello Stato che intendevano alzare la tensione per provocare una svolta autoritaria nel Paese. C’è poco da aggiungere a quanto, oltre venti anni fa, Sergio Zavoli aveva fatto emergere nella trasmissione Rai La notte della Repubblica. Il ruolo di Franco Freda e Giovanni Ventura, il gruppo dei fascisti padovani, i servizi segreti e i depistaggi delle indagini, che determinarono la condanna di esponenti apicali del SID.

La tesi della doppia bomba finisce così nella spazzatura, accompagnata da un giudizio lapidario: “assoluta inverosimiglianza”. D’altronde, una teoria che prevedeva la presenza di due bombe (una dimostrativa, che doveva esplodere a banca chiusa; l’altra “vera”, piazzata invece proprio per fare morti) ha qualcosa di incredibile, illogico, per nulla convincente già d’istinto.
Difficilmente sarà fatta giustizia per 17 vittime, 88 feriti e centinaia di parenti che ancora convivono con quel ricordo doloroso. All’amarezza e alla rabbia per il trattamento disinvolto e leggero riservato alla verità, si aggiunge anche il senso di beffa per un film che ha avuto un clamoroso battage pubblicitario, che è stato distribuito a tappeto nelle sale di tutta Italia e che approderà sugli schermi televisivi. Una seria riflessione su cinema ed etica dovrebbe chiarire fin dove ci si può spingere quando si ricostruisce “liberamente” una vicenda storica che è una ferita ancora aperta. Alla luce delle parole della procura milanese, sarebbe forse il caso di trasmettere il film con il sottopancia “la tesi della doppia bomba è stata giudicata inverosimile”.

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