U mangiari i San Giuseppi

Leggo “u mangiari i San Giuseppi” e sento l’odore caratteristico di un fumante piatto di pasta e ceci, che regolarmente arricchisco con una spolverata di pepe nero. Dai racconti dei “grandi” apprendo che la pietanza preparata per i bisognosi del paese aveva un sapore speciale, come tutte le cose desiderate e a lungo attese. Sulle polpette al sugo del giovedì di Carnevale, per molte famiglie l’unico giorno dell’anno in cui si comprava la carne, si potrebbero scrivere manuali di cucina. O testi di folclore. Un evento irrinunciabile, la cui importanza viene compendiata dal proverbio popolare “giovedì ’i lardarolu cu non avi carni si ’mpigna ’nu figghiolu”.

U mangiari i San Giuseppi” rimanda a principi e valori che oggi lottano con le unghie per non essere travolti dall’indifferenza e dal disimpegno imperanti. Ricorda persone semplici, che riuscivano a dividere con gli altri il poco che avevano. Che non passavano oltre, distrattamente e infastiditi, alla vista di una mano tesa. Che anzi quelle mani andavano a cercare, quando il naturale pudore di molti sfortunati le costringeva nelle tasche. Ricorda la vita vera delle rrughe, i bambini a piedi scalzi nei cortili e le nostre grandissime donne a sorvegliare pentole enormi, ricolme del pasto che avrebbe alleviato una fame antica. Ogni mercoledì una rruga: e poi la sala matrimoniale “Il Cagnolino”, che dal dopoguerra non ha mai smesso di perpetuare questa nobile tradizione.

Da diversi anni, grazie al dinamismo di un gruppo di amici del Vecchio Abitato “u mangiari i San Giuseppe” ricorda a chi l’avesse dimenticato non solo da dove veniamo, ma soprattutto cosa significa essere comunità e quali doveri abbiamo nei confronti di chi sulla propria tavola non sempre trova il conforto di un piatto caldo. Si tratti di eufemiesi di nascita o di eufemiesi di adozione, che il destino e la fame, dalle strade del mondo, ha portato alle pendici dell’Aspromonte.

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Quando Montalto in Aspromonte diventò un vulcano

Non è il racconto di un folle, né la bizzarra ipotesi di quei programmi televisivi che campano sulla credulità umana e spacciano per verità panzane clamorose, “ovviamente” occultate per ragioni oscure che solo la Cia conosce. Non è neppure uno scoop giornalistico pompato da farci prime pagine per giorni e giorni. È scritto nero su bianco; anzi nero su ocra, il colore dei telegrammi di fine Ottocento: in quel tempo, l’Aspromonte era un vulcano in attività.

Sono trascorsi appena due mesi dal terremoto che il 16 novembre 1894 sconquassò il circondario di Palmi, provocando rovine e morti. La Madonna del Carmine aveva fatto il miracolo, in seguito riconosciuto dalla Chiesa, e aveva limitato a otto le vittime (circa 300 i feriti) nel capoluogo del circondario, epicentro del sisma per sedici interminabili secondi alle 18.55. Tutt’attorno macerie e desolazione: abitazioni rase al suolo o rese inabitabili, 98 morti (48 soltanto a San Procopio), il terrore negli occhi dei sopravvissuti, molti dei quali avrebbero perso la vita quattordici anni più tardi. A Sant’Eufemia, tra le sette vittime la più anziana è la novantacinquenne Carmina Zagari; la più giovane Maria Antonia Cutrì, un fiore reciso a soli tre anni. Oltre 200 feriti, 212 abitazioni crollate, 326 pericolanti, 432 gravemente danneggiate e 188 lesionate in modo lieve. E la paura che potesse accadere nuovamente alimentata da scosse continue, per giorni, settimane, mesi.

I terremotati, alloggiati in baracche tirate su con il contributo dei comitati sorti in tutta Italia, hanno ormai orecchie sensibili. A ogni scossa si riversano sulla strada e, affidata l’anima a Dio, alla Madonna e ai Santi, si accalcano pericolosamente all’interno delle chiese, incuranti della tragedia che potrebbe provocare il crollo di strutture già danneggiate. A nulla valgono le raccomandazioni del prefetto, veicolate dal commissario per la gestione dell’emergenza Michele Fimmanò, dal prosindaco Luigi Bagnato e dal presidente della commissione per le cucine economiche, l’arciprete Rocco Cutrì.

Ancora un anno dopo il disastro, il maggiore del genio civile Angelo Chiarle, sulla scorta del parere espresso dal direttore dei lavori di ricostruzione, l’ingegnere Gaetano De Blasi, suggerisce al prefetto di mantenere l’ordine di chiusura delle chiese, perché forti scosse avrebbero potuto causare una “catastrofe mai vista”: “meglio affrontare impopolarità che accusa imprevidenza ed imprudenza”, la saggia conclusione del graduato.

Tensione, suggestione e ignoranza sono gli ingredienti perfetti per sfornare la bufala dell’anno. Che puntualmente arriva, per quanto inconsapevolmente, all’inizio del 1895. Il 24 gennaio tale Greco, da Sant’Eufemia, telegrafa al prefetto: “Contadini, reduci monti, esterrefatti riferiscono apertura cratere Montalto eruttante colonna fumo rosseggiante. Procederemo ispezione, riferirovvi. Avvisate Comitato”.

Il giorno dopo lo stesso Michele Fimmanò, non un cafone analfabeta bensì il colto borghese con tanto di laurea conseguita presso il prestigioso ateneo partenopeo, prende in considerazione l’ipotesi assurda che l’Aspromonte nascondesse nel proprio ventre un vulcano: “Seppi stamane via Delianuova che tre contadini colà arrivati narravano delle cime di monti prospettanti Montalto aver osservato che dalla sommità di esso monte veniva fuori un enorme colonna fumo rosseggiante simile ad un pino piegantesi a terra col vento, e che poi si raddrizzava. I tre contadini tornavano Delianuova esterrefatti. Non le ho telegrafato perché fenomeno fumo simile ad un pino, forma osservata Plinio anno 79 Cristo, Vesuvio, mi ha sorpreso ed ho disposto esplorazione domani facendola intesa risultati”.

Una voce incontrollata che innesca un tam-tam inarrestabile. Il rischio di una nuova Pompei tutt’altro che remoto. Esploratori vengono mandati a Montalto, ma la quantità di neve caduta è tale da rendere impraticabile un sopralluogo.

I fenomeni di psicosi collettiva svaniscono però con la stessa rapidità con la quale si manifestano. E così noi non sapremo mai cosa fosse il “rombo enorme mugghiante accompagnato vivo bagliore” annotato dai volontari inerpicatisi fino a Montalto, nel lontano gennaio del 1895.

*Articolo pubblicato su ZoomSud il 14 febbraio 2014: http://www.zoomsud.it/index.php/cultura/63898-quando-l-aspromonte-divento-un-vulcano.html

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A cento anni dalla Grande Guerra: un’idea… se siete d’accordo

Ho assistito ieri pomeriggio alla conferenza “Il dovere della memoria. Fonti per la storia della Grande Guerra”, organizzata dall’Archivio di Stato di Reggio Calabria, che segna l’avvio di una serie di attività didattiche e formative promosse dalla Direzione generale per la valorizzazione del patrimonio culturale e dal Sed (Centro per i servizi educativi del museo e del territorio) – Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo.

Obiettivo del progetto è la scoperta e la valorizzazione di materiale di interesse storico (documenti, reperti, testimonianze sugli aspetti culturali, sociali, economici della prima guerra mondiale), utile per aggiungere tasselli di conoscenza alla “inutile strage”, secondo la celebre definizione di Benedetto XV.

All’esaustiva presentazione del progetto da parte del direttore dell’archivio, Mirella Marra, è seguito l’intervento di Giovanna Manganella, discendente del generale Aurelio Bondi, comandante del XVI Corpo d’Armata Artiglieria e Primo aiutante di Campo del Duca D’Aosta, che ha messo a disposizione dell’archivio e della collettività reperti di grande interesse: stampe, fotografie, frammenti di proiettili e bombe, il cannocchiale da campo e il bastone dell’avo, una mazza ferrata utilizzata dagli austriaci per finire i soldati italiani agonizzanti.

Subito dopo, lo storico reggino Agazio Trombetta ha espresso le sue prime considerazioni sullo studio del fondo documentario che qualche anno addietro i Vigili del Fuoco di Reggio Calabria versarono all’archivio di Stato.
Alla fine della conferenza ho scambiato qualche impressione con la dottoressa Marra e con il professore Franco Arillotta, presente e a al solito molto garbato e prodigo di consigli.

Che dire? Un pensierino mi è sorto e anche l’idea di come procedere. Tornerò nei prossimi giorni per capire meglio come articolare uno studio su ciò che potrebbe essere interessante per Sant’Eufemia d’Aspromonte. Sarebbe però molto bello se chi è in possesso di materiale storico relativo alla prima guerra mondiale (testimonianze, documenti o reperti) lo mettesse a disposizione della collettività e, ovviamente, a disposizione anche dello studio che ho in testa.

Insomma, io l’ho detto…

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Sud e legalità, il nervo scoperto della storia italiana

Aldo Varano ha “approfittato” della nomina di Pina Picierno nella segreteria del Pd, con delega alla legalità e al Mezzogiorno, per toccare uno dei nervi scoperti della storia d’Italia, forse il suo peccato originale: “Al Sud non manca solo la legalità” (L’Ora della Calabria, 15 febbraio). Come non essere d’accordo? Eppure, centocinquanta e passa anni dopo l’Unità si continua a trattare la questione meridionale come questione criminale, a lottare contro l’illusione che, sbattuto in galera il delinquente di turno, non ve ne siano altri dieci in agguato. Se così fosse, per risvegliarsi nel migliore dei mondi possibili, in Calabria basterebbe commissariare tutti i Comuni (e siamo sulla strada buona), quindi passare alle Province e infine concludere il lavoro di bonifica con la Regione.

È l’idea che animava la Destra storica e i prefetti dell’unificazione investiti della “missione” di guadagnare alla causa nazionale le lontane e recalcitranti regioni meridionali attraverso le questure, il controllo asfissiante sull’attività degli enti locali, lo scioglimento delle amministrazioni per motivi di ordine pubblico, la manipolazione delle elezioni. È l’ispirazione della legge sulla repressione del brigantaggio, la famigerata “legge Pica”, che ignorava la considerazione “sorprendente” contenuta nella relazione (3 maggio 1863) del deputato pugliese Giuseppe Massari, segretario della Commissione d’inchiesta parlamentare sul brigantaggio meridionale: “Il brigantaggio è stato considerato come questione di forza, e quindi per combatterlo non si è saputo far altro di meglio se non contrapporre forza a forza. Ma in cosiffatta questione la parte militare è accessoria, è secondaria”.

Da allora, poco sembra essere cambiato. Se si escludono i laureati sfornati, che scappano o non vedono l’ora di scappare (o restano, conficcando a forza nei cassetti pergamene e sogni), il gap con il Nord è sempre materiale e culturale. Mancano infrastrutture per spezzare l’isolamento fisico e favorire la liberazione in loco delle tante energie e progettualità autoctone; manca la determinazione necessaria per riuscire a scacciare, in settori non marginali della società, la sensazione che l’antistato possa offrire più opportunità dello Stato.

Scopriamo l’acqua calda, ma servono politiche di sviluppo che non si risolvano nello sperpero di denaro per progetti senza prospettiva, l’affermazione del principio meritocratico sulla prassi clientelare e nepotista, la fine della confusione del diritto col favore. Ma soprattutto serve una collettiva assunzione di responsabilità, perché spesso le insufficienze dello Stato diventano l’alibi di complicità quotidiane, più o meno consapevoli, con il malaffare e con la cattiva amministrazione.

Su ZoomSud: http://www.zoomsud.it/index.php/politica/61362-l-intervento-sud-e-legalita-il-nervo-scoperto-della-storia-italiana.html

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“Avremmo voluto fare come in Francia”: in ricordo di Pippo Fiore

Aveva una gran voglia di parlare, Pippo Fiore. A dispetto dei molti “guarda che è meglio se lasci perdere: da tempo ha tagliato ogni tipo di rapporto con tutti quelli che gli eravamo amici”. Inutile dire che l’avvertimento, invece di scoraggiarmi, esaltò il mio desiderio di conoscerlo per sottoporgli la mia richiesta. Stavo lavorando alla tesi di laurea Il ’68 a Messina, argomento sul quale ancora non esisteva uno studio specifico. L’idea, poi realizzata, era quella di intrecciare le testimonianze provenienti da fonti diverse e vagliarle per tentare una ricostruzione quanto più oggettiva, lontana dal mito e dalla nostalgia: i ciclostilati del “giornale dell’occupazione” e i documenti del movimento studentesco messinese, i resoconti della stampa locale, le interviste ai protagonisti, quelli che l’avevano fatto e quelli che l’avevano subito. Ciò che si sperava che fosse, ciò che era stato, ciò che era rimasto a distanza di trent’anni. Il bilancio di una generazione attraverso le risposte alle quaranta domande di un questionario che avevo preparato insieme al mio correlatore, Marcello Saija, anch’egli protagonista di quegli avvenimenti.

Tra i soggetti da intervistare, il comunista Pippo Fiore, all’epoca studente della Facoltà di Giurisprudenza e Scienze politiche, che proveniva – come tanti altri – dall’esperienza delle associazioni (Ugi, Agi, Intesa, Fuan) e degli organismi rappresentativi studenteschi pre-sessantotto: a Messina, il parlamentino dell’Orum, composto da 35 rappresentanti degli studenti. Sconfitto, solo e azzannato dal male che nel giro di un anno lo avrebbe messo al tappeto. “A fargli compagnia, è rimasta soltanto la bottiglia”, la chiosa finale, amara, anche un po’ cattiva, di chi mi suggeriva di non provarci nemmeno.

L’intervista non ci fu. Ci furono due settimane di incontri, tra giugno e luglio del 1997, necessari perché un intervento chirurgico alla lingua gli impediva di esprimersi bene e per più di 20-30 minuti. Già al primo appuntamento, davanti alla trattoria “La Capanna”, mi sommerse di osservazioni e suggerimenti sul percorso che avrei dovuto seguire per scrivere una buona tesi. Dopo le presentazioni, mi strappò letteralmente dalle mani il questionario e cominciò a leggerlo, mentre io gli camminavo a fianco. Finimmo con il percorrere per due volte il perimetro dell’isolato. Finì anche per beccarmi un “sei un figlio di puttana”, quando arrivò alla domanda su cosa significasse essere comunista mentre i carrarmati sovietici occupavano Praga: “è vero che il burocraticismo staliniano e brezneviano ebbe la meglio sulla spinta riformatrice di Dubcek, però non bisogna fare semplificazioni. Ci sono anche, ad esempio, la lotta e la lezione di Che Guevara. Il valore della libertà è l’elemento fondante dell’essere comunista. Altrimenti sei un’altra cosa”.

Con Pippo Fiore, il questionario non servì. Scendeva con un’andatura incerta e leggera da via Dei Vespri, attraversava l’incrocio di via Cesare Battisti ed entrava al “Bar Università”, dove l’attendevo, registratore, bloc-notes e penna sul tavolino. Era un fiume in piena, spaziava da considerazioni politiche, sociali e di costume sulla storia di Messina all’introspezione, per cui a me non restava che tentare di inserirmi con qualche domanda per indirizzarlo sulle questioni attinenti alla mia ricerca.
Come in un nastro, i fotogrammi di un’epoca. L’operazione Mussolini-monsignor Paino, dopo il 1908, che spinge l’Università a rinchiudersi nel proprio recinto culturale. La città succube di una borghesia qualunquista cui dà fastidio il jazz dei ragazzini del “Maurolico”. Il Cut (centro universitario teatrale) e le contrapposizioni ideologiche su Picasso e Dalì, “senza spesso sapere chi c…. fosse Picasso e chi c…. fosse Dalì!”. Il Sessantotto stesso come movimento piccolo-borghese, per il quale – in definitiva – valse la metafora dell’orologio contenuta nella commedia Addio giovinezza! di Nino Oxilia: la storia d’amore tra due studenti universitari a inizio Novecento, bruscamente interrotta quando il padre di lui manda al figlio appena laureato una “cipolla” da tasca che sottintende il richiamo a casa. A Messina e altrove il tentativo di disinnescare la contestazione con la cooptazione (“hai fatto il ’68, con tutte le tue idee… bene, ora puoi tornare a casa”), era riuscito. Quando invece sarebbe stato auspicabile un altro modello di riferimento culturale: lo studente universitario Luca Marano, protagonista del romanzo di Francesco Jovine Le terre del Sacramento, che paga con la vita la scelta di schierarsi al fianco dei contadini molisani in lotta contro il fascismo agrario.

Il grande dolore di Pippo Fiore, nonostante le molte soddisfazioni raccolte da sindacalista Cgil, credo sia stata l’Università: “sono stato per anni assistente universitario, poi mi hanno fatto fuori”. E l’amarezza impregnava l’invito che mi rivolse, affinché studiassi anche i percorsi professionali, in particolare accademici, di molti sessantottini, lasciando così intuire il perché del suo ritiro in sdegnosa solitudine.

Alla domanda “che cosa è errato ora, falso, di quel che abbiamo detto?”, risolta da Bertold Brecht nella poesia A chi esita con “non aspettarti nessuna risposta oltre la tua”, Pippo Fiore non ebbe tentennamento alcuno: “L’autocritica la farei su tutto. Ma alla mia età e con la cosa [il cancro] che ho addosso, fare autocritica sarebbe patetico. L’autocritica è di essere messinese. È stato che avevamo tutti i difetti e che non avevamo alcune cose; è stato che, in fondo, avremmo voluto fare come in Francia”.

Non riesco a non pensare a Pippo Fiore quando su Rai 3, a notte fonda, scorre la sigla di “Fuori Orario”. Anni fa mi è capitato di parlare di lui mentre Patty Smith realizzava il prodigio di Because the night. Altri rimpianti, nella notte che confonde i sogni.

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Via Roma (u Carvariu)

Mi sono ritrovato nella casella di posta elettronica una email che mi ha molto gratificato. Mi ha scritto Cosimo Oliverio, un nostro concittadino (che non conosco personalmente) emigrato in Germania a quattordici anni, nel 1969. Poche righe per ringraziarmi e per dirmi che aspetta “sempre con ansia” qualche articolo su “Sant’Eufemia D’Aspromonte e dintorni”: “Quando leggo il suo blog mi sembra di essere di nuovo ragazzino e correre per le vie del paese vecchio. Abitavo a Via Roma e a via Telesio”.

Gli attestati di stima fanno sempre piacere, soprattutto quando sono inaspettati ed espressi con la semplicità di chi quasi chiede comprensione perché, “dopo 44 anni di emigrazione”, ha “dimenticato purtroppo la nostra bella lingua”. In questo caso, ciò che conta sono i sentimenti, non la perfezione stilistica delle frasi.

Complimenti del genere danno davvero un senso alle cose che scrivo. E quindi sono io a sentirmi in dovere di ringraziare il signor Oliverio e, con lui, tutti gli amici che vivono fuori Sant’Eufemia.
Riporto dal mio libro Il cavallo di Chiuminatto. Strade e storie di Sant’Eufemia d’Aspromonte (p. 136) un brano della voce “via Roma”, donandolo idealmente al signor Oliverio, che là ha trascorso la sua infanzia:

“Via Roma è anche conosciuta come “Il Calvario”, per via del monumento raffigurante la scena delle tre croci collocato quasi in cima alla ripidissima salita che dal Vecchio Abitato porta al Petto. Dalla relazione dell’ingegnere Gaetano Oliverio, autore nel 1846 del progetto originale su incarico dell’allora sindaco Paolo Capoferro, si apprende che un’opera simile, preesistente, era andata distrutta nel corso degli anni […]”.

Al numero uno della via, in alto, si trovava la residenza di Michele Fimmanò, uno degli amministratori più longevi e influenti della storia comunale. Ma altre famiglie eufemiesi importanti avevano in via Roma le proprie dimore, ridotte oggi a ruderi irriconoscibili. Come Palazzo Greco, in origine proprietà dei Capoferro che Rosaria portò in dote a Saverio Greco e che fu ereditato dal figlio Domenico, nato a Delianuova e podestà di Sant’Eufemia nella metà degli anni Trenta, prima di essere assassinato il 19 settembre 1936.

A questa strada, che collega il “Paese Vecchio” con il rione “Petto”, sorto dopo il terremoto del 1783, il poeta Domenico Cutrì (al quale è intitolata la biblioteca comunale) ha dedicato due poesie, la prima in lingua dialettale.

“Lu Carvariu” è contenuta nella raccolta Cascami (1965):

Quantu voti passandu di sta via
m’indinucchiai vicinu a stu carvariu
sgranandu cu la menti nu rusariu
’nsuffraggiu di la morta mamma mia.

E mentri ch’iu pregava cu fervuri,

ogni divotu chi di ccà passava

cu fidi na candila ci ddumava

sutta li pedi di nostru Signuri.

St’artari misu ’mmenzu a ddù paisi

d’ogni fidili canusci li peni,

pari ca dici: «vulitivi beni

senz’odiu, senza chianti, ma surrisi».

O vecchiaredda cu la testa janca

chi ’nchiani pe la strata purvirusa,

avvicinati, o matri dulurusa,

dammi la manu si ti senti stanca…

… e quandu simu ni lu crucivia

ogn’unu pigghia pe lu so’ caminu,

s’abbrazza lu so’ pallidu Destinu,

lu bagagghiu pisanti e… Cusì sia!

“Sulla strada del Calvario” è invece tratta da L’eterno sentire (1974):

Lasciatemi salire,

arrancare ancora una volta

per questa pietraia.

Lasciatemi baciare ancora

la croce arrugginita
dell’icona.

Sarà l’ultima volta.

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Memoria e buon senso

Dieci italiani per ogni tedesco rimasto ucciso nell’attentato eseguito il 23 marzo 1944 dai Gap romani contro le truppe di occupazione in transito da via Rasella. Un ordine giunto direttamente dalla Germania, che rivedeva al ribasso l’iniziale proporzione suggerita da Hitler in persona: cinquanta a uno.
Bisogna tenere a mente questo, quando si guardano le fotografie di Erich Priebke anziano. Quindi accostare le immagini dell’ex capitano delle SS a quelle dei corpi ammassati nelle Fosse Ardeatine: 335 vittime (civili, militari, detenuti comuni e partigiani, ebrei) giustiziate con un colpo di pistola alla nuca. Infine collegare fatti e responsabilità, vittime e carnefici. I martiri dell’eccidio e la pietà umana, da un lato; Herbert Kappler, Kurt Malzer, Erich Priebke, Karl Hass e il questore Pietro Caruso, dall’altra. Né vale la giustificazione “eseguivo degli ordini”, se nei settant’anni successivi all’orribile massacro non ci sono mai stati una dichiarazione di condanna o un barlume di resipiscenza.

Nessun tentennamento, quindi, nella condanna storica e morale di quanto accaduto. Ma veniamo alla cronaca di ieri. Un funerale non funerale, una salma sballottata di qua e di là, gli scontri attorno al feretro. Questa la sintesi di una pagina non esaltante, per nessuno. Per il prefetto di Roma, per l’autore della fuga di notizie, per alcune teste vuote e rasate, per chi si è prodotto nello sport italico dello sputo al cadavere, disciplina che ha una tradizione antica e consolidata.

Per quanto mi riguarda, non è in discussione il sentimento di pietà verso i defunti, che vale per tutti. Anche per Priebke. Quello stesso Priebke che per molti anni si è peraltro mosso per le strade di Roma senza destare parecchia indignazione.

Però chi ha responsabilità nella gestione dell’ordine pubblico doveva prevedere che il funerale facilmente si sarebbe trasformato in un vergognoso raduno di naziskin e che sarebbe bastato un niente per fare scoccare la scintilla della violenza.

Sarebbe stato sufficiente un minimo di buon senso: niente di più, come ha fatto notare anche Massimo Gramellini su LaStampa.it. Ma il buonsenso, si sa, è merce rarissima. Eppure le cronache sono piene di funerali svolti all’alba, in gran segreto e in località sconosciute. Questo bisognava fare. Dare comunicazione della morte del criminale Priebke a esequie officiate: non offrirgli un’ulteriore, postuma e ignobile notorietà.

*Nella foto: “Fosse Ardeatine” (Renato Guttuso, 1950)

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Nei loro occhi, la nostra storia

Cosa resterà di queste giornate di dolore, rabbia e parole? Quando le luci si abbasseranno e il sipario calerà sul sangue di Lampedusa, cosa avremo imparato da questa immane tragedia? Che è una “vergogna”, come tutti – ma proprio tutti, anche quelli che forse avrebbero fatto meglio a tacere – si sono affannati a concordare con papa Francesco? E che sì, è una vergogna: un po’ di indignazione e lacrime che presto asciugheranno, il tanto che basta per salvare le nostre coscienze di occidentali distratti?

Certo, molto è stato detto. L’Europa che pensa di scaricare sull’Italia il dramma dei migranti, la Bossi-Fini, il reato di clandestinità, il diritto di asilo e le regole sull’accoglienza dei naufraghi. L’assurdità di norme che condannano per favoreggiamento i pescatori in soccorso ai barconi abbandonati al largo con il loro carico di disperazione. L’atroce beffa toccata ai sopravvissuti, denunciati (“atto dovuto”) per immigrazione clandestina. Le condizioni drammatiche dei centri di accoglienza a Lampedusa e altrove, sovraffollati e invivibili nonostante l’umanità di operatori, volontari, cittadinanza, forze dell’ordine.

Tutto vero, tutto giusto. Tutto inutile se la questione dei migranti, da emergenza sociale e culturale, sarà sempre derubricata a problema di ordine pubblico. Perché, in quel caso, basterà stringere un patto con i paesi da cui salpano i pescherecci e il problema sarà risolto a monte. E pazienza se le violazioni su migranti e rifugiati politici in alcuni paesi sono all’ordine del giorno. Pazienza se la soluzione trasforma in cimiteri le strade che dal centro-Africa portano al Mediterraneo, come documentò qualche anno fa il giornalista Fabrizio Gatti in un reportage sulla fine che facevano gli immigrati respinti e restituiti alla Libia sulla base dell’accordo stretto tra Berlusconi e Gheddafi nel 2008.
Lampedusa è la punta dell’iceberg. Il trailer di un dramma dalle proporzioni inimmaginabili, con protagonista un’umanità dolente e in fuga da guerre e carestie che muore mentre lotta per attraversare il deserto del Sahara, o mentre sfida le onde del mare su legni di fortuna. Stragi di cui niente si sa, fino a quando non accadono a poche centinaia di metri dalle nostre coste. Cifre di una macabra contabilità da aggiornare quotidianamente.

Numeri che hanno un volto. Lo stesso volto dei nostri nonni e bisnonni affondati sul “Sirio” nel 1906; morti di colera, febbre gialla o tubercolosi nel girone dantesco di Ellis Island; assiderati sul confine francese, mentre tentavano di valicare clandestinamente le Alpi: “quando gli albanesi eravamo noi”, per dirla con il sottotitolo di L’orda, il libro che nel 2002 Gian Antonio Stella dedicò al nonno “Toni ‘Cajo’, che mangiò pane e disprezzo in Prussia e in Ungheria e sarebbe schifato dagli smemorati che sputano oggi su quelli come lui”. Dagos da linciare e impiccare ai lampioni delle strade, come successe nel 1891 a undici siciliani ingiustamente accusati di avere ucciso un poliziotto a New Orleans.

Pagine che andrebbero distribuite nelle scuole, con invito ai ragazzi di portarle a casa e farle leggere a quei genitori che non ne possono più di “tutti questi stranieri che vengono in Italia a rubare, spacciare e stuprare”. Affinché negli occhi impauriti dei naufraghi sopravvissuti riescano finalmente a scorgere un volto familiare; nella loro odissea, la nostra storia; nella negazione dei loro diritti, le nostre lotte per avere riconosciuta dignità di uomini.

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L’epigrafe di Visalli, lo stupore di Mico

Lì per lì Mico non capì cos’era quello strano oggetto che si intravedeva tra i calcinacci depositati dalla benna della ruspa dentro al cassone del suo vecchio OM Leoncino. Spense il motore, saltò a terra e con uno scatto fu tra i resti ammucchiati di quello che era stato un bel palazzo municipale, in seguito rimpiazzato con l’attuale freddo, insignificante edificio.

Un tubo d’acciaio lungo non più di quaranta centimetri, chiuso con un tappo metallico a una delle estremità. Svitò con cura e appoggiò l’occhio destro sul foro, tenendo il sinistro chiuso come quando si punta un cannocchiale verso il cielo, per sbirciare dentro. Quindi estrasse un foglio arrotolato, che aprì con entrambe le mani e tenne davanti al viso per pochi lunghi, interminabili secondi. L’orgasmo era quello del cacciatore di tesori alle prese con la decodificazione di una mappa.

Quel foglio “era” un tesoro. Ma nessuno tra i suoi concittadini lo sapeva, né ricordava l’esistenza di quella miniatura. Amministratori comunali per primi. Erano passati più di settant’anni da quando (luglio 1914) il notaio Pietro Pentimalli, sindaco di Sant’Eufemia, aveva fatto murare nelle fondamenta del palazzo in costruzione l’epigrafe composta dall’illustre concittadino Vittorio Visalli, il maggiore storico del Risorgimento in Calabria:

Fin dagli oscuri tempi feudali/ madre di eletti ingegni e di forti lavoratori/ strenua ribelle contro la borbonica tirannia/ SANT’EUFEMIA D’ASPROMONTE/ sovvertita due volte dai moti convulsi della terra/ due volte risorse/ ed oggi/ per austera volontà di popolo/ per saviezza di amministratori/ per tenacia operosità del sindaco Pietro Pentimalli/ nel porre le fondamenta del suo civico palazzo/ celebra con sereni auspici un’aurora di vita novella/ e guarda fiduciosa a l’avvenire.

V Luglio MCMXIV

Al termine di una polemica durata cinque anni, il paese distrutto dal terremoto del 28 dicembre 1908 stava infatti riprendendo a vivere, un po’ più a ovest rispetto al “Vecchio Abitato”, nella zona denominata “Pezza Grande”. Conciliare la posizione dei nostalgici del “Paese Vecchio” con quella dei fautori del traslocamento nei nuovi terreni da edificare non fu facile, tanto che più volte rischiò di scapparci il morto. Ma alla fine una soluzione si trovò. Merito del deputato reggino Giuseppe De Nava, che riuscì a mettere tutti d’accordo facendo approvare dal Parlamento un provvedimento che di fatto comportò l’abolizione del divieto di ricostruire nelle aree devastate dal terremoto. E che pertanto si guadagnò il diritto di apporre la prima firma sull’epigrafe di Visalli, in cima a destra, alla quale seguirono quelle del vescovo di Mileto, monsignor Giuseppe Morabito, di personalità di primo piano e degli amministratori eufemiesi, sindaco in testa. Il municipio fu però costruito al centro della “Pezza Grande”, in quella piazza “Garibaldi” (oggi piazza “Libertà”) che ben presto, a celebrazione della “marcia” su Roma, assunse – e mantenne per tutta la durata del Ventennio fascista – la denominazione di piazza “XXVIII ottobre”.

Dodici anni più tardi sarebbe toccato al deputato di origine paolana Maurizio Maraviglia, eletto nel “listone” nazionale del 1924 per la circoscrizione Calabria-Lucania, inaugurare il palazzo costruito dalla locale società cooperativa di produzione e di lavoro, presieduta da Pasquale Pisano. Una giornata memorabile, iniziata con l’arrivo a Sant’Eufemia del corteo delle macchine al seguito del gerarca fascista, giunto in treno alla stazione di Villa San Giovanni alle 9.30 del 7 marzo 1926. In compagnia del prefetto di Reggio Calabria Francesco Benigni, Maraviglia – nominato cittadino onorario di Sant’Eufemia – brindò con “vermouth d’onore” all’inaugurazione del palazzo municipale e dell’acquedotto comunale, prima di fare visita, nel pomeriggio, al cantiere della ditta del commendatore Giacomo Chiuminatto, che stava allora ultimando i lavori per la realizzazione della galleria e del ponte sulla ferrovia nel tratto eufemiese della linea “taurense”.

Per il pranzo dell’illustre ospite e del suo nutrito seguito aveva provveduto il podestà Diego Fedele: antipasto assortito, “consumato” alla regina, manzo e pollo con contorno di patate lesse, pesce bollito con salsa alla maionese o salsa verde, dessert, caffè, liquori, champagne. Da bere, vino locale. Al momento del brindisi risuonò stentorea la voce di Bruno Gioffrè, medico condotto, ma anche poeta e brillante oratore in occasione di nozze, commemorazioni di defunti, celebrazioni storiche.

Una storia sopravvissuta in rare fotografie dell’epoca. E in quel tubo d’acciaio, sepolto sotto le rovine del vecchio palazzo municipale, da Mico salvato per caso.

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Quella volta che i pettoti “rubarono” la statua di Sant’Eufemia

“Sa rrobbaru. Sa tinniru e non cia tornaru”. Quante volte l’abbiamo ascoltata (credendoci o scherzandoci su) la storia della statua di Sant’Eufemia “sottratta” dagli abitanti del rione Petto ai “legittimi” proprietari del Vecchio Abitato (o Paese Vecchio)?

Una leggenda metropolitana che affonda le radici nella notte dei tempi, ma che – come tutte le leggende – ha un fondo di verità.

In tanti sosterranno che si tratta di realtà, non di leggenda. Come un mantra ripeteranno antichissimi racconti, tramandati da padre in figlio e giunti freschi ai nostri giorni, carburante ancora buono per alimentare il sacro fuoco dei campanilismi. Che sono almeno tre, coincidente ognuno con un momento cruciale della storia di Sant’Eufemia d’Aspromonte. Snodi storici che videro protagonista la furia degli elementi più che la volontà degli uomini. Perché spesso soltanto gli eventi naturali sono in grado di deviare il corso di una storia che altrimenti scivolerebbe su prevedibilissime rotaie.

Per ogni rione, una campana e un migliaio di campanari. Com’è giusto che sia nella patria di Guicciardini.

Il primo campanile lo troviamo al Paese Vecchio, che fino al diciannovesimo secolo costituì il centro abitato di Sant’Eufemia. Proprio nell’area occupata dall’attuale piazza Concordia, anticamente, sorgeva il monastero di Sant’Eufemia, sui cui resti in seguito fu edificata la chiesa di Sant’Eufemia o chiesa Matrice, che viene segnalata – insieme ad altre tre chiese: San Rocco, San Giovanni, Santa Maria delle Grazie – nel resoconto della visita pastorale del 1586, il più antico a noi pervenuto.

Il terremoto del 5 febbraio 1783 (“u fracellu”), che provocò un migliaio di vittime e la distruzione di gran parte del paese, rappresenta la prima cesura storica significativa. Il progetto di ricostruzione realizzò un nuovo insediamento urbano nel pianoro del “Petto del Principe”, posto più in alto rispetto al vecchio centro. E proprio nell’attigua “Vigna di Belvedere”, che era grangia (per semplificazione, azienda agricola) del monastero di San Bartolomeo di Trigona, si trovava il baraccone nel quale si ritirarono i monaci sopravvissuti al terribile sisma. Lì sorse una chiesa dedicata alla protettrice (mentre la vecchia chiesa Matrice assunse l’attuale denominazione di chiesa del SS. Rosario), che nel 1856 fu riconosciuta come seconda chiesa parrocchiale di Sant’Eufemia, la prima essendo quella dedicata a Santa Maria delle Grazie.

Ma una ulteriore “mutilazione” gli abitanti del Paese Vecchio l’avrebbero subita in seguito al terremoto del 28 dicembre 1908. Poco meno di seicento vittime e duemila persone costrette a trasferirsi nella Pezza Grande (o Pezzagrande), dopo che finalmente fu raggiunto un compromesso tra i fautori della riedificazione nel Paese Vecchio e i propugnatori di una ricostruzione nel nuovo sito, fino ad allora aperta campagna. Protagonista dell’accordo fu il deputato reggino Giuseppe De Nava, il quale si fece garante della revisione della legge sulla definizione delle aree edificabili: ciò comportò l’edificazione del paese nell’area della Pezzagrande, ma anche la deroga al divieto di ricostruire nell’area del Vecchio Abitato.

Sono i due terremoti a cambiare il volto di Sant’Eufemia. E con esso, lentamente, la sua stessa natura e ragione d’essere. Due nuovi rioni, due nuovi campanili. E rivalità che attraversano la storia cittadina come un fiume carsico, presentando – periodicamente – la caratteristica di una inutile e anacronistica contrapposizione: a volte simpatica, certo; ma il più delle volte insopportabile.

La storiella del “furto” della statua di Sant’Eufemia fa parte di questo armamentario campanilistico. Proprio per questo viene raccontata con “dovizia” di particolari: il 16 settembre di un anno imprecisato, la processione partita dal Paese Vecchio sarebbe stata interrotta da un violento temporale che costrinse i fedeli a trovare riparo all’interno della chiesa al Petto, la quale – trascorse ventiquattro ore e sulla base di una legge non meglio specificata – sarebbe diventata ipso facto la nuova dimora della sacra effigie.

Un racconto incredibile, eppure creduto. È evidente, invece, che il trasferimento del culto nella nuova chiesa, dopo il 1783, dovette comportare anche il traslocamento della statua. Come peraltro afferma Vincenzo Francesco Luzzi nel suo contribuito (La comunità ecclesiale di Sant’Eufemia d’Aspromonte nell’età moderna) al convegno storico su Sant’Eufemia d’Aspromonte organizzato dall’Associazione culturale “Sant’Ambrogio” nel 1990, i cui atti furono pubblicati a cura di Sandro Leanza, sette anni dopo.

È evidente, dicevamo. Ma non per tutti, se ancora una quindicina d’anni fa non pochi “fedeli” avrebbero voluto custodire la statua di Sant’Eufemia in un’abitazione privata invece di trasferirla temporaneamente presso la chiesa di Sant’Ambrogio, nella Pezzagrande, per la durata dei lavori di restauro che interessarono la chiesa al Petto. Perché poi, passate le ventiquattro ore, poteva accadere di tutto.
E invece non successe nulla.

*Nella foto, tratta dal profilo Facebook di Antonio Saccà, la spettacolare “entrata” di Sant’Eufemia sotto un tunnel di fuochi pirotecnici

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