Giù le mani dal ponte della ferrovia

La notizia della pubblicazione del bando di demolizione del ponte della ferrovia che ricade nel tratto eufemiese della vecchia linea Gioia Tauro – Sinopoli/San Procopio ha creato tra la popolazione turbamento e rabbia. Quel ponte rappresenta un po’ la storia di Sant’Eufemia nel Novecento. La “littorina” ha portato centinaia e centinaia di studenti del nostro paese a Palmi e a Gioia Tauro, e altrettanti giovani e meno giovani in cerca di un futuro migliore lontano da Sant’Eufemia. I nostri padri, i nostri nonni, da Sant’Eufemia andavano a Gioia Tauro e da lì verso Nord, nelle regioni dell’Alta Italia o al di là delle Alpi. Dentro la galleria si rifugiavano le famiglie di Sant’Eufemia nel corso dei bombardamenti della Seconda guerra mondiale. E non è un caso che ponte e galleria siano gli elementi caratterizzanti il logo dell’Associazione Turistica Pro Loco di Sant’Eufemia.
Ci sono storie e sentimenti che non hanno prezzo. Men che meno possono valere 3.000 euro, il profitto che Ferrovie della Calabria ricaverebbe dalla demolizione del ponte e dalla vendita del materiale ferroso ricavato. Non si può pertanto che condividere la denuncia di Italia Nostra e dell’Associazione Ferrovie in Calabria Gruppo Ferrovie Storiche: siamo di fronte a una “svendita”, che occorre impedire. Possibilmente con un’azione sinergica che, per una volta, metta da parte inutili calcoli di bottega.
Oltretutto, già Italia Nostra aveva presentato un progetto di recupero della tratta dismessa che prevede la realizzazione di una pista ciclabile lungo il suo tracciato. Un’operazione che avrebbe tre positivi risvolti: salvaguardia della memoria storica; conservazione di un’opera di “archeologia industriale”, valorizzazione del patrimonio paesaggistico e naturalistico dei comuni dell’entroterra aspromontano, già da tempo penalizzati da politiche che hanno favorito il loro lento e inesorabile spopolamento e isolamento.
Nel mio Il cavallo di Chiuminatto. Strade e storie di Sant’Eufemia d’Aspromonte (Nuove Edizioni Barbaro, 2013), tratto della ferrovia e del suo ponte in due voci. Ne riporto di seguito alcuni brani.


Via Chiuminatto
Giacomo Chiuminatto nacque a Bolzaneto (Ge) il 15 aprile 1884 e morì a Roma il 12 maggio 1951. Titolare della ditta che costruì il ponte in ferro e la galleria nel tratto ferroviario Gioia Tauro-Sinopoli ricadente nel territorio di Sant’Eufemia, a lui l’amministrazione comunale, tra le due guerre, dedicò la strada che ora è denominata via XXV luglio. […] Nella tradizione popolare, il nome di Chiuminatto è legato ad una massima tramandata fino ai giorni nostri: pari u cavaddu i Chiuminatti (oppure: poti quantu o cavaddu i Chiuminatti). “Sembra il cavallo di Chiuminatto”, con riferimento alla prestanza e alla forza fisica di una persona. Che deve essere tanta, se il termine di paragone sono i cavalli da tiro utilizzati, negli anni in cui fu costruita la ferrovia, per il traino dei carrelli carichi di 5-6 quintali di pietre e breccio. […]
(Pagina 44)

Via Stazione
Come la denominazione stessa suggerisce, è la strada che porta alla stazione ferroviaria, ma segna anche il confine tra corso Vittorio Veneto e corso Umberto I. Chiusa ufficialmente nel 1997, la stazione di Sant’Eufemia era la seconda fermata della tratta “a scartamento ridotto” Sinopoli/San Procopio – Gioia Tauro (le altre, comprese tra i due capolinea: Valli, Malicuccà, Sant’Anna, Seminara, Palmi, San Fantino), lunga 26,283 chilometri e aperta in due tronchi: il 18 gennaio 1917 fu infatti inaugurata la linea tra Gioia Tauro e Seminara, mentre il 21 aprile 1928 fu completato il tratto fino a Sinopoli. Nota anche come “Aspromontana”, fu realizzata (in esecuzione del decreto regio n. 1450 del 29 luglio 1926) in sostituzione del tronco Cinquefrondi-Mammola e della Sinopoli-Varapodio-Radicena, che rientravano nel più ampio progetto (rimasto sulla carta) della Trasversale reggina tra Gioia Tauro e Gioiosa Ionica. Con la Gioia Tauro-Cinquefrondi (completata, tra Gioia Tauro e Cittanova, nel 1924; tra Cittanova e Cinquefrondi, nel 1929), costituiva le “linee taurensi” […]. Il trasporto delle merci e dei passeggeri […] avveniva su “carrozze automotrici” (definite, più semplicemente, “automotrici”) per le quali, all’inizio degli anni Trenta, fu coniato il termine “Littorina”, un omaggio alla simbologia del Ventennio fascista che perpetuava, nel fascio littorio, il mito di Roma antica.
(pagina 141)

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Ambulanti e sognatori

Foto www.circo.it

Almeno una volta nella vita, a molti sarà capitato di essere svegliati dal nastro registrato che giunge fioco da lontano, squilla sotto la finestra e va via sfumando con il suo messaggio di speranza: la possibilità di risolvere in poche mosse un guasto ai fornelli della cucina.
Ripariamo cucine a gasse. Abbiamo tutti i pezzi di ricambio per le cucine a gasse. Se avete perdite di gasse, noi le aggiustiamo; se la vostra cucina fa fumo, noi togliamo il fumo dalla vostra cucina a gasse. Lavoro subito e immediato.
Ecco l’aggiustatore di cucine “a gasse”, riconoscibile dal passo di bradipo della vettura che si arresta per una manciata di secondi agli incroci delle vie, attende gli eventuali clienti e dagli altoparlanti innaffia l’aria di ottimismo.
Gli ambulanti fanno parte di una dimensione onirica, lì resistono al fluire del tempo animando una realtà autonoma che prescinde dal ruolo ricoperto all’interno della famiglia o nella città d’origine. Di loro si conoscono il jingle e la filastrocca che ne precedono l’arrivo, qualche episodio divertente, i tic e gli aspetti buffi del loro carattere o del look. Pochissimo si sa, invece, degli uomini e delle donne che vivono dentro i protagonisti dell’immaginario collettivo e della storia del costume di una comunità.
La mia generazione è cresciuta correndo dietro al camioncino della Palmisanella, una sorta di bazar di prodotti per la casa: pezzo forte era l’omonimo detersivo, “risultato” di una formula chimica la cui segretezza era equiparabile, forse, soltanto alla ricetta della coca-cola.
Scope, spugne, attaccapanni, carta igienica, lana d’acciaio, saponata… è la Palmisanella: l’unico prodotto che candeggia e non corrode la vostra biancheria. Avvicinatevi, donne.
Più indietro si risale nel tempo e più numerosi sono i “personaggi” – non sempre venditori ambulanti – rimasti impressi nella memoria di chi c’era, in epoche oggi percepite come lontanissime ere geologiche. Un po’ perché, avendo la modernità trasformato usi e abitudini, alcune figure sono scomparse o sopravvivono tra mille difficoltà; un po’ perché, altre, non hanno più ragione di esistere. Arrivavano dai paesi della provincia o anche da Messina, sebbene qualcuno fosse autoctono. I forestieri scendevano dalla corriera, in piazza, o dalla sbuffante Littorina a carbone, nella stazione, per aggiungere al quadro variegato dell’umanità cittadina la propria personale tonalità di colore.
Il contesto economico e sociale caratterizzato da una condizione di diffusa povertà favoriva il ricorso al baratto nelle compravendite. Se il cliente dell’umbrellaru non aveva denaro per pagare la riparazione, poteva saldare il debito offrendo prodotti alimentari, perlopiù uova e patate. Con il capiddaru i ruoli si invertivano. Era l’ambulante ad “acquistare” – per poi rivendere a qualche fabbricante di parrucche o di bambole – i capelli spiccicati con il pettine da nonne, mamme e bambine, le frangette accorciate o le trecce recise: “u capiddaru passa… i capiddi vi cangiu”, il grido che faceva affacciare dall’uscio le massaie pronte a scambiare con secchi, bidoni o fiori di plastica il sacchetto riempito con le ciocche raccolte.
Per le strade era un vandijari continuo. Il calderaio (“U caddararu conza e stagna”) portava con sé l’occorrente per rimettere in sesto padelle, pentole, tijelle e paioli di rame. Don Carluccio offriva dalla cassetta che gli pendeva davanti al petto (“don Carluccio passa!”) filo, aghi, elastici e ditali, utilissimi in tempi in cui tutte le donne erano artiste del ricamo e del rammendo. Il gelataio Gigi “Buttigghia” metteva le carte in tavola: “gelati, graniti… senza sordi non veniti”. Ma spesso regalava un piccolo cono ai bimbi che lo aiutavano a spingere nelle salite il carretto a pedali su cui trovavano sistemazione i contenitori del gelato e i blocchi di ghiaccio indispensabili per non farlo sciogliere.
Anche mastro Michele “u pettinareddu” appagava la golosità dei ragazzi con soli due gusti, limone e cioccolato, lui che – ad eccezione dei mesi estivi – in realtà girava le strade per vendere stoffe e articoli di merceria, prima di mettere su un genere alimentari dove era possibile trovare pure le figurine Panini. D’altronde, non era il solo ad esercitare più mestieri: il cristinoto radeva barbe, ma appena incastrava nell’occhio destro il monocolo che teneva in tasca si trasformava in apprezzato rrivogiaru.
Sulle due ruote si spostava anche l’arrotino, con a bordo la cassetta degli attrezzi e la mola affilatrice che veniva azionata dai pedali della bicicletta stessa.
Fòto-fìa è à-rrivà-t” era invece l’espressione sincopata del fotografo che attraversava lo Stretto prevalentemente in occasione delle feste di paese. Aria professionale dietro la macchina a soffietto montata sul treppiedi, infilava la testa sotto il mantello nero che lo copriva fino alle spalle, la mano sinistra a reggere in alto il lampeggiatore al magnesio, nella destra la pompetta di azionamento: “sorridere, sorridere”, l’invito rivolto ai soggetti in posa. Attorno a lui, nidiate di bambini che lo imploravano affinché consentisse loro di guardare dentro l’obiettivo per ammirare il portento dell’immagine capovolta degli estemporanei modelli.
Le voci degli ambulanti avevano un contraltare “istituzionale” nel banditore comunale, il quale in realtà si metteva a disposizione sia del pubblico che del privato. Annunciava infatti alla popolazione l’orario di sospensione del servizio idrico, ma anche la presenza di primizie nel mercato domenicale e nelle putighe del paese. Quando non specificava in quale dei “Paddechi” fosse arrivata la “novità”, la strada diventava teatro di un simpatico siparietto ad alto volume:
Arrivau u favi!
Nto Paddecu d’ammunti o nto Paddecu i gghiusu?
Ma la piazza non era soltanto la sede del mercato. Qui veniva sistemato il telone sul quale il proiettore, da un autocarro, lanciava le immagini dei documentari e dei cinegiornali dell’Istituto Luce, attese con ansia da un pubblico numerosissimo e curioso di sapere ciò che accadeva “fuori”, lontano dai campi dell’Aspromonte. Molto seguiti erano anche gli spettacoli dei cantastorie, che incantavano gli spettatori con il racconto delle vicissitudini della baronessa di Carini, del brigante Musolino o del bandito Giuliano, alternando la canzone alla recitazione, mentre con una bacchetta aiutavano il pubblico a seguire le scene dipinte sul telo srotolato che illustrava la sequenza degli avvenimenti narrati.
Un universo felliniano, nel quale trovavano una naturale collocazione giocolieri e saltimabanchi. Il circo di Fortunello (“Mi chiamo Fortunello, non son brutto e non son bello”) e poi quello mitico di Zavatta allestito al “mercato dei porci”. Protagonisti assoluti il titolare e clown Scarpacotta, con le sue enormi scarpe da scena, artista tuttofare che passava dalla rappresentazione del duello tra i compari Alfio e Turiddu agli esercizi acrobatici, e Rosina, miraggio inarrivabile per i ragazzi che incantati ne seguivano il volteggiare in costumino rosa sul trapezio o l’incedere da amazzone in groppa al cavallo. Un tacito accordo consentiva il pagamento del biglietto d’ingresso in prodotti dell’orto, quando non erano gli stessi circensi a richiedere espressamente un compenso in generi alimentari.
Sogni a basso costo, come la fortuna venduta da Rocco con la collaborazione di un pappagallo che “sceglieva” con il becco tra i biglietti arrotolati e sistemati in due piccoli cassetti: uno contenente i messaggi “per signorina”, l’altro quelli “per ragazzino”, sui quali veniva indirizzato a seconda delle richieste.
Sogni del passato che rivivono nel presente, nostalgia per un mondo scomparso e affidato al ricordo dei tempi andati.

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Compagni di scuola in una foto degli anni Cinquanta

Eccoli qua i nostri genitori, i nonni di molti che scruteranno la foto con la
curiosità del visitatore di una mostra sulla condizione delle famiglie povere
del secolo scorso. Non ci vuole molta fantasia per riconoscere i nostri
lineamenti in questi volti seppiati di metà anni ’50, nel lungo ciuffo di lato
che sembra ricordare la recente tragedia della guerra scatenata dal criminale nazista,
nelle maglie a righe lavorate ai ferri, spesso il prodotto di un’economia che
ancora era da baratto e che non riusciva a riempire la pancia di chi non aveva almeno
una striscia di terra da coltivare.

Non ride quasi nessuno tra gli alunni in posa per la foto di una terza classe
elementare di Sant’Eufemia, forse nel primo anno scolastico svolto nell’attuale
edificio della “Don Bosco”. Erano state da poco abbandonate le classi dislocate
in diverse baracche del paese, con i pennini che se non li sapevi trattare con
delicatezza finivano per allargare chiazze nere sui fogli e i calamai riempiti
ogni mattina a metà, all’origine delle punizioni più severe per i ragazzini che
anche soltanto fortuitamente ne avessero rovesciato sul banco l’inchiostro.   

Bambini e bambine di tutte le tutte le “taglie”, i regolari accanto ai ripetenti di
lungo corso, questi ultimi solitamente provenienti da famiglie poverissime per
le quali le priorità erano altre rispetto alla frequenza scolastica dei figli. 
Con loro il maestro Chiné, che arrivava tutti i giorni da Reggio Calabria percorrendo
la strada provinciale a bordo di una Vespa in compagnia del collega Errera. La costruzione dell’autostrada era ancora un lontano miraggio. Personaggi appartenenti agli anni mitici del servizio vissuto come una missione da svolgere nella trincea dell’Aspromonte. Con il caldo e con il
freddo, oppure sfidando Giove pluvio coperti alla meglio dalla cerata che molto,
tuttavia, lasciava al dominio della pioggia battente. Sia detto senza retorica:
due insegnanti eroici. Memorabile quella volta che la motoretta sbandò in un tornante tra Scilla e Bagnara, trascinando i due maestri a terra. Per lo stupore degli alunni che assistettero al loro sofferente ingresso in classe, lacerati
e con i pantaloni a brandelli.   
Non ridono Bazzicotto, Straccio e tutti gli altri figli del secondo dopoguerra, di lì a poco artefici del riscatto di una generazione che non aveva niente e che in paese, al Nord Italia o all’estero sarebbe riuscita a realizzare il miracolo: assicurare ai propri figli condizioni di vita neanche immaginabili
negli anni della grande miseria.   
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Ruggiero Settimo e Ruggero VII, quando la storia diventa un optional

Il viandante che abbia fiato e gambe per percorrere a piedi la ripida salita di via Roma a Sant’Eufemia d’Aspromonte (nota come “u carvariu: il calvario”, dal monumento che quasi in cima al percorso riproduce le tre croci del Golgota) noterà senz’altro sulla sua sinistra, alla fine del primo tratto, la viuzza che taglia verso Largo Campanella e infine digrada nell’area adiacente al torrente Nucarabella.
Un viandante curioso, che si pone delle domande perché vuole conoscere l’origine e la motivazione storica dei nomi delle strade, resterà però interdetto nel leggere sul cartello toponomastico “via Ruggero VII”. Comincerà a ripassare la storia imparata sui libri di scuola, ma niente. Tutt’al più gli balzerà in mente Ruggero II d’Altavilla, re di Sicilia (“Ruggero il normanno”), passato alla storia per avere riunito sotto la propria corona i possedimenti normanni dell’Italia meridionale e per avere generato Costanza, futura mamma dello “stupor mundi” Federico II di Svevia. Al “settimo” non ci arriverà mai e poi mai, semplicemente perché non è mai esistito un Ruggero con un ordinale dinastico del genere. Settimo, nel caso in questione, è infatti un cognome.

La vicenda è paradigmatica, tipica di un Paese ignorante che non conosce il proprio passato o se ne ricorda ogni tanto, in circostanze solitamente traboccanti retorica, ma verso il quale ha in fondo un atteggiamento di fredda indifferenza.
Non è sempre stato così. Sul foglio di mappa redatto dall’Ufficio tecnico del Comune nel 1880, la via viene infatti segnalata correttamente come “Ruggero Settimo”, che fu il primo presidente del Senato nella storia dell’Italia unita, morto a Malta il 12 maggio 1863 senza essere in realtà riuscito nemmeno a recarsi a Torino per prestare giuramento, a causa delle sue malandate condizioni di salute.
Si trattò, allora, di una sorta di omaggio da parte di Cavour e dell’establishment sabaudo al politico leader della rivolta siciliana del 1848, capo del governo provvisorio che aveva dichiarato decaduto Ferdinando IV di Borbone e offerto la corona del regno di Sicilia al duca di Genova, Alberto Amedeo di Savoia (il quale tuttavia non accettò l’offerta). Ma fu anche una designazione dal profondo significato politico, perché Ruggero (o Ruggiero) Settimo “dei principi di Fitalia”, antico protagonista del movimento liberale che in Sicilia aveva ottenuto la costituzione del 1812 e poi guidato il moto separatista del 1820, rappresentava quei ceti dominanti della Sicilia, un tempo autonomisti e indipendentisti, che ora venivano recuperati alla causa nazionale e unitaria.
Ventitré anni più tardi, sul foglio di mappa del 1903, veniva invece già riportato lo strafalcione in seguito puntualmente reiterato, senza che nessuno lo rilevasse. Tutt’oggi impunito, campeggia sul muro di un’abitazione, superba e avvilente dimostrazione dell’importanza attribuita alla storia in questa società fatta di solo presente.

*Ringrazio per le fotografie Fausto Monterosso
** Il ritratto di Ruggiero Settimo, realizzato da Giuseppe Patania, è custodito presso il Museo del Risorgimento di Palermo

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Il triste centenario dell’Istituto antoniano delle Figlie del Divino Zelo

Il 29 giugno del 1915 le campagne di Sant’Eufemia erano distese gialle venate di verde, come se sopra la terra già brulla fosse passato il pennello di un pittore a dipingere le spighe di grano quasi del tutto mature e accarezzate dal vento. “Giugnu farci in pugnu”, confermava infatti la saggezza popolare per indicare l’inizio della mietitura, lavoro che poi avrebbe impegnato le giornate dei braccianti per tutto il mese di luglio: “a giugnu, u ’ranu c’u pugnu; a giugnettu, u ’ranu è nettu”.
Il mattino annunciato dal sole caldo e accecante sarebbe stato diverso dai precedenti, anche se i protagonisti di quella giornata memorabile non sapevano che si stavano apprestando a scrivere una pagina storica per quei mucchietti di case conficcate nella carne viva dell’Aspromonte, ancora sanguinante per le ferite del terremoto del 1908. L’inizio di storia d’amore giunta fino ai nostri giorni, appena in tempo – forse – per essere celebrata prima che ne venga decretata la fine, cent’anni dopo.
Quel lontano giorno Padre Annibale Maria di Francia, proclamato santo nel 2004, celebrò la messa e consacrò la Casa delle Figlie del Divino Zelo a San Giuseppe e al Cuore SS. di Gesù. Il religioso arrivava da Messina, città nella quale spese la sua vita (vi nacque il 5 luglio 1851, vi morì l’1 giugno 1927) al servizio dei bisognosi e dei derelitti del quartiere “Avignone”, il più degradato del capoluogo peloritano. Qui, tra i tuguri che erano stati proprietà dei marchesi Avignone (case di “Mignuni”, per il volgo), a partire dal 1878 Padre Annibale svolse la sua opera di redenzione morale e materiale degli ultimi (“cu vai a casa du Patri ’i Francia, trasi, si ’ssetta e mancia”), culminata con la fondazione di un orfanotrofio antoniano femminile (1882) e di uno maschile (1883). Nel 1887 fondò la Congregazione religiosa delle “Figlie del Divino Zelo” e nel 1897 la Congregazione dei Rogazionisti del Cuore di Gesù, entrambe dedite alla preghiera per le vocazioni e all’assistenza e all’educazione degli orfanelli e dei bambini abbandonati.
Padre Annibale giunse a Sant’Eufemia in compagnia della messinese Madre Maria Nazarena Majone (era nata a Graniti il 21 Giugno 1869, morì a Roma il 25 gennaio 1939), cofondatrice delle “Figlie del Divino Zelo”, con la quale condivise la fatica e l’amore del servizio per i poveri del quartiere “Avignone” e che fu la vera artefice della fondazione di nuove “Case”, oltre a quella di Sant’Eufemia: San Pier Niceto (Messina, 1909), Trani (Bari, 1910), Altamura (Bari, 1916), Roma (1924), Torregrotta (Messina, 1925), Novara di Sicilia (Messina, 1927).
Con loro una grande eufemiese, suor Maria Rosaria Ioculano, nata dal medico Antonino e da Caterina Versace il 27 agosto 1849, la quale aveva consacrato alla Congregazione la vita e donato a Padre Annibale tutti i suoi beni. Il 26 luglio fu quindi inaugurato il laboratorio per le ragazze del paese e, di lì a poco, l’asilo infantile.
Nel corso del Novecento l’Istituto antoniano di Sant’Eufemia ha accolto molte ragazze decise a prendere i voti, mentre ancora più numerosi sono stati gli orfanelli e i bambini in condizioni di degrado economico e sociale ospitati nella struttura di via delle Rose che il 3 novembre 1927 raccolse l’ultimo respiro di suor Ioculano.
Ora sembra che su questa storia si stia per scrivere la parola fine. Per una ragione “spirituale”: la crisi vocazionale che ha ridotto sensibilmente il numero delle suore presenti nell’Istituto. Per una prettamente economica: il progressivo calo degli iscritti alla scuola dell’Infanzia paritaria, le cui rette di fatto mantengono l’intera struttura, che è diventata “casa di accoglienza per minori” dopo la chiusura degli orfanotrofi decretata a partire dal 31 dicembre 2006 (legge n. 149 del 28 marzo 2001).
L’anno scolastico 2015-2016, che partirà regolarmente nonostante i pochi iscritti (40) potrebbe davvero essere l’ultimo.

*Foto tratta dalla pagina Facebook Scuola FDZ – Sant’Eufemia d’Aspromonte

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“U Burgu” in fiamme

Ninuzzo è un dodicenne vivace, che non sta fermo un secondo neanche a tenerlo legato. Sempre in giro ad armari chiacchi per le lucertole che, una volta catturate, si diverte a portare al guinzaglio. Un paio di scarpe con le ttacce che spesso toglie perché gli sono d’impaccio quando deve correre veloce per portare in salvo la frutta rubata negli orti che fanno da corona al centro abitato. Pantaloni di tarpa e maglie grosse anche d’estate: è importante essere preparati ad affrontare il freddo, quando arriverà; alla calura si può sempre ovviare rinfrescandosi con l’acqua del gurnali a Crasta tra rane, bisce, trote.
Gli piacciono gli animali, nel 1902 ce ne sono ovunque a Sant’Eufemia. Cani e gatti per strada, galline, capre da mungere ogni mattina per la colazione e le famiglie più fortunate anche il mulo nel pianterreno; in quello di sopra ci si stringe alla meglio, sei-sette ma anche di più tra adulti, bambini e anziani. L’acqua viene versata dalle bumbule riempite nelle fontane pubbliche, per il bucato si utilizzano i lavatoi di Diambra o della Nucarabella.
La sua passione sono i gatti, se ne trovano in quasi tutte le case. Vivono tra il fieno del basso e fanno da guardia alle scorte alimentari esposte alla costante minaccia dei topi. Da un po’ di tempo un pensiero occupa la sua mente dalla mattina alla sera: controllare se i gattini nati da qualche giorno stanno bene. Ogni paio d’ore afferra la lampada a petrolio e va a scovare il rifugio che mamma gatta ha rimediato in un angolo del deposito dell’abitazione in cui vive, nel rione “Borgo”.
Sono appena trascorse le tredici del 18 settembre, due giorni prima ci sono stati i festeggiamenti in onore della santa patrona: Ninuzzo appoggia a terra il lume e accade l’irreparabile. Una favilla schizza sul fieno, che prende fuoco. Quando il ragazzino se ne accorge è troppo tardi, o forse non fa neanche in tempo a comprendere quello che sta accadendo. Può darsi che la scintilla abbia portato a termine il suo tragico lavoro in un secondo momento. Con Ninuzzo già lontano. Il rapporto trasmesso al prefetto di Reggio Calabria su questo punto non è chiaro. Fatto sta che l’incendio si sviluppa rapido e le fiamme, alimentate dallo scirocco, si propagano nelle case vicine, “costituite da quattro muri perimetrali in muratura e da vari tramezzi ed impalcature in legname”. La maggior parte sono vuote perché i proprietari sono contadini impegnati nel lavoro dei campi. Proprio per questo non ci saranno vittime, ma proprio per questo l’incendio divamperà violentissimo. Due donne lanciano l’allarme, subito dopo accorrono sul posto il brigadiere e due carabinieri. Quindi si precipitano tra le viuzze del “Borgo” le autorità locali, le guardie municipali e quelle campestri, volontari giunti d’un fiato persino dalla vicina Sinopoli, allarmati dallo spettacolo drammatico delle lingue di fuoco altissime contro il cielo cobalto. Nel volgere di quattro interminabili ore l’incendio viene circoscritto, alle 21.10 al prefetto viene comunicato che le fiamme sono state finalmente domate. I soccorritori riprendono a respirare, si passano stracci bagnati a togliere cenere e fumo incrostati dai visi stanchi, si lasciano cadere a terra come in una liberazione, vinti dall’emozione e dalla fatica.
Il bollettino finale è da guerra: 7.500 metri quadrati di area urbana devastati dalle fiamme, 126 case distrutte completamente e 11 parzialmente, quasi 500 cittadini senza un tetto sotto il quale ripararsi, 141 nominativi inseriti nell’elenco delle persone danneggiate. Il presidente del consiglio provinciale, l’eufemiese Michele Fimmanò, denuncia danni per duecentomila lire, anche se il sottoprefetto di Palmi dimezza la stima della somma necessaria per coprire i costi di ricostruzione delle abitazioni e risarcire il danno per la perdita delle derrate.

Le vittime trovano ospitalità nei locali delle scuole e nelle chiese, dalla seconda notte nelle tende da campo montate dai militari dell’esercito, infine in abitazioni messe a disposizione dall’amministrazione comunale, che provvede al pagamento dell’affitto e alla distribuzione di buoni spesa per pane e pasta. Nell’immediato servono almeno 5.000 lire. Il ministero dell’Interno stanzia 1.600 lire di sussidi (più ulteriori 900 a distanza di poco tempo), altre 2.000 le invia il re d’Italia Vittorio Emanuele III affinché siano distribuite “fra gli abitanti più bisognosi”, circa 1.000 vengono invece raccolte grazie alle sottoscrizioni del “Comitato provinciale di soccorso”, composto dalle personalità più rappresentative della provincia: il consigliere di prefettura Alfredo Pacetti (delegato del prefetto), il deputato nazionale Giuseppe De Nava, il presidente del consiglio provinciale Michele Fimmanò, il presidente della deputazione provinciale Francesco Carlizzi, il sindaco di Reggio Calabria Giuseppe Carbone, il sindaco di Sant’Eufemia Francesco Capoferro, il presidente della Camera di Commercio Giuseppe Spinelli, il direttore della succursale della Banca d’Italia Tranquillino Squillace, il direttore del Banco di Napoli.

Come spesso accade quando la sventura si accanisce contro una comunità, si mette in moto una gara di solidarietà che tuttavia non riesce ad alleviare i disagi della popolazione colpita dal disastro. A un anno di distanza il sindaco di Sant’Eufemia è infatti costretto a richiedere al ministero dei Lavori Pubblici l’invio di un ingegnere del genio civile, affinché accerti definitivamente il danno patito dalle vittime dell’incendio e proceda alla redazione del progetto di ricostruzione di circa ottanta case, mentre ancora nell’estate del 1904 definisce insufficiente la raccolta di fondi per la ricostruzione del quartiere raso al suolo dal fuoco.

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Muti, Cilea e un po’ di Sant’Eufemia sconosciuta

Le immagini della visita di Riccardo Muti al mausoleo di Francesco Cilea, a Palmi, hanno riportato alla mia mente una curiosità storica della quale forse non tutti sono a conoscenza. L’autore di Adriana Lecouvreur nacque infatti a Palmi il 23 luglio 1866, figlio dell’avvocato Giuseppe e di donna Felicia Grillo. Nelle sue vene scorreva però una parte di sangue eufemiese: quello della nonna Rachele Parisi, figlia di Francesco e Marianna Capoferro, la quale a 23 anni, il 2 giugno 1822, aveva sposato il ventottenne Francesco Cilea, medico originario di Pentidattilo. L’atto di matrimonio, redatto dall’allora sindaco di Sant’Eufemia Antonino Luppino, è conservato nel “Registro dei matrimoni” (anno 1822), presso l’Ufficio Anagrafe e Stato civile.

Un altro filo rosso che lega Cilea alle pendici dell’Aspromonte ci porta invece dritti a Nino Zucco: pittore, scrittore e scultore originario di Sant’Eufemia sulla cui opera l’8 aprile 2013 l’amministrazione comunale ha organizzato un convegno, grazie all’input arrivato da una serie di articoli e interventi che su questo blog avevano denunciato l’oblio ingiustamente calato su uno degli eufemiesi più illustri del Novecento.

Zucco fu infatti spesso ospite della casa del compositore palmese, sia a Roma che a Varazze, in provincia di Savona, dove Cilea trascorse gli ultimi anni di vita. È opera di Zucco il celebre quadro che ritrae il Maestro seduto al pianoforte. Così come il disegno a carboncino che ne riproduce il volto sofferente, a pochi giorni dalla morte.

Fu proprio grazie all’opera di convincimento di Zucco che la moglie di Cilea, inizialmente contraria, acconsentì di rilevare il calco del viso del marito per realizzarne la maschera funeraria.

A trent’anni dalla morte (1981), Zucco diede alle stampe il ricordo e il carteggio attestanti il rapporto “di profonda devozione da parte mia e di benevolenza e affettuosa amicizia da parte del maestro per me che durò fino alla sua morte” (Francesco Cilea. Ricordi e confidenze, Barbaro editore). Un’amicizia iniziata negli anni Quaranta, quando Cilea volle conoscere personalmente l’autore dell’articolo a lui dedicato dal quotidiano newyorkese in lingua italiana “Il Progresso Italo-Americano” del potentissimo Generoso Pope, sul quale a lungo scrisse anche il giornalista e critico musicale Nino Fedele, un altro eufemiese illustre.

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I novant’anni dell’omicidio Matteotti e quella volta che Sandro Pertini beffò il regime fascista

Il 10 giugno 1924 una banda di squadristi guidata da Amerigo Dumini e in stretti rapporti con Cesare Rossi, capo dell’ufficio stampa della presidenza del Consiglio, sequestra e uccide il segretario del partito socialista Giacomo Matteotti. Il gruppo fa parte della Čeka, una sorta di polizia segreta reclutata dal ministero degli Interni per portare a termine il lavoro “sporco” contro gli oppositori antifascisti più irriducibili. Matteotti è uno di questi. All’indomani delle elezioni del 6 aprile 1924, tenute con la famigerata legge “Acerbo”, denuncia i brogli e le violenze subite dai partiti di opposizione nel corso della campagna elettorale. Dopo il discorso parlamentare del 30 maggio, con il quale il segretario socialista chiede l’annullamento delle elezioni, Mussolini esprime a Rossi il convincimento che era giunto il momento di una “lezione”. E la lezione arriva il 10 giugno, quando Matteotti viene rapito sul lungotevere “Arnaldo da Brescia”. Il corpo in stato di decomposizione viene ritrovato il successivo 16 agosto nel bosco della “Quartarella”, a una ventina di chilometri a nord di Roma.
Il governo attraversa una grave crisi politica e sembra sul punto di crollare sotto il peso della reazione dell’opinione pubblica. Gli errori tattici delle forze di opposizione, che si ritirano nell’Aventino e attendono invano una mossa del re Vittorio Emanuele III consentono però a Mussolini di superare il difficile momento e imprimere addirittura un ulteriore giro di vite alla già traballante vita democratica del Paese. Il 3 gennaio 1925 il fondatore del fascismo pronuncia infatti il discorso che segna il passaggio dalla democrazia liberale alla dittatura e assume in prima persona “la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto”. Tra il 1925 e il 1926 vengono approvate le leggi “fascistissime”: definizione delle attribuzioni e delle prerogative del “capo del governo”, non più “presidente del consiglio”, né primus inter pares; abolizione della libertà di stampa e del diritto allo sciopero; scioglimento delle opposizioni politiche e dei sindacati; controllo di polizia su tutte le associazioni; istituzione del confino politico e del Tribunale speciale per la sicurezza dello Stato; abolizione delle rappresentanze elettive dei comuni e introduzione del podestà; pena di morte. Il governo diventa regime. Nel 1928 il processo viene perfezionato con la costituzionalizzazione del Gran Consiglio del Fascismo, l’abolizione del Consiglio e della Deputazione provinciale, l’introduzione del plebiscito (nel 1939 ci sarebbe stata la definitiva abolizione dei “ludi cartacei” e l’istituzione della Camera dei Fasci e delle Corporazioni). Infine, nel 1938, la vergogna delle leggi razziali.

In vista del primo anniversario dell’omicidio Matteotti, le autorità di polizia mettono in campo le contromisure per evitare la proposizione di iniziative antifasciste. A Savona però qualcosa sfugge alle strette maglie del controllo fascista, cosicché il giovane Sandro Pertini riesce a portare a compimento la beffa organizzata con i compagni socialisti e comunisti. Di seguito, il racconto del futuro presidente della Repubblica.

Dopo il processo a mio carico del 2 giugno 1925, ripresi la mia attività antifascista. Così pensai di onorare pubblicamente la memoria di Giacomo Matteotti. Presi accordi con giovani comunisti. Allora in Savona, per mia iniziativa, si era costituito un fronte politico che andava da noi socialisti unitari ai comunisti, in difesa di Sacco e Vanzetti. Questo fronte naturalmente svolgeva anche attività antifascista. Avevo in quell’epoca costanti contatti con esponenti comunisti, tutti in gambissima: Pippo Rebagliati, Alietto, poi sindaco di Savona, Crotta… Li misi al corrente del mio piano per Matteotti. Essi l’approvarono e mi assicurarono la collaborazione di giovani comunisti molto coraggiosi e intelligenti. Ed ecco la diavoleria che combinai. Il 9 giugno 1925 mi recai da un fioraio e ordinai una corona di alloro piccola di diametro, poi acquistai un nastro rosso e grandi lettere dell’alfabeto in cartone dorato. Andai nel mio studio e attaccai sul nastro le lettere dell’alfabeto in maniera da comporre questa frase: «Onore a Giacomo Matteotti». Confezionai quindi un pacco che potesse apparire come un grosso panettone. Verso la mezzanotte mi recai alla stazione in modo da non essere visto e ne uscii confuso con i passeggeri dell’ultimo treno che arrivava da Genova. La notte tra il 9 e il 10 Savona era pattugliata in lungo e in largo da squadristi e da militi fascisti armati di manganello, perché le autorità temevano che si preparasse qualche cosa per ricordare l’anniversario dell’assassinio di Matteotti. Io, col mio pacco, me ne vado dalla stazione al Prolungamento, verso la località ove un tempo vi era la fortezza in cui fu prigioniero Giuseppe Mazzini. Sul muro della fortezza, che dava su una piazza, c’era un gancio proprio sotto la lapide, che ricordava la prigionia di Mazzini. A quel gancio era usanza appendere corone per ricordare anniversari patriottici. Lungo il muro si alzava una siepe. Ricordo che l’appuntamento con i comunisti l’avevo in un posto non molto poetico, cioè un vespasiano che era sulla destra andando verso il mare. Vado nel vespasiano e vi trovo un giovane comunista che mi dice che dietro la siepe mi attendono due suoi compagni. Entro nella siepe e li trovo. E’ trascorsa mezzanotte. Sentiamo passare le pattuglie dei fascisti. Rimaniamo in silenzio, quasi a trattenere il fiato. Passate le pattuglie i due giovani mi alzano ed io appendo la corona al chiodo. Aggiusto bene il nastro perché la scritta appaia chiaramente. Ci abbracciamo e, felici del colpo riuscito, ognuno se ne va per la sua strada. Gli operai dell’Ilva, fabbrica allora vicina alla fortezza, avvertiti la sera prima, mentre vanno il mattino del 10 al lavoro sfilano in silenzio sotto la corona, si tolgono il cappello e la guardano… e qualcuno aveva le lacrime agli occhi. La corona, caso strano, nonostante la rigorosa sorveglianza, venne scoperta solo verso le 11 del giorno 10. Le autorità immediatamente pensano a me quale autore del… misfatto. Si riuniscono gli esponenti fascisti presso il procuratore del re; viene esaminata l’azione e studiati i provvedimenti da prendersi. Il procuratore conclude che, non essendovi gli estremi di alcun reato, non può spiccare mandato di arresto nei miei confronti. «Ci penseremo noi!», dicono i fascisti. E ci pensarono: il 12 giugno fui manganellato a sangue.

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Piero Calamandrei: Ora e sempre Resistenza

Processato nel 1947 per crimini di Guerra (Fosse Ardeatine, Marzabotto e altre orrende stragi di innocenti), Albert Kesselring, comandante in capo delle forze armate di occupazione tedesche in Italia, fu condannato a morte. La condanna fu commutata nel carcere a vita. Ma già nel 1952, in considerazione delle sue “gravissime” condizioni di salute, egli fu messo in libertà. Tornato in patria fu accolto come un eroe e un trionfatore dai circoli neonazisti bavaresi, di cui per altri 8 anni fu attivo sostenitore. Pochi giorni dopo il suo rientro a casa Kesselring ebbe l’impudenza di dichiarare pubblicamente che non aveva proprio nulla da rimproverarsi, ma che – anzi – gli italiani dovevano essergli grati per il suo comportamento durante i 18 mesi di occupazione, tanto che avrebbero fatto bene a erigergli… un monumento.

A tale affermazione rispose Piero Calamandrei, con una famosa epigrafe (recante la data del 4.12.1952, ottavo anniversario del sacrificio di Duccio Galimberti), dettata per una lapide “ad ignominia”, collocata nell’atrio del Palazzo Comunale di Cuneo in segno di imperitura protesta per l’avvenuta scarcerazione del criminale nazista.

Lo avrai

camerata Kesselring

il monumento che pretendi da noi italiani

ma con che pietra si costruirà

a deciderlo tocca a noi.

Non coi sassi affumicati

dei borghi inermi straziati dal tuo sterminio

non colla terra dei cimiteri

dove i nostri compagni giovinetti

riposano in serenità

non colla neve inviolata delle montagne

che per due inverni ti sfidarono

non colla primavera di queste valli

che ti videro fuggire.

Ma soltanto col silenzio dei torturati

più duro d’ogni macigno

soltanto con la roccia di questo patto

giurato fra uomini liberi

che volontari si adunarono

per dignità e non per odio

decisi a riscattare

la vergogna e il terrore del mondo.

Su queste strade se vorrai tornare

ai nostri posti ci ritroverai

morti e vivi collo stesso impegno

popolo serrato intorno al monumento

che si chiama

ora e sempre

RESISTENZA

*Testo introduttivo a cura dell’Anpi

**Casa originale: http://www.partigiano.net/gt/calamandrei_kesserling.asp

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Un posto per la nostra storia

Molti ricorderanno la campagna partita da questo blog nel mese di gennaio del 2013, affinché l’amministrazione comunale commemorasse con i dovuti onori Nino Zucco, poliedrico artista eufemiese in contatto con i massimi esponenti della cultura calabrese nel Novecento: Francesco Cilea su tutti, ma anche Leonida Repaci, Corrado Alvaro, Raul Maria De Angelis, Alessandro Monteleone, Michele Guerrisi, Francesco Perri, Antonio Piromalli, Leopoldo Trieste. L’articolo suscitò gli interventi di Antonello Zucco e di monsignore Giorgio Costantino (rispettivamente figlio e nipote di Nino Zucco); quindi, su impulso del sindaco di Sant’Eufemia Domenico Creazzo, in breve tempo ci furono l’inaugurazione della Pinacoteca comunale (all’interno della quale una parete è oggi dedicata alle opere che il figlio di Zucco donò in quella circostanza) e l’organizzazione del convegno “Nino Zucco: pittore, scultore, scrittore, cantore della memoria eufemiese”.

Insomma, esiste un precedente incoraggiante. Per il calendario delle manifestazioni estive 2014 si potrebbe pensare a un’iniziativa di recupero della memoria storica, atteso che il prossimo 5 luglio ricorrerà il centenario della posa della prima pietra del palazzo municipale costruito dopo il terremoto del 1908 e inaugurato ufficialmente nel 1926, alla presenza del gerarca Maurizio Maraviglia.
Quella bella struttura architettonica è stata rasa al suolo una trentina d’anni fa, sostituita dall’attuale. E qui mi fermo, senza aggiungere altro, per carità di patria. È giunta però a noi l’epigrafe composta in quella solenne circostanza dallo storico eufemiese Vittorio Visalli:

Fin dagli oscuri tempi feudali/ madre di eletti ingegni e di forti lavoratori/ strenua ribelle contro la borbonica tirannia/ SANT’EUFEMIA D’ASPROMONTE/ sovvertita due volte dai moti convulsi della terra/ due volte risorse/ ed oggi/ per austera volontà di popolo/ per saviezza di amministratori/ per tenacia operosità del sindaco Pietro Pentimalli/ nel porre le fondamenta del suo civico palazzo/ celebra con sereni auspici un’aurora di vita novella/ e guarda fiduciosa a l’avvenire.

Sarebbe opera meritoria scolpire sul marmo le parole del più eminente storico del Risorgimento in Calabria e collocarle all’interno della sala del consiglio comunale, la sede più appropriata per perpetuare il ricordo del riscatto di un popolo ferito ma non domato dalla furia della natura, oltre che per onorare la grandezza di colui che le vergò.
E in quella stessa aula andrebbe anche collocata una riproduzione dell’epigrafe dedicata nel 1900 all’eufemiese Carlo Muscari, apostolo della libertà giustiziato in piazza del Mercato a Napoli, dopo la caduta della Repubblica partenopea, insieme ad altri quattordici patrioti calabresi. Sistemata in occasione del centenario dell’impiccagione di Muscari all’interno della casa comunale, allora situata nella “piazzetta”, la lapide originale andò distrutta dopo il terremoto del 1908, mentre la copia realizzata per il nuovo palazzo municipale andò persa con la demolizione dell’edificio negli anni Ottanta del secolo scorso:

Tradita la fede dei patti/ da bieca voluttà di tiranni/ CARLO MUSCARI/ milite della Repubblica Partenopea/ moriva strangolato a Napoli/ il 6 marzo 1800/ I cittadini eufemiesi dopo 100 anni/ a ricordo ed esempio.

La sede naturale per le due incisioni sarebbe, a mio avviso, la parete che si trova alle spalle della presidenza del consiglio comunale. Quello è il posto della storia di Sant’Eufemia d’Aspromonte. Una storia che sappia essere monito e guida per coloro che siedono o siederanno su quegli scranni.

*Sulla vicenda del ritrovamento dell’epigrafe scritta da Visalli nel 1914:
https://www.messagginellabottiglia.it/2013/09/lepigrafe-di-visalli-lo-stupore-di-mico.html

**Per un profilo biografico di Carlo Muscari: Domenico Forgione, Il cavallo di Chiuminatto. Strade e storie di Sant’Eufemia d’Aspromonte, Nuove edizioni Barbaro, Delianuova (RC) 2013, pp. 116-120.

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