Il pagellone dell’Eufemiese 2024-25

Partita per disputare un campionato di vertice, l’Eufemiese ha visto crescere le proprie ambizioni match dopo match, fino ad agguantare il primo posto in classifica alla quarta giornata di ritorno, che poi non ha più mollato. Sedici vittorie, tre pareggi e tre sconfitte; miglior attacco con 48 reti realizzate, 31 messe a segno dal trio delle meraviglie Crucitta-Palamara-Occhiuto; seconda miglior difesa (23 gol subiti): questi i numeri di un percorso perfetto, che ha portato al salto di categoria la formazione della presidente Angela Gioffrè e di mister Domenico Napoli.
Anche nel corso di questa stagione mi sono divertito a stilare le pagelle al termine delle partite casalinghe: nient’altro che un gioco ad “uso interno”, come nel campionato passato, che ha comunque riempito i pomeriggi delle mie domeniche. Chiudo quindi con il pagellone finale… Grazie, ragazzi: forza Eufemiese!

ALVARO P. 10 – Un grande portiere si vede dalla concentrazione che riesce a mantenere quando non viene spesso chiamato in causa. Attento e reattivo in ogni circostanza, con ben cinque penalty neutralizzati si rivela anche un eccellente pararigori.
CARBONE C. 8 – Autentica sorpresa della stagione, da esterno destro basso cura con dedizione sia la fase difensiva che quella di spinta sulla fascia. È tra i magnifici quattro (con Alvaro P., Sobrio e Ascrizzi) a non avere saltato nemmeno un match.
SOBRIO 9 – Pilastro difensivo volitivo e di sicuro rendimento, ingaggia duelli all’ultimo sangue con chiunque passi dalla sua zona e puntualmente ne esce vincitore. Si toglie anche lo sfizio di leggere il suo nome, una volta, sul tabellino dei marcatori.
ADAMI 10 – A lungo capitano causa il forfait di Cammarere, si dimostra leader silenzioso ma concreto. Implacabile nell’anticipo e preciso nell’impostazione, sulla torta di una stagione perfetta c’è posto anche per la ciliegina della realizzazione di una rete.
CREAZZO 8 – Capace di ricoprire più ruoli in difesa, inizia la stagione come tappabuchi prima di guadagnare i galloni da titolare sulla corsia esterna di sinistra. Dalle sue parti non si sfonda e, partita dopo partita, diventa un punto fermo dell’undici titolare.
ASCRIZZI 10 – Inesauribile uomo ovunque, in mezzo al campo difende e propone fino a quando ha fiato in corpo. Tra gli artefici della vittoria del campionato, impreziosisce la continuità del rendimento con sette gemme di rara bellezza incastonate nella porta degli avversari.
ALVARO F. II 9 – Conferma le doti di playmaker esibite già nella passata stagione. L’impostazione della manovra passa sempre da lui, che da buon geometra smista con saggezza palloni su palloni. Si fa valere anche in fase realizzativa con cinque gol all’attivo.
CAMMARERE 9 – Un campionato tribolato per il capitano, costretto ai box nella prima metà della stagione. Caricato a molla, non è un caso che con il suo rientro la squadra comincia a macinare gioco e vittorie, scala le posizioni in classifica e si lascia tutti gli avversari alle spalle.
PALAMARA 10 – Quando la partita non si sblocca, palla a Palamara e ci pensa lui. Spacca le partite con le sue progressioni e fa impazzire le difese avversarie con incursioni in area letali. Vice-bomber della squadra con nove reti, è suo il gol che a Bagaladi vale il salto di categoria.
CRUCITTA 10 – Puntuale all’appuntamento con il gol come un cavaliere ad una serata di gala, è il capocannoniere della squadra con quindici gol. Bomber di razza, è anche preziosissimo quando c’è da fare salire la squadra e nel lavoro di raccordo tra i reparti.
OCCHIUTO 10 – Arrivato nel girone di ritorno, il suo impatto sul campionato è devastante, supportato da una media-gol impressionante: sette gol in dieci partite. Fondamentale il suo contributo alla svolta impressa dall’Eufemiese nella seconda metà della stagione.
PIRROTTA 8,5 – Di fatto dodicesimo titolare, dall’inizio o come primo cambio nella ripresa mette a disposizione della squadra doti tecniche e diligenza tattica. Maturato anche sotto il profilo caratteriale, si è alla lunga rivelato indispensabile.
ALVARO F. I 7 – Esterno d’attacco o al centro in sostituzione di Crucitta, mette sul rettangolo di gioco esperienza e una buona propensione alla manovra. Poche presenze, ma il finale di stagione lo vede in prima linea tra i protagonisti.
CASTAGNOLI 7 – Da titolare e da subentrante, a destra o a sinistra sulla linea di difesa, rispetta le consegne con puntualità e senza sbavature. Riesce a ritagliarsi uno spazio e a confermare che sul suo prezioso contributo si può sempre contare.
FORGIONE 7 – Soltanto cinque presenze per l’esterno destro di difesa che nella passata stagione era stato tra gli artefici della promozione in seconda categoria, ma è lui a mettere la firma sulla prima vittoria stagionale in trasferta dell’Eufemiese, a Palizzi.
GENTILOMO 6,5 – Il minutaggio nella stagione è stato ridotto, ma sfodera una prestazione decisiva nella battaglia di Bagaladi, quando l’Eufemiese, rimasta in dieci per l’espulsione di Adami, deve ricorrere alla sua duttilità per rimettere in sesto la difesa.
ROMEO D. 6,5 – Tutte le volte che viene chiamato in causa si fa apprezzare per la qualità tecnica indiscutibile delle sue giocate. Giocatore di grande prospettiva, la positiva stagione disputata non può che rappresentare un buon viatico per il futuro.
LUPPINO, LEONELLO, VIOLI, ROMEO S., IDA’, CARBONE A., LAGANA’, ALATI, MORABITO, CALARCO, ALVARO A. 6 – Poche presenze e spezzoni di gara per fare rifiatare i titolari: sufficienti comunque per entrare di diritto nella storia dell’esaltante cavalcata verso la Prima categoria.

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Non è solo un gioco

Dicono che in fondo è solo un gioco. Lo è di certo, ed è bene non caricare di eccessivi significati una prestazione sportiva. La magia dello sport dilettantistico sta proprio nel suo essere un aspetto della vita di chi lo pratica, e neanche il più importante. Un approccio che non alimenta troppe aspettative principalmente nei protagonisti, se non quella di divertirsi e di procurare divertimento agli spettatori.
Sarebbe però riduttivo considerare i successi dell’Eufemiese soltanto sotto il profilo sportivo. Due promozioni in due anni sono un’impresa, c’è poco da commentare. Se non per fare i complimenti ai dirigenti, allo staff tecnico e ai giocatori che sono riusciti a rinverdire i fasti della grande tradizione calcistica a Sant’Eufemia, dopo anni nei quali metteva tristezza anche solo andare a fare una corsetta nel mitico “Morisi”, orfano dei propri beniamini in scarpette e pantaloncini.
Ma c’è tanto altro. C’è che quello che è stato fatto in questi due anni va molto al di là delle vittorie ottenute sul campo. Giovani del paese e del comprensorio hanno trovato un motivo per impegnarsi in un’attività di aggregazione sana e formativa, con regole da rispettare e impegni da mantenere: vale per la squadra di calcio e vale per il volley femminile, l’altro pilastro dell’ASD Eufemiese 2023.
L’Eufemiese ha risvegliato l’entusiasmo e l’orgoglio di una comunità desiderosa di riscattarsi, portando sugli spalti centinaia e centinaia di tifosi di tutte le età. Il match è lo spettacolo nel rettangolo di gioco, ma lo è altrettanto ammirare ogni domenica il pienone sulla tribuna: ragazzi e ragazze, anziani, famiglie intere con al seguito i bambini nel passeggino, in un ambiente caratterizzato da grande cordialità e sportività. Un rito collettivo che accomuna ed emoziona, fa uscire le persone – soprattutto i giovani – dal chiuso delle camere, diventa argomento di discussione nei crocevia delle strade, nei bar e negli esercizi commerciali, dentro le case. E che regala un paio d’ore di spensieratezza.
È solo un gioco, certo. Ma sa essere anche molto di più.

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Totò-Gol

Tutto in una estate. L’estate del sogno infinito, del cuore in gola, delle sfilate per le strade del paese al suono assordante dei clacson. “Negli occhi tuoi voglia di vincere”, urlavano Edoardo Bennato e Gianna Nannini, come se avessero saputo in anticipo che due occhi spalancati avrebbero fatto innamorare l’Italia intera.
Totò Schillaci è stato tutto ciò che noi ragazzi avremmo voluto essere. Uno che si era fatto largo con la forza della volontà. Un potenziale delinquente che il calcio aveva tirato fuori dai pericoli della strada, a conferma della potenza salvifica dello sport.
Un mese per entrare nella storia come una rasoiata. Come un guizzo dei suoi, rapidissimo. Il difensore si distrae un attimo e Totò-Gol, in qualche modo, la butta dentro: di testa, di piede, di spalla, di stinco. Alla Inzaghi, se non fosse che Superpippo sarebbe arrivato qualche anno dopo.
Le notti magiche di Schillaci sono una felicità bruciante, uno stato di grazia irripetibile: “l’istante in cui scocca l’unica freccia/ che arriva alla volta celeste/ e trafigge le stelle”, come nella canzone di Ivano Fossati.
Nell’estate del 1990 due ragazzi piangono sul tetto del bar mentre staccano da un palo la bandiera dell’Italia, dopo la sconfitta ai rigori nella semifinale contro l’Argentina. Il calcio era tutta la loro vita, consumata su campi terrosi, nelle piazze, nelle strade, in pineta, ovunque si potessero immaginare due porte e correre dietro ad un pallone fino a quando non faceva buio.
Totò Schillaci è nostalgia per un tempo in cui tutto sembrava possibile, prima che la gioventù svanisse in un battito di ciglia.

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L’Eufemiese è ritornata

Quattordici. Come le partite disputate per acciuffare il sogno: dodici nella stagione regolare, più la semifinale e la finale dei playoff. Quattordici. Come l’ubriaco della smorfia napoletana. E ubriachi di gioia sono giocatori, dirigenza e tifoseria, al termine di una stagione esaltante che ha visto l’Eufemiese 2023 centrare al primo colpo la promozione nel campionato di seconda categoria. Si dirà che è solo calcio, come se si trattasse davvero di dare un calcio a un pallone e basta. Non è mai così. Non quando il fuoco sacro della passione fa di un manipolo di ragazzi un collettivo nel quale riconoscersi, dei quale andare fieri. Dei quali si parla nelle strade, nelle piazze e nei bar. Ragazzi che hanno avuto il merito di riportare sugli spalti del campo sportivo centinaia di persone, come non accadeva da decenni. Famiglie intere con i bambini al seguito, ragazze e ragazzi, giovani e meno giovani. Il successo più significativo è proprio il sano e intergenerazionale appuntamento domenicale sulla tribuna del “Morisi”. Un’esplosione di spensieratezza che ha fatto bene a tutti. Anche a me, che mi sono divertito a stilare pagelle “ad uso interno” dopo le partite, come facevo venticinque anni fa per “Il Quotidiano”: un tuffo nel passato vissuto con gioia, grazie alle emozioni che il bianco e l’amaranto della divisa suscitano in tutti gli eufemiesi malati di calcio.
E allora andiamo con un pagellone finale, non prima di avere dato un po’ di numeri: dodici partite in campionato, con cinque vittorie, cinque pareggi e due sconfitte che hanno portato al secondo posto in classifica dietro il Bagaladi; ventitré gol fatti e dodici subiti. Inclusi gli spareggi contro Scillese e Mamerto, le vittorie salgono a sette, ventisette i gol fatti e tredici quelli subiti. Capocannonieri Palamara e Morabito con cinque gol, tallonati ad una lunghezza da Luppino; due i gol segnati da Cammarere, Gentilomo e Pirrotta; uno per Adami, Carbone Christian, Romeo e Sobrio, più un autogol a favore.

Alvaro Pasquale 9 – Attento e reattivo, la sua stagione è sintetizzabile nel balzo felino della finale che, togliendo dal sette un calcio di punizione dal limite, ha salvato il risultato.
Forgione 8,5 – Laterale di difesa dotato di ottima corsa e tecnica, ha dominato lungo tutta la fascia destra con progressioni che si sono rivelate una temibile arma offensiva.
Sobrio 9 – Padrone dell’area nel gioco aereo, sulla sua fisicità e reattività la squadra ha costruito una linea di difesa solidissima.
Adami 10 – Leader del reparto arretrato non solo per gli interventi puntuali e puliti, ha dettato i tempi e trasmesso serenità, con un rendimento che non ha mai avuto cedimenti.
Romeo 8,5 – Esterno sinistro affidabile in difesa e pericoloso nelle ripartenze, i suoi cross hanno spesso messo in difficoltà le difese avversarie.
Pirrotta 8,5 – Dalla panchina a titolare inamovibile, è stato tra le sorprese della squadra grazie al talento in mezzo al campo e alla personalità da veterano.
Alvaro Francesco 10 – Grande senso della posizione e capacità di lettura delle diverse situazioni di gioco sono state le doti che lo hanno reso playmaker insostituibile.
Cammarere 10 – Capitano e trascinatore per le indiscusse qualità tecniche e per l’attaccamento alla maglia, le sue giocate hanno ripetutamente fatto spellare le mani ai tifosi.
Palamara 10 – Esterno offensivo imprendibile nelle progressioni, ha fatto impazzire le difese avversarie con giocate funamboliche capaci di spaccare le partite.
Luppino 8 – Partito come rincalzo, le sue prestazioni sono state in crescendo e, a suon di gol, il suo apporto è stato preziosissimo nel finale di stagione.
Morabito 10 – Il “vecchietto” che si fionda su ogni pallone come un ragazzino con l’argento vivo addosso è stato l’uomo della promozione, grazie alla rete siglata nello spareggio finale.
Gentilomo 8 – All’inizio ha retto sulle sue spalle il peso dell’attacco eufemiese. Infortunato, è rientrato in due spezzoni negli spareggi, dando un contributo decisivo in ruoli non suoi.
Vizzari 7,5 – Centrocampista dai grandi polmoni, le sue prestazioni sono state caratterizzate dalla dinamicità sia in fase di interdizione che nella proposizione del gioco.
Carbone Christian 7,5 – Esterno difensivo di sicura affidabilità, da titolare e da subentrante ha svolto con impegno e disciplina i compiti assegnatigli.
Creazzo 7,5 – Difensore capace di coprire più ruoli, la sua duttilità è stata fondamentale per superare l’emergenza sulle fasce nel finale di stagione.
Alati, Carbone Antonino, Catanesi, Idà, Laganà, Leonello, Nocida, Posterino, Violi 7 – Nonostante il ridotto minutaggio, ogni volta che sono stati chiamati in causa non hanno tradito la fiducia di mister Napoli.

*Foto tratta dalla pagina Facebook ASD Eufemiese 2023

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La libertà è un colpo di tacco

Mancavano dieci giorni al compimento dei miei nove anni quando, il 5 luglio 1982, il capitano del Brasile Socrates beffò Dino Zoff con un rasoterra tra palo e gamba sinistra, nello stadio Sarrià di Barcellona che ospitava l’ultima partita del secondo turno eliminatorio del gruppo C, nel mondiale di Spagna. Ma il gol segnato dal Doutur (era laureato in medicina) non servì alla squadra allenata da Tele Santana, schiantata dalla tripletta di Paolo Rossi che ribaltò anche il secondo pareggio di Falcao e trascinò i ragazzi di Enzo Bearzot in semifinale e infine all’apoteosi del Bernabeu contro la Germania. Per i tifosi verdeoro fu “la tragedia del Sarrià”, seconda soltanto al Maracanazo contro l’Uruguay nel 1950. Troppo impegnati a contemplare il proprio ombelico, si disse dei vari Socrates, Falcao, Zico, Junior, Cerezo, Eder, interpreti della Seleção più talentuosa e meno vincente di tutti i tempi.
Non sapevo ancora niente di quello spilungone barbuto, proprio in quegli anni protagonista di una vicenda sportiva, umana e politica capace di cambiare la storia del Brasile.
Intingendo la penna nell’inchiostro della poesia e della malinconia, Riccardo Lorenzetti ha ricostruito in La libertà è un colpo di tacco (pubblicato nel 2014 da Armando Curcio Editore, con la prefazione di Federico Buffa) l’epopea culminata con i due campionati paulisti consecutivi (1982 e 1983) conquistati dal Corinthians di San Paolo.
Il contesto del romanzo è quello del Brasile del regime dei “Gorillas”, che governò il Paese tra il 1964 e il 1985. Una dittatura militare ormai ai titoli di coda, alla cui caduta contribuì in maniera decisiva il Corinthians dell’allenatore Mario Travaglini, del presidente Waldemar Pires e del sociologo direttore sportivo Adilson Monteiro Alves, del leader Socrates, elegante esteta del colpo di tacco, la giocata imprevedibile e spettacolare che fu il suo inconfondibile marchio di fabbrica. Il Corinthians di Wladimir, Casagrande, Zenon, Ataliba, Biro-Biro, Zé Maria: «Gente che avrebbe potuto indifferentemente vincere un campionato. O scatenare una rivoluzione. E infatti, fecero entrambe le cose».
Socrates fu l’ideatore della “democrazia corinthiana”, fondata sui principi dell’uguaglianza, della partecipazione e della libertà: «I calciatori devono votare. Quello che non avviene nel nostro Paese da vent’anni». Una sorta di comune caratterizzata dall’autogestione e dal ricorso al voto tra calciatori, dirigenti e magazzinieri per decidere sull’organizzazione dello spogliatoio, la scelta del ritiro, il menù del pranzo, la modalità degli allenamenti, la formazione da mandare in campo, la campagna acquisti e la composizione della rosa, oltre che per stabilire la strategia “politica” del club: lo striscione portato a centrocampo all’inizio delle partite (“Vincere o perdere, ma sempre con democrazia”) e le scritte sulle magliette: Democracia Corinthiana o Dia 15 vote, con la quale i brasiliani furono esortati a partecipare alle elezioni che si sarebbero tenute, per la prima volta dopo quattro lustri, nel novembre del 1982. Un modello di democrazia che incise profondamente nel clima asfittico degli anni della dittatura, con ripercussioni sociali e politiche sconvolgenti.
In un’intervista del 1983, Socrates aveva dichiarato: «Vorrei morire di domenica, nel giorno in cui il Corinthians vince il titolo». Morì di domenica, il 4 dicembre 2011, poche ore prima del derby Corinthians-Palmeiras. Da brividi, nel minuto di silenzio osservato a inizio partita nello stadio Pacaembu di San Paolo, il pugno chiuso alzato da tifosi e giocatori per dare l’addio al proprio idolo con il gesto che Socrates ripeteva dopo ogni suo gol. A fine gara il Corinthians si laureò campione nazionale, nel nome del Doutur.

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Il signore vale per tutti

«Il signore vale per tutti». Poi partiva il riconoscimento dei ragazzini da parte dell’arbitro, che precedeva l’ingresso in campo. Non tutti avevano la possibilità di pagare per una fototessera, circolavano fotografie surreali: indimenticabile quella, a figura intera, di un bambino che teneva con la mano destra un lungo giglio bianco, nel giorno della prima comunione. L’arbitro pronunciava i cognomi seguendo l’ordine della distinta. I calciatori rispondevano dichiarando il nome e mostrando il numero della maglia, con una veloce torsione del busto. L’ultimo chiamato era il guardalinee, l’uomo più ignorato del pianeta, visto che il direttore di gara non teneva in nessuna considerazione le sue segnalazioni, sapendole spacciatamente di parte. Ma ogni squadra doveva avere il proprio: un dirigente accompagnatore o un tesserato che non figurasse tra i sedici della distinta, perché troppo scarso o perché infortunato.
Corsetta blanda fino a centrocampo, saluto agli spettatori anche quando non c’era nessuno e iniziava il match. Le linee del rettangolo di gioco non sempre erano dritte. Anche dare una mano al custode del campo per “squadrare” il campo era uno spasso. Il gran premio con il carrello segnacampo riempito di calce lasciava sul terreno qualche imperfezione. Soprattutto quando, per fare presto, non si tendeva il filo sul quale occorreva passare con l’attrezzo. O quando si era perso troppo tempo per scavare con la pala il solco necessario per svuotare la pozzanghera d’acqua che immancabilmente si formava dopo la pioggia proprio sulla linea di porta.
Il custode, noto come “il professore”, era un personaggio mitico, artista del tè caldo in inverno e della “limonina” quando le temperature cominciavano a salire. Bevanda da distribuire nell’intervallo tra primo e secondo tempo, per riscaldarsi o per dissetarsi, mentre il mister imprecava. Possedeva un oggetto del quale probabilmente esisteva un unico pezzo, il suo: un’incredibile musicassetta porno che i ragazzini ascoltavano dal suo mangianastri prima degli allenamenti, per ammazzare l’attesa. Era tutto un sospirare e gemere, ma anche un encomiabile lavoro di fantasia. L’uomo più buono del mondo, nonostante i continui richiami ai due ragazzini che non volevano saperne di uscire dalla doccia e andavano via dal campo per ultimi, quando già era buio, perché si dilungavano a chiacchierare seduti sul piatto doccia incrostato di ruggine, sotto il getto dell’acqua bollente che finalmente potevano accogliere tenendo strette le palpebre. Mai chiudere gli occhi, invece, quando si era in tanti, anche a costo di bruciarsi gli occhi con il sapone. Si rischiava di diventare vittime di scherzi atroci. Il più accettabile consisteva nell’arrivo improvviso, su una gamba o altrove, del getto caldissimo della pipì di un compagno. Quando “il professore” si era stancato di urlare che era ora di uscire dalla doccia, staccava la corrente del boiler: fine del film.
Era sempre lui a lavare le divise, che erano quelle della “prima squadra” e dentro le quali i più piccoli scomparivano. La stampa sul petto del nome dello sponsor era una sorta di mattonella che, per caduta, si appoggiava sul bassoventre e diventava pesantissima sotto la pioggia. Come il pallone, anche l’unico mezzo discreto che, se maledettamente un tiro sbagliato gli faceva oltrepassare la recinzione, costringeva a giocare il resto della partita con quello di riserva, scorticato e deformato, dall’eloquente colore grigio scuro. Poteva capitare che non ci fosse il tempo per lavare la divisa utilizzata dai “grandi”, ma per nessuno dei ragazzi è mai stato un problema indossarla sporca. Non era importante, così come non lo erano pantaloni e calzettoni dei più svariati colori. Quelli abbinati alla maglia scomparivano infatti con una certa facilità, anno dopo anno.
L’unica vera preoccupazione la dava il portiere, che veniva a giocare di nascosto, senza che i genitori ne fossero al corrente. Proprio per questo non faceva la doccia, né portava con sé il borsone. Non era il solo a non avercelo. Dentro provvidenziali buste di plastica veniva infilato tutto il necessario, comprese le scarpette mezze scassate, già utilizzate da qualche compagno che aveva acquistato quelle nuove. Memorabile, tuttavia, una tracolla dell’Alitalia adattata allo scopo.
Ragazzini, borsoni e buste si stringevano dentro un’immarcescibile 126 bianca, un fiabesco Maggiolone la cui caratteristica era un buco sotto il tappetino attraverso il quale si poteva osservare l’asfalto della strada, una 127 rossa sulla quale si sfiorò la tragedia quando le piccole pesti svuotarono il plotoncino di fragole incautamente sistemato sopra la mensolina, durante il viaggio di ritorno da Bagnara. E poi lei, la 131 azzurra che non trasportò mai meno di sette calciatori, alcuni dei quali venivano fatti scendere prima dell’arrivo a Gioia Tauro, si arrampicavano sul costone e poi venivano ripresi a bordo della vettura che aveva passato indenne il posto di blocco all’uscita dello svincolo autostradale. Scoppiammo a ridere quando il conducente ci svelò che in Australia aveva imparato il significato dell’acronimo SOS, mentre uno accanto all’altro facevamo la pipì in una piazzola d’emergenza: «Salvate le nostre anime». Aveva ragione lui: Save Our Souls.
Ci abbiamo provato.

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Pablito

“I nostri miti morti ormai”, come in una celebre canzone di Guccini. Ho iniziato a canticchiare “Incontro” subito dopo avere saputo che anche Pablito ci ha lasciati, in questo terrificante 2020. Un riflesso pavloviano: «Siamo qualcosa che non resta/ frasi vuote nella testa e il cuore di simboli pieno». I simboli di un bambino di nove anni cresciuto a pane con l’olio e Gazzetta dello sport, Corriere dello sport, Tuttosport, Intrepido sportivo e Guerin sportivo. Il Bar Mario era una sorta di emeroteca olimpionica. Il bambino di nove anni amava il calcio visceralmente, volava sulle ali della sua bellezza poetica, che cercava di imitare ovunque si potesse correre dietro ad a un pallone: piazze, strade, angoli abbandonati che venivano convertiti in campo da calcio. La bellezza non ha colori, per questo collezionava i poster dei suoi supereroi preferiti. Accanto ai nerazzurri, quelli bianconeri di Zoff, Scirea, Tardelli, Rossi e della colonia straniera sbarcata nel campionato più bello del mondo: Platini, Rummenigge, Falcao, Zico, Maradona, Passarella, Junior, Socrates, Cerezo.
Nell’immaginario collettivo Paolo Rossi rimarrà per sempre Pablito, il ragazzo timido e di poche parole capace di trasformare in gol il più sbilenco dei cross, un rimpallo o un pallone vagante dentro l’area. Nell’era moderna, soltanto Pippo Inzaghi gli si è avvicinato come natura e stile di gioco.
Paolo Rossi, per tutti “Pablito” dopo il “Mundial ’82”. Di questi tempi non lo sarebbe diventato. Due anni di squalifica per calcio scommesse e la convocazione poco prima del mondiale, dopo una lunghissima inattività. Nell’Italia di oggi, assetata di sangue, sarebbe stato crocifisso in piazza. Ma quella era un’epoca di uomini veri e un “hombre vertical” come il commissario tecnico Enzo Bearzot non era certo tipo da farsi intimidire da chi, eufemisticamente, storceva il naso. Neanche quando, nelle prime tre partite, Paolorossi (sì, tutto attaccato) era stato un fantasma. Credeva nei suoi “il vecio”. Credeva in Paolorossi, sempre titolare a dispetto di tifosi, giornalisti e sedicenti padreterni del calcio. Bearzot sapeva che in Italia basta poco per passare dal disprezzo all’idolatria: a Rossi bastarono tre partite per diventare Pablito e per fare scoppiare di gente il carro del vincitore. Tre gol al Brasile, nella partita di calcio più celebrata insieme al 4-3 alla Germania nel 1970, due alla Polonia in semifinale e uno alla Germania in finale, sotto la pipa felice e sorniona di Sandro Pertini.
Pablito aveva avuto la sua seconda possibilità e, con sé stesso, aveva riscattato l’Italia intera: aveva affermato il principio che la polvere non è per sempre, così come l’altare. Che si può rinascere ogni giorno. Una lezione che molti oggi sembrano avere dimenticato, seguaci invasati della furia iconoclasta di uno Stato che si vorrebbe etico.
Ad ogni partita il Bar Mario registrava il pienone. Dopo la vittoria con il Brasile avevo rischiato di impiccarmi con la tenda mentre correvo fuori per esultare. Portai per giorni i segni sul collo e le ginocchia sbucciate. In quell’indimenticabile 11 luglio sembrava di stare in curva. I più piccoli a gambe incrociate per terra, gli altri dietro, seduti nelle sedie o in piedi. Gli occhi fissi sul Phonola 28 pollici issato a un metro e mezzo d’altezza sopra due banchi, per consentire anche ai più distanti di vedere qualcosa. E il cuore che andava a mille, fino al grido di Nando Martellini: «Campioni del mondo! Campioni del mondo! Campioni del mondo!». Gli azzurri che si rincorrono nel Bernabeu, la magia e la malinconia di un tempo lontano, il sorriso e le braccia al cielo di Pablito: “le cose sognate e ora viste”, proprio come nella canzone.

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Splendi, Diego

Scrivo di te di notte, l’ora del dialogo con le stelle. L’ora dei sogni. L’ora dell’amore. Perché sei stella, sogno e amore. Sei “Pibe de oro” e “mano dei Dios”, sei “Isso”: il liberatore dei popoli oppressi, il riscatto degli scugnizzi, il bambino che grida che il re è nudo mentre attorno il sistema volge lo sguardo da un’altra parte. Per paura o per debolezza. Due sentimenti che non ti appartengono, che non possono appartenere a chi ha respirato la polvere di Villa Fiorito.

Sono argentini i due più grandi rivoluzionari della seconda metà del XX secolo: Ernesto Che Guevara e tu, Diego. «Siate sempre capaci di sentire nel più profondo qualsiasi ingiustizia, commessa contro chiunque, in qualsiasi parte del mondo». Ed è quello che hai fatto salendo le scale degli spogliatoi del San Paolo, il 5 luglio 1984. Caricandoti sulle spalle la rabbia degli ultimi per condurli nella scalata al cielo: sapendo che “la vita è una lotteria di notte e di giorno”, come canta di te Manu Chao. Lo sai meglio di chiunque, Diego: conosci vittorie e sconfitte della vita, quella tua vita che hai spesso maltrattato, ma sempre amato. Sei il Lord George Byron del calcio. Lo sarai per sempre, con quel cuore grande che hai portato anche in un campo infangato di Acerra, per mantenere la promessa fatta ad un bambino malato. E come sorridevi, quel giorno. Per questo la gente ti ama e ti amerà per sempre: come me, con il tuo poster attaccato accanto a quello dell’Inter dei record.
E allora splendi, continua a splendere, nell’eterno presente in cui vivono gli Dei.
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Corri, divertiti, sii felice

Chissà se per te sarà un ricordo speciale quel pomeriggio trascorso insieme, da rinnovare con il sorriso che i grandi riservano agli episodi della propria fanciullezza; con la tenerezza che suscitano l’innocenza e la capacità di gioire per ogni apparente piccola cosa.
La tua prima volta in un campetto di calcio. Il pallone che sembra sfuggire veloce e il rettangolo verde una distesa vastissima per i tuoi pochi anni.
Tranquillo, sono qua. Il viso contro la recinzione, osservo la tua corsa inizialmente defilata rispetto agli altri. È tutto nuovo per te, giochi e bambini: è per quello, credo. Ogni tanto ti giri verso di me. Per essere guardato, per essere rassicurato dalla mia sola presenza. Mi piace la sensazione di questa tua assoluta fiducia in me, che sto fuori ma ci sono. Pronto eventualmente ad intervenire, come un supereroe invincibile.
Sono qua, e tu sei bellissimo con quelle gambette.
Sei bellissimo quando vai avanti e indietro, e ogni tanto ti fermi per prendere fiato.
Sei bellissimo quando mi corri incontro e ti aggrappi al mio collo.
Sei bellissimo quando mi racconti le tue impressioni su questa nuova scoperta.
Sei bellissimo quando ascolti le mie parole.
Perché, vedi, è vero che hai segnato “da solo”, calciando un calcio di rigore, mentre non ci sei riuscito quando giocavi con tutti gli altri.
Capita, quando il campo è troppo grande o se non ci si trova in una condizione favorevole; se ti trovi lontano dalla porta, ad esempio.
La vita dei grandi è uguale. Le difficoltà dipendono anche là dalle dimensioni del campo e dalla posizione che si occupa. Non si segna sempre. A volte si è addirittura capaci di fallirli i calci di rigore. E comunque ci sono gli altri, bisogna farci i conti: nel bene e nel male.
Eri contento per avere dato il “cinque” al compagno goleador. È una grande virtù riuscire a gioire dei successi di un amico o di una persona cara. Purtroppo non sempre è così, in futuro avrai modo di verificarlo tu stesso.
Ti sei divertito, sei stato felice: conta solo questo, ricordalo. Anche fuori dal rettangolo di gioco.

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Il mio 11 luglio 1982

Pochi giorni dopo quell’11 luglio avrei compiuto nove anni. Per un bambino di nove anni i calciatori non sono uomini, ma supereroi. Come Superman o Batman, di quella genia insomma.
Non era iniziato bene il mondiale degli azzurri. Tre pareggi striminziti contro Polonia (0-0), Perù (1-1, gol di Bruno Conti), Camerun (1-1, gol di Ciccio Graziani) e il passaggio al secondo turno, in un girone di ferro contro l’Argentina di Maradona e Ardiles e il Brasile di Falcao e Zico (ma anche di Socrates, Junior, Cerezo). La critica e gli italiani sparavano quotidianamente contro gli azzurri. Per la prima volta nella storia del calcio italiano fu adottato il silenzio stampa. A parlare con i giornalisti, soltanto il capitano Zoff e l’allenatore Bearzot, entrambi friulani, entrambi taciturni.
Come spesso accade all’Italia quando si affaccia sul baratro, la squadra si compattò attorno al commissario tecnico e riuscì a realizzare l’impresa: 2-1 all’Argentina (Cabrini e Tardelli); 3-2 al favoritissimo Brasile (tripletta di Rossi); 2-0 alla Polonia in semifinale (doppietta di Rossi).
Il mio idolo nerazzurro in quel mondiale era Oriali, i cui polmoni e la “vita da mediano” sarebbero stati in seguito celebrati da Ligabue. Ma quando venivano chiamati in causa davano il proprio contributo Marini, Altobelli e il diciottenne Bergomi, lo “zio” che nascondeva la sua età dietro due incredibili baffoni neri e che disputò da veterano la finale. Ma c’erano anche i mostri sacri bianconeri Zoff, Scirea e Gentile, Cabrini con la sua modernità, il genio di Conti, il fiuto di “Pablito” Rossi e su tutti, almeno per me, Tardelli, per il quale stravedevo nonostante la Juve.
Ad ogni partita il “Bar Mario” registrava il pienone. Dopo la vittoria con il Brasile avevo rischiato di impiccarmi con la tenda mentre correvo fuori per esultare. Portai per giorni i segni sul collo e le ginocchia sbucciate. Quell’11 luglio sembrava di stare in curva. I più piccoli a gambe incrociate per terra, gli altri dietro, seduti nelle sedie o in piedi. Il televisore era un Phonola 28 pollici issato a un metro e mezzo d’altezza sopra due banchi, per consentire anche ai più distanti di vedere qualcosa.
Non facemmo nemmeno in tempo a recriminare per il rigore fallito da Cabrini, che il solito Rossi ci portò in un sogno dal quale ci svegliammo dopo l’urlo di Tardelli e il sigillo di “spillo” Altobelli. Indimenticabile il labiale del presidente della Repubblica Sandro Pertini, accorso a Madrid per la finale, dopo il terzo gol: «Non ci prendono più» (e altrettanto indimenticabile la storica partita a scopone sull’aereo presidenziale: Pertini e Zoff contro Bearzot e Causio, con la coppa del mondo appoggiata sul tavolo).
«Campioni del mondo! Campioni del mondo! Campioni del mondo!» con la voce emozionatissima di Nando Martellini al triplice fischio. Poi uno scatto velocissimo verso l’uscita e a piedi fino a piazza Municipio, con le bandiere al vento e il cuore che andava a mille.

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