Oh, l’amour

In un anno e passa ho utilizzato rarissimamente il blog per parlare delle mie vicende personali. Non posso però fare a meno di condividere la novità che ha rivoluzionato la mia vita nell’ultimo mese. Ebbene sì, anche per me è giunto il momento di chiudere con la vita da single incallito. C’è una lei nel mio cuore e l’ha già occupato quasi completamente. In realtà, c’è sempre stata. Ci eravamo conosciuti molti anni fa, poi si sa come va a volte la vita. Fa dei giri impensabili… E poi ritorna. Forse doveva andare così. Forse era necessario un distacco così lungo. Capita spesso di apprezzare qualcosa soltanto dopo averla perduta.
È successo tutto come in un film. L’incontro, la passione travolgente, i primi dissapori e l’allontanamento in quell’età in cui non si è disposti a rinunciare a niente di sé. Ero troppo preso dai miei studi e da una vita che mi aveva portato altrove.
Ora, di nuovo il colpo di fulmine. Due miti sfatati in un sol colpo. Il colpo di fulmine esiste. Non solo, a volte concede anche il bis. Magnifico.
Sto attraversando la fase dello zerbino. La mia volontà è a livelli decimali, ne risente anche la mia produttività. Come ha osservato Francesco Alberoni in Innamoramento e amore, “il nostro amore non è nelle nostre mani, ci trascende, ci trascina e ci costringe a mutare”. Ho in mente un articolo? Spunta lei e mollo tutto. Si esce, a fare altro, in queste splendide giornate di sole. Pomeriggi in giro per i posti più belli della nostra terra. Io, lei e la natura.
Difficile prevedere quanto durerà. Forse non è nemmeno importante. Quando ci si ritrova dopo tanto tempo, c’è sempre la fretta di riguadagnare il tempo perduto e scacciare il rimpianto per essersi lasciata sfuggire la vita tra le dita. Altrimenti si finisce con il crogiolarsi nella nostalgia, pensando “a tutti i giorni che abbiamo sprecati, a tutti gli attimi lasciati andare” (Canzone per Piero, Francesco Guccini). Vivo momento dopo momento. Emozione dopo emozione. Vaticinare il futuro è una pratica che non mi affascina. Ora stiamo di nuovo benissimo insieme. Come se non ci fossimo mai lasciati.
Non so se, come Bartali nell’omonima canzone di Paolo Conte, ho il naso triste come una salita e gli occhi allegri da italiano in gita. Lungo la nostra strada non incontriamo francesi che s’incazzano e nemmeno giornali che svolazzano. Però la mia bicicletta da corsa è bellissima. 
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Grazie, vecio

Ci sono istantanee che fanno parte dell’album sentimentale di una nazione. Una di queste immortala – sull’aereo che, nel luglio del 1982, riportava in Italia gli eroi del Bernabeu – la partita a scopone tra il presidente della Repubblica Sandro Pertini e il capitano Dino Zoff contro il commissario tecnico Enzo Bearzot e il “barone” Franco Causio. Sul tavolo, la coppa del mondo conquistata a Madrid. Ora che il vecio se n’è andato, è inevitabile farsi prendere dalla nostalgia per quello che eravamo 28 anni fa. Per un bambino di nove anni, Bearzot era un nonno burbero, di quelli severi nell’educazione dei nipotini, pronti al rimprovero quando sentono una parolaccia o notano la mancanza di quel rispetto dovuto alle persone anziane. Me lo immaginavo così, Bearzot: stretto in quella giacchetta bianca e con l’inseparabile pipa in bocca.
Non era iniziato bene il mondiale degli azzurri. Tre pareggi striminziti contro Polonia (0-0), Perù (1-1, gol di Bruno Conti), Camerun (1-1, gol di Ciccio Graziani) e il passaggio al secondo turno, in un girone di ferro contro l’Argentina di Maradona e Ardiles e il Brasile di Falcao e Zico (ma anche di Socrates, Junior, Cerezo). La critica e gli italiani, al solito feroci con chi è in disgrazia (sempre pronti, di contro, “a soccorrere il vincitore”, come infieriva Ennio Flaiano) sparavano quotidianamente contro gli azzurri. Per la prima volta nella storia del calcio italiano fu adottato il silenzio stampa. A parlare con i giornalisti, soltanto Zoff e Bearzot, entrambi friulani, entrambi taciturni. Come spesso accade all’Italia quando è affacciata sul baratro, la squadra si compattò attorno al commissario tecnico e riuscì a realizzare l’impresa: 2-1 all’Argentina (Cabrini e Tardelli); 3-2 al favoritissimo Brasile (tripletta di Rossi); 2-0 alla Polonia in semifinale (doppietta di Rossi); apoteosi finale con il 3-1 alla Germania (ancora Rossi, l’urlo di Tardelli, il sigillo finale di “spillo” Altobelli, che per l’unica volta nella sua carriera esultò alzando entrambe le braccia, abbandonando la consueta compostezza del solo indice puntato verso il cielo).
L’epopea poetica di quel gruppo di eroi passa attraverso la cantilena della formazione, in un’epoca in cui ancora era possibile mandarla giù a memoria, visto che giocavano sempre gli stessi per anni: Zoff, Gentile, Cabrini, Oriali, Collovati, Scirea, Conti, Tardelli, Rossi, Antognoni, Graziani. Ancora il binomio calciatore/velina non esisteva e gli atleti non somigliavano a modelli di Armani: non avevano acconciature strane (al massimo, il cespuglio di capelli di Collovati), non si facevano tatuaggi, non si tiravano le sopracciglia (indimenticabile il “sopracciglione Bergomi” di Teo Teocoli). Me li immaginavo come guerrieri omerici: il carisma del quarantenne Zoff, l’ardore di Gentile (chiedere a Maradona e Zico, in tempi in cui – va ammesso – gli arbitri estraevano i cartellini con parsimonia), l’eleganza di Collovati, la classe di Scirea, la modernità di Cabrini, l’universalità dell’insonne Tardelli, il genio di Conti (il più “brasiliano” degli azzurri), la cocciutaggine di Graziani, il fiuto di “Pablito” Rossi, le geometrie di Antognoni, i polmoni di Oriali (celebrati anche da Ligabue). E poi Marini, Causio, Altobelli, il diciottenne Bergomi, (lo “zio” che nascondeva la sua età dietro due incredibili baffoni neri), che disputò anche la finale al posto dell’infortunato Antognoni. Quell’11 luglio eravamo una cinquantina “da Mario”, i più piccoli a gambe incrociate per terra, gli altri dietro, seduti nelle sedie o in piedi. Il televisore, un Phonola 28 pollici issato a un metro e mezzo d’altezza, non consentiva la visione degli attuali 52 pollici hd a schermo piatto, soprattutto ai più distanti. Ma l’emozione e l’entusiasmo sono incancellabili. Pertini che, al suo solito, accantona l’aplomb istituzionale e fa il tifoso in tribuna, i minuti finali concessi al fedelissimo Causio, la commozione di Nando Martellini al triplice fischio con quel “campioni del mondo” ripetuto tre volte. Poi tutti di corsa fuori dal bar, a piedi verso piazza Municipio, con le bandiere e il cuore che andava a mille.

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Buu…oni a nulla/bis

Nella rubrica che cura su “Il Quotidiano della Calabria”, il professore Pietro De Luca, rispondendo al mio intervento su razzismo e violenza negli stadi, scrive oggi:

Non sono proprio sicuro che privatizzando oggi questo e domani quello arriveremo a inscatolare da una parte i buoni e dall’altra i cattivi. E poi, come procedere? Magari con il portafogli in mano? Il privato costa di più, il pubblico di meno. Nel privato andrebbero i migliori, gli intelligenti, i beneducati solo perché portano denaro? È sotto gli occhi di tutti che questo assunto non corrisponde al vero. Direi piuttosto che non esiste propriamente un problema degli stadi che non sia anche problema di umanità. Ultimamente un po’ scesa di livello. Se non si urla, non si aggredisce, non si inveisce contro questi e quegli, quasi non si è: di un partito, di una squadra, di un colore, di una nazione. Siamo tutti un po’ troppo su di giri. Una buona virata verso uno stile di vita più a misura d’uomo non guasterebbe. Anche negli stadi.

Non posso che condividere le considerazioni sulla società attuale. “Urlo, dunque sono”, ha ormai soppiantato la celeberrima locuzione cartesiana. È indiscutibile la violenza di certi linguaggi e atteggiamenti. Esiste una difficoltà evidente nell’accettare il punto di vista dell’altro, anche perché il tono alto delle proprie parole impedisce di ascoltare quelle pronunciate dall’interlocutore. Certo: è una questione di umanità. O di cultura, come mi ha fatto notare un mio carissimo amico. Tutto vero. Però il mio discorso era meno generico. Ci sono settori della nostra società che devono essere “pubblici”. Penso all’istruzione, alla sanità, al welfare in generale. Questi sono campi in cui l’intervento dello Stato è indispensabile per affermare i diritti riconosciuti dalla Costituzione a tutti i cittadini. Nel caso degli stadi, penso che c’entrino meno i diritti costituzionali e più la civiltà e la sicurezza. Non si tratta di “inscatolare da una parte i buoni e dall’altra i cattivi”. Esiste un principio, quello di “responsabilità oggettiva” delle squadre di calcio, che non potrà mai essere affermato, fino a quando la sicurezza e il mantenimento dell’ordine all’interno degli impianti sportivi non saranno di competenza delle stesse società sportive. E questo accadrà fino a quando esse non diventeranno proprietarie degli stadi. Quanto poi al discorso puramente economico, non mi risulta che i prezzi dei biglietti allo stadio siano propriamente accessibili a tutti. Oggi costa meno guardare un partita in pay-tv che allo stadio. Segno che il calcio è nel bel mezzo di una mutazione genetica che lo sta facendo diventare (ahinoi) un fenomeno sempre più televisivo.

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Buu…oni a nulla

Chissà cosa penserebbero i deficienti che hanno fatto largo sfoggio di idiozia, ululando contro un ragazzo di vent’anni “colpevole” di essere un italiano di colore, dei dirigenti del Colosimi, la società di Prima categoria del cosentino che ha tesserato e trovato un lavoro e una casa all’ivoriano Coulibaly Tiemoko, giunto in Calabria al termine di un’odissea costata la vita al padre, a piedi attraverso l’Africa e su un barcone sballottato dalle acque del Mediterraneo.
Pretendere dai sedicenti “Ultras Italia” che hanno fischiato Mario Balotelli l’acume di Albert Einstein alla domanda sulla razza di appartenenza (risposta: “umana”), sarebbe davvero troppo. Per chiarire meglio il pensiero elaborato dall’unico neurone attivo, hanno pure esposto due striscioni significativi: “No alla nazionale multietnica” e “Non ci sono neri italiani”.
Alla base del pregiudizio che alimenta le pulsioni più recondite e abiette dell’animo nei confronti del “diverso” (sia esso nero, omosessuale, ebreo, zingaro e così via), vi è spesso non la mera malvagità, quanto quella che Hannah Arendt ha definito la “banalità del male”, l’inconsapevolezza cioè del valore etico dei comportamenti individuali. Questa considerazione non deve però affatto spingere all’indulgenza. Così come non deve costituire un alibi per attenuare le responsabilità.
Il problema, gira e rigira, è sempre lo stesso: lo stadio è una terra di nessuno dove, nonostante gli innegabili progressi compiuti negli ultimi anni, si può violare la legge con buone probabilità di farla franca. Molte curve sono ormai diventate un covo di beceri che pretendono “onore” e “rispetto”, invece del disprezzo che a ragione va riservato a chi espone striscioni con svastiche e simboli runici, fischia i giocatori di colore, esprime solidarietà per dei delinquenti ai quali è stato giustamente proibito di andare allo stadio.
Da più parti si inneggia al “modello inglese”. D’accordissimo. Ma la repressione, da sola, non può funzionare in un Paese che fa della certezza della pena un optional. Ci vogliono stadi nuovi e privatizzati, con tutti i posti numerati e controllabili con facilità. Solo in questo modo le società sportive diventeranno realmente responsabili della propria tifoseria e gli stessi gruppi ultras sarebbero costretti ad una maggiore attenzione nell’accettare le adesioni, come accade in tutte le associazioni. È per l’insieme di questi motivi che, in Inghilterra, tutti si sentono responsabili di ciò che accade all’interno di uno stadio e se un tifoso urla un insulto, lancia un oggetto, o soltanto si alza dal proprio seggiolino, viene immediatamente bloccato dai suoi stessi vicini.

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Se il giornalista non supera l’esame di storia

Da Gianni Brera a Marco Mazzocchi il giornalismo sportivo italiano ne ha fatta di strada. A ritroso. C’erano fondati motivi di sconforto, martedì sera, dinanzi alla castroneria sparata da Mazzocchi in diretta televisiva dallo stadio Marassi. Per calmare i propri tifosi, i giocatori serbi si avvicinano sotto la curva e fanno il gesto del tre con le dita. Interpretazione del giornalista Rai: “i giocatori dicono ai tifosi di smetterla altrimenti perderanno la partita 3-0 a tavolino”.
Per fortuna, a distanza di pochi minuti, il giornalista Bruno Gentili rimedia allo strafalcione del suo collega e ristabilisce la verità. Che non era un segreto di stato. Il “saluto a tre dita” (o “saluto serbo”) fa parte della simbologia ultranazionalista serba e rimanda alle pagine più buie della storia dell’ex Jugoslavia, quelle che videro protagonisti i gruppi cetnici (i fascisti serbi) nella guerra civile che si intrecciò con la resistenza contro l’invasore nazista durante la seconda guerra mondiale e nella pulizia etnica degli anni ’90 del Novecento.
I serbi sono forse gli unici al mondo a celebrare una sconfitta, quella subita il 28 giugno 1389 dai turchi nella Piana dei Merli (“Kosovo Polje”), come mito fondante della nazione. Una data, quella in cui si festeggia San Vito (28 giugno), che ricorre di continuo e marca gli avvenimenti più salienti, tanto che lo storico Joze Pirievec ha intitolato Il giorno di San Vito il suo fondamentale studio sulla storia della ex Jugoslavia: l’assassinio, a Sarajevo, dell’arciduca Francesco Ferdinando – erede al trono d’Austria – e di sua moglie Sofia, per mano del nazionalista serbo Gavrilo Princip, che causò lo scoppio della prima guerra mondiale (1914); l’approvazione della Costituzione (detta, appunto, “di San Vito”) del regno SHS – “Regno dei serbi, dei croati e degli sloveni”; dal 1931, “Jugoslavia” – che stabilì la forma monarchico-parlamentare (1921); l’espulsione della Jugoslavia comunista dal Cominform (1948); la manifestazione organizzata da Slobodan Milosevic per il seicentesimo anniversario della battaglia della Piana dei Merli, che preannunciò l’imminente guerra civile (1989).
È una storia di popoli diversi per etnie, lingue, culture, religioni. Un vero e proprio ginepraio. Croati e sloveni più europei per via del retaggio austro-ungarico e cattolico; serbi e montenegrini storicamente legati alla Russia per il comune slavismo e la religione ortodossa; macedoni più “orientali” in virtù della storica sudditanza alla Sublime Porta. Ancora, serbo-bosniaci, croato-bosniaci, ungheresi della Vojvodina, albanesi del Kosovo, considerato sin dal 1389 culla della civiltà serba (“Kosovo è Serbia” era un eloquente striscione esposto allo stadio). E, nel cuore stesso dello stato ex Jugoslavo, la compresenza di tutti i fattori di diversità in un unico stato, la Bosnia-Erzegovina, dove l’elemento turco s’incontra (e si scontra) con quello serbo e croato. Il ponte sulla Drina, del premio Nobel per la letteratura Ivo Andric, è la metafora perfetta della Bosnia (e della stessa ex Jugoslavia): una terra in bilico tra occidente ed oriente, tra cristianesimo ed islam, come la cittadina bosniaca del romanzo, Visegrad, divisa in due dal fiume Drina e unita dal ponte che collega due sponde (e due mondi).
La storia della Jugoslavia, come stato unitario, comincia con l’assetto europeo stabilito a Versailles dopo la prima guerra mondiale. Una creatura fortemente voluta da Francia e Inghilterra in funzione anti-imperi centrali inizialmente, quindi per contrastare le mire espansionistiche di Italia e Ungheria. Tra le due guerre mondiali vive di fatto “sotto tutela”, grazie agli aiuti finanziari anglo-francesi, che ne determinano tutte le decisioni politiche, compreso – nel 1929 – il colpo di stato di Alessandro I contro le opposizioni.
All’interno del Paese si afferma l’ideale grande-serbo: i serbi occupano i gangli dell’amministrazione burocratica e militare, mentre il sistema economico si fonda sul costante drenaggio delle risorse economiche dalle regioni ricche (Croazia e Slovenia) verso Belgrado. Questo modello viene fatto proprio anche dal maresciallo Tito, che dopo la seconda guerra mondiale stabilisce la dittatura al termine di un periodo convulso che registra, accanto alla guerra contro l’invasore nazista, quella tra le truppe cetniche di Mihailovic e i partigiani comunisti.
Il regime titoista attraversa diverse fasi: dalla fedeltà al modello sovietico all’eresia sanzionata dalla scomunica stalinista nel 1948, fino all’elaborazione dottrinaria di Kardelj e Dijlas che costituisce la base teorica del socialismo jugoslavo. Pilastri del nuovo corso sono l’autogestione in politica interna, il non-allineamento e il terzomondismo nel campo estero (una sorta di “pendolo” tra i due blocchi creati a Yalta).
I conflitti interni diventano però sempre più aspri e, inevitabilmente, esplodono in seguito alla morte di Tito (1980), quando i vincoli federali si allentano e la disastrosa congiuntura economica esaspera quelle spinte secessionistiche che diventano incontrollabili dopo la caduta del muro di Berlino. Una deriva che viene mirabilmente evocata da Emir Kusturica nella sequenza finale di Underground, capolavoro cinematografico che ripercorre cinquant’anni di storia nazionale, dalla seconda guerra mondiale alla disgregazione dello stato jugoslavo.
Il resto è guerra, distruzione e crimini contro l’umanità. E un dopoguerra lunghissimo, con la questione kosovara ancora capace di generare tensione e apprensione.

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L’untore

La caccia all’untore è da sempre uno sport molto popolare in Italia. Tanto quanto l’adulazione verso i potenti. Comportamenti molto diffusi che costituiscono due facce della stessa medaglia. In genere, è proprio colui che è platealmente adorato – specialmente se potente e temuto – ad essere altrettanto odiato una volta caduto in disgrazia. Pescare nella storia della nostra nazione esempi che avvalorino questa tesi è esercizio facilissimo. Piazzale Loreto – una scena da “macelleria messicana” (Ferruccio Parri) – non sarebbe altrimenti comprensibile. Il cadavere dell’uomo osannato fino al giorno prima, preso a calci, sputato, orinato.
Fatte le debite proporzioni, è ciò che accade nella vita quotidiana: a scuola, in ufficio, al comune, nel condominio, ovunque vi siano rapporti gerarchici, anche soltanto in senso lato. Vale a dire dappertutto.
Da circa un mese a questa parte, il giochino preferito degli Italiani è lo sputtanamento di Marcello Lippi. Mentirei se dicessi che il personaggio mi sta simpatico. Tutt’altro. Lo trovo arrogante, saccente, troppo pieno di sé e poco rispettoso del mondo che lo circonda. Senza contare che agli occhi di un interista, l’ex allenatore della nazionale sconta non soltanto il pessimo ricordo lasciato nella breve parentesi nerazzurra, ma soprattutto il peccato originale della sua juventitudine, l’essere stato, a vario titolo, compagno di merende di Moggi, Giraudo e Bettega. Ritengo inoltre pertinenti gran parte delle critiche sui limiti tecnici della nostra nazionale e sulle responsabilità del suo condottiero. Insomma, un po’ se l’è cercata.
Eppure ho l’impressione che si stia superando il segno. Una sensazione che è diventata certezza quando ho visto in tv uno spot di suonerie per telefonini che invitava a scaricare una canzone dall’eloquente titolo “Vergogna”. Inutile dire chi sia il personaggio che dovrebbe provare vergogna e i motivi. In quel momento ho pensato che aveva ragione Indro Montanelli nel sostenere che quando si accendono i roghi occorre mettersi sempre dalla parte della strega, anche a rischio di salire sul rogo con lei.
La redazione sportiva Rai ci ha massacrato per giorni con le “dieci” domande alle quali Lippi avrebbe dovuto rispondere, magari prima di confessare la propria irredimibile colpevolezza e la richiesta spontanea di essere confinato in un Gulag siberiano. Non ho notato nella Rai identico accanimento per questioni ben più importanti, per esempio le dieci domande (toh, non hanno neanche la dote dell’originalità) del quotidiano “La Repubblica” per Berlusconi dopo lo scandalo D’Addario, letteralmente censurate dal servizio pubblico nazionale.
È un segno dei tempi, di un certo giornalismo ormai diventato gara di ugole, come abbiamo potuto constatare per un anno intero con il fenomeno Mourinho, tanto per restare nel campo sportivo. Criticato perché irregolare, irriverente e anticonformista, ma già rimpianto perché personaggio straordinario, l’unico in grado di fare riempire pagine di giornali e trasmissioni intere con una sola battuta contro quel sistema che fa mangiare nello stesso tavolo giornalisti, allenatori, procuratori. Magari gli stessi che di fronte alle telecamere fanno la faccia feroce e se ne dicono di tutti i colori. Ognuno recitando il proprio copione.

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Il colore della felicità

Il tifoso non è scaramantico. Semplicemente, “sa” che non bisogna turbare l’ordine naturale dell’Universo. Se lascia la macchina parcheggiata sempre nello stesso posto quando va a vedere la partita a casa dell’amico (e c’è un motivo se la guardano sempre assieme, con la stessa disposizione sul divano e il solito caffè tra primo e secondo tempo) e la volta che non lo fa la squadra perde, beh, vuol dire che ha provocato un’alterazione nel normale divenire della Storia. È così naturale come ragionamento!
Per chi tifa Inter la coppa dalle grandi orecchie era soltanto un ricordo sempre più sbiadito, qualche fotogramma traballante, la foto di un Mazzola giovanissimo e la cantilena che tutti coloro che sono stati iniziati alla fede nerazzurra conoscono: Sarti, Burnich, Facchetti… L’epopea di “seconda mano” della Grande Inter, tramandata da genitori che hanno avuto la fortuna di esserci in quelle stagioni memorabili.
Per noi, figli di un dio minore, invece, la fedeltà alla bandiera sembrava un esercizio di autolesionismo, delusione dopo delusione, quasi una nemesi storica. In campionato, a parte la cavalcata trionfale dell’Inter dei record del Trap, solo amarezze fino a cinque anni fa.
Ci canzonavano col coro “non vincete mai”, irridendo le campagne acquisti sontuose di Moratti che non portavano a nulla, soltanto giocatori di cui neanche ricordiamo il volto (l’elenco sarebbe infinito: Gilberto, Caio, Rambert, Vampeta, Fadiga… e continuate voi…). Poi abbiamo scoperto il motivo per cui eravamo predestinati alla sconfitta.
In campo internazionale, un disastro. Lacrime su lacrime. Come quelle, vere, che sento ancora scendere caldissime sulle guance del bambino che fui, dopo due “remuntade” subite proprio al Bernabeu dal Real di Butragueno e Hugo Sanchez. La prima, 3-0 dopo il 2-0 per l’Inter a San Siro, nella notte della biglia a Bergomi. La seconda, un 3-1 ribaltato 5-1 ai supplementari, un’agonia vissuta attaccato alla radiolina.
Quando si raggiunge la vetta, non bisogna dimenticare da dove si è partiti, né la fatica che è costata. Ha fatto bene capitan Zanetti a ricordarlo, ora che l’Universo si è colorato di nerazzurro.

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