Le buone notizie del Corriere: Vanni Oddera e la mototerapia

Confesso la mia ignoranza: non sapevo chi fosse Vanni Oddera. L’ho scoperto stamattina leggendo «Buone Notizie. L’impresa del bene», l’inserto settimanale del Corriere della Sera che ogni martedì “dà voce alle buone notizie” proponendo le esperienze positive del Terzo settore, del volontariato, dell’impresa sociale.
Ho letto tre volte l’articolo di Fausta Chiesa (La sfida del centauro: «Vi porto tutti in moto»), poi sono andato a cercare altre informazioni su questa storia bellissima, commovente, entusiasmante, che un mese fa il suo protagonista ha anche raccontato in un libro: Il grande salto. Ovvero come ho capito che l’amore per gli altri rende felici (Ponte alle Grazie, 2017).
Di grandi salti Vanni Oddera è un grande specialista, essendo campione di motocross e freestyler di fama mondiale. Il “grande salto” del libro non è però una delle sue consuete e spericolate evoluzioni. Il centauro di Pontinvrea (piccolissimo paese dell’entroterra savonese) lo realizza nel 2009, dopo un incontro casuale con un “mezzo uomo” a Mosca, dove si trova per un’esibizione: «Mi preparo e mi metto in tasca un po’ di banconote, pronto a godermi una mega festa. Prendo un taxi e appena salgo sento una puzza orrenda. Infastidito, mi sporgo in avanti e vedo che il taxista non ha le gambe. Guida con l’aiuto di aggeggi sul volante ed è difficile per lui scendere per fare la pipì, ma anziché fare l’elemosina lavora. In quell’attimo capisco che io ho tutto, altri nulla».
Tornato in Liguria, racconta Oddera, “sentivo nello stomaco il verme che mi attraversava e non sapevo cosa fare”. Fino a quando non si ricorda di un amico (Chicco) che lavora in una casa per disabili ad Acqui Terme e decide di chiamarlo per proporgli di portare i ragazzi da lui: «Ricordo benissimo quella giornata. Prima mi sono messo a fare il buffone per rompere il ghiaccio, poi ho cominciato con la mia esibizione: salti, accelerazioni. Finito lo show, un ragazzo viene da me e mi dice: “mi fai provare?”. Per qualche secondo la frase mi martella, poi lo prendo in braccio, lo carico fra me e il manubrio e lo porto in giro per i campi. Lui urla, ride, piange. Quando ci fermiamo ha il volto trasfigurato: mi dice che era stata la cosa più bella che avesse mai fatto».
Vanni Oddera inventa così la “mototerapia”. A ogni esibizione si ferma sempre un po’ di più, piano piano altri amici si uniscono poi a lui e insieme costituiscono i “DaBoot”, circa venti motociclisti che gratuitamente fanno circa 50 date all’anno di show, in giro per il mondo: «Già quando accendo la moto e li faccio mettere vicino alle rampe sentono la botta dentro. Il rumore è mostruoso, l’aria si sposta. Quando finisco, li invito a salire con me. Così possono provare anche loro l’ebbrezza della velocità, la sensazione di libertà. Per ragazzi che passano la vita in sedia a rotelle salire in moto è una bomba».
La mototerapia ha effetti positivi: c’è il ragazzo bielorusso malato di tumore che riprende a comunicare con gli altri, dopo essersi chiuso in se stesso; ci sono i bambini dei reparti di ematologia e oncologia di alcuni ospedali italiani che letteralmente si esaltano; c’è la forza della “catena umana” che fa sì che un hotel metta a disposizione la propria struttura per le famiglie dei bambini ricoverati al Gaslini di Genova, gratuitamente.
«Che bello sentire il vento sulla faccia»: la frase che Vanni si sente ripetere più spesso. Il vento sulla faccia. Come le onde del mare o la neve per chi non le ha mai viste.
La felicità spesso è nelle piccole cose, nella routine distratta delle nostre vite: situazioni alle quali non diamo importanza perché sono a portata di mano, perché ci sono sempre state come l’aria che respiriamo.
La lezione di Vanni Oddera è che per fare del bene “basta che ognuno usi la sua passione come chiave per interagire”: «Non serve fare salti mortali». E se lo dice lui, ci crediamo.

*Le frasi riportate tra virgolette sono estratte dall’articolo di Fausta Chiesa: La sfida del centauro: «Vi porto tutti in moto», contenuto in “Buone Notizie”, inserto del Corriere della Sera, 7 novembre 2017)

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Quella maledetta domenica che si portò via il Sic

Per qualche anno ho gestito un secondo blog, nel quale scrivevo quasi esclusivamente di Inter: un blog da tifoso, con l’immancabile rubrica del commento alle partite e amenità varie, ma che ogni tanto utilizzavo anche per commentare eventi di altre discipline sportive. Oggi che ricorre il quinto anniversario della sua tragica morte sul circuito di Sepang voglio ricordare Marco Simoncelli con il post che scrissi allora. 

Mentre ero in volo, di rientro da Londra, pensavo che sarebbe stata una delle poche domeniche in cui non avrei visto alla Tv la partita dell’Inter. Sarei riuscito ad ascoltare gli ultimi minuti di radiocronaca in macchina, di ritorno dall’aeroporto di Lamezia. Ed infatti è andata così. Proprio per questo motivo avevo pensato di scrivere qualcosa su questa esperienza inedita e antica allo stesso tempo. Sarebbe stato un tuffo nel passato, un amo lanciato nel mare dei ricordi dell’infanzia per ripescare un mondo senza Sky né Mediaset. Un tempo in cui del cartello delle partite, disputate tutte rigorosamente di domenica, riuscivamo a vedere – e con quale attesa! – soltanto la differita del secondo tempo dell’incontro di cartello su Rai 2 verso le 19.00, dopo i saluti di Paolo Valenti dietro la scrivania del suo “Novantesimo minuto”, su Rai 1.
Avrei raccontato di ragazzini attorno a una radiolina e dei “grandi” sulle auto parcheggiate davanti alla pineta comunale, al municipio, ai bordi delle piazze, accanto ai marciapiedi. Delle vecchie schedine del totocalcio con le matrici che andavano benissimo per aggiornare i risultati e che passavano di mano in mano, in una sorta di rito collettivo che dà l’idea di quanto il calcio fosse davvero un romanzo popolare.
Appena entrato in casa, invece, dopo i saluti è arrivata la domanda di mia mamma. Una domanda che nel tono delle parole e nell’espressione del viso conteneva già la risposta: «Hai saputo di Simoncelli?».
Stamattina, mentre preparavo le valigie, con un occhio seguivo nella televisione la gara di Moto2. C’era stato un incidente che aveva coinvolto lo spagnolo Axel Pons, con la conseguente sospensione della gara a due giri dal termine. «Pista pericolosa», mi ero detto.
Le parole di mia mamma sono state un déjà-vu, la mia mente è corsa all’incidente in cui perse la vita Ayrton Senna, nel Gran Premio di San Marino. Allora, durante le prove, era morto Roland Ratzenberger, mentre Rubens Barrichello si era salvato per miracolo. Incidenti premonitori, anche in quel caso, che anticiparono la morte di uno dei più grandi piloti di sempre. Un personaggio amatissimo, come lo era il Sic.
Mancano le parole per descrivere la tragedia che si porta via delle giovani vite. Da domani si parlerà di sicurezza, del gioco che forse non vale la candela, di ragazzi che hanno tutto – soldi, successo – e che ogni tanto perdono tutto in una curva maledetta o per un guasto meccanico.
Da domani si parlerà anche – ed è giusto che sia così – di Marco Simoncelli, del suo essere irregolare e solare: sempre con il sorriso, un po’ guascone, duro quanto serve per sgomitare in pista e staccare un secondo dopo l’avversario. Quel secondo che ti consente di passare davanti e di mandare il pubblico del tuo show in delirio. Un ragazzo che nel paddock era amato per la sua allegria, per i suoi scherzi, per il suo non prendersi mai troppo sul serio. Per essere, in fondo, un giovane innamorato della vita.
Ora però è bene che si fermi tutto. Ci sarà tempo per altri articoli. Ora è il tempo del dolore e del rimpianto per una vita spezzata nel fiore degli anni.
[23/10/2011]

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La lezione di Ranieri

«È un po’ come se il mio Catanzaro avesse vinto il campionato». Di nuovo Catanzaro come termine di paragone. Alle aquile giallorosse Claudio Ranieri aveva già fatto riferimento quando gli era stato chiesto a quale esperienza calcistica era paragonabile il suo Leicester. Si era ancora ai primi di febbraio, sportivi e addetti ai lavori cominciavano a chiedersi quale fosse il segreto di una squadra ritrovatasi a sorpresa in vetta alla Premier League. Alla domanda di Mario Sconcerti su cosa potesse paragonare la propria squadra, dalle colonne del Corriere della Sera Ranieri non citò nessuno dei club blasonati che aveva allenato in precedenza: «Alla fine della carriera da giocatore ho trovato una squadra così: era il Catanzaro di Gianni Di Marzio, di Palanca, Silipo e gli altri. Capisco non sia un grande esempio, meglio Guardiola. Ma quella era una squadra come il Leicester, un gruppo di amici che viveva insieme». Ed è stato commovente vedere le lacrime di Fausto Silipo alla Domenica Sportiva, lacrime di emozione per il successo ottenuto dall’amico di sempre. Spirito di gruppo, ecco la chiave del successo: il collante che da quarant’anni tiene insieme i calciatori di quel Catanzaro e che, ora, ha fatto sì che diventasse realtà il sogno del primo scudetto in 132 anni di storia delle volpi blu, quotato 5.000 a 1 dai bookmakers inglesi.
La vittoria dell’organizzazione e della forza di volontà. Una vittoria romantica che si fa beffe delle campagne acquisti faraoniche, ma anche una vittoria che le aziende stanno già studiando per capire se il “modello Ranieri” è esportabile in altri settori. Come ottenere grandi risultati con pochi soldi a disposizione, puntando tutto sull’aspetto motivazionale.
Da tre giorni le televisioni inglesi non parlano d’altro. Un inviato della BBC ha setacciato il Testaccio alla scoperta dei luoghi dove Ranieri è cresciuto, raccogliendo anche la dichiarazione in romanesco del fioraio (“Claudio è l’unico con la testa sopra le spalle”). Per Leicester si prevede addirittura un aumento dei flussi turistici, grazie all’impresa compiuta dai ragazzi di “Claudio” (non di “Mr. Ranieri”), che è parte integrante della comunità (“è uno di noi”), con le sue passeggiate al mercato della frutta o la spesa al supermercato, le sue soste con la gente comune per parlare, stringere mani, concedere selfie. L’idolo delle signore over 55, le quali utilizzano come sfondo del display del telefonino la foto con Ranieri, una persona “educata e seria”, un “gentiluomo d’altri tempi” che fa anche “un buon odore”!
Ranieri fa fare bella figura all’Italia. L’immagine dell’italiano all’estero, simpatico e dalle buone maniere, ne esce rafforzata. Il suo è anche il successo di chi ce la fa fuori dal Bel Paese, che se da un lato riapre l’annosa questione della fuga dei cervelli, dall’altra dà linfa al sentimento dell’identità nazionale e dell’orgoglio italiano tra gli emigrati italiani.
Ma la lezione più importante di questa favola l’ha sintetizzata, con semplicità e umiltà, Ranieri stesso, dichiarando a caldo: «L’unica cosa che posso dire a tutti quanti è di crederci sempre. Provateci, non solo nel calcio, ma in tutti i campi della vita». A dispetto di ogni teoria rottamatrice che voleva il sessantaquattrenne Ranieri alle ultime panchine in squadre di seconda e terza fascia, ormai destinato a concludere la carriera senza vincere un campionato di calcio, questa storia insegna che c’è sempre tempo per realizzare i propri sogni, che non bisogna mai arrendersi e che esiste sempre un’altra possibilità finché si ha la forza di crederci. E quindi: God save the coach!

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Diagonale imparabile all’ultimo chilometro

L’epica sportiva sublima la dimensione umana. L’atleta raggiunge il rango delle divinità, prende posto tra i convitati del banchetto olimpico e si inebria di ambrosia. Diventa un dio in terra. Lo sport è poesia perché è fatica e sudore, superamento dei propri limiti, ascesa. È poesia perché è metafora della vita e una vita senza poesia è vita a metà.
I dieci racconti di Diagonale imparabile all’ultimo chilometro (Laruffa, 2010), che fonde nel titolo la magia dei due sport protagonisti del libro scritto dal giornalista del Tg2 Enzo Romeo, non sono soltanto nostalgia del tempo andato, degli anni in cui il business stava ancora fuori dalla porta degli spogliatoi o delle camere d’albergo. La nostalgia è presente e fa anche parte della biografia dell’autore, figlio del presidente della Reggina nel 1946 e ciclista amatoriale a Siderno negli anni Settanta: “Trigòni era il nostro Tourmalet, il nostro Stelvio”. Ma la nostalgia non è l’unica chiave di lettura del bel libro di Romeo. C’è dell’altro.
Ci sono i sogni di una generazione che si è identificata nelle prodezze leggendarie dei miti dello sport, che ha lottato per riscattarsi sul piano sociale con la stessa tenacia degli eroi che correvano dietro a un pallone o si alzavano sui pedali, pronti per lo scatto finale. Con la testardaggine di Fiorenzo Magni, che corre la metà delle tappe del Giro d’Italia con la clavicola e con l’omero fratturati, stringendo tra i denti un tubolare legato al manubrio della bicicletta.
C’è il riscatto “chiamato football club” del MYSA (Mathare Youth Sports Association), avventura iniziata nel 1987 in una baraccopoli di Nairobi e arrivata alla candidatura del Nobel per la Pace, grazie a un sistema formativo basato su tutta una serie di attività sportive, ma anche culturali e artistiche, ricreative e sociali, diventato un modello oggi imitato in molti Paesi.
Pagine di poesie vere, come le Cinque poesie per il gioco del calcio di Umberto Saba. Pagine di cronaca sportiva che sono esse stesse poesia perché vergate da Alfonso Gatto, poeta al seguito del Giro d’Italia per «l’Unità» il cui linguaggio iperbolico ha fatto scuola.
Vittorie e cadute, nello sport come nella vita. La storia di Erminio Bercarich, profugo fiumano approdato a Reggio Calabria nel 1946, che esordisce contro il Lentini indossando uno dei maglioni bianchi di lana offerti dalla tifoseria. Capocannoniere assoluto nella storia della Reggina con 75 reti, appese le scarpette al chiodo sparì, dimenticato da tutti. L’attimo di gloria vissuto da Angelo Mammì, autore del tuffo nel fango che, nel 1972, valse la storica vittoria del Catanzaro sulla Juventus, raccontata da Enrico Ameri e dal tifoso entrato nella sua cabina gridando a squarciagola: «Gol!». Joachim Rafael da Fonseca, ala destra nello Sporting Lisbona vincitore negli anni Sessanta di due campionati, una Coppa del Portogallo e una Coppa delle Coppe, che si ritira dal mondo e diventa Fra Paolo, monaco di clausura nella Certosa di Serra San Bruno, dedito al silenzio e alla preghiera.
Storie note e meno note, avvolte dal fascino della leggenda e dal mistero dell’esistenza umana. Racconti di sport e di vita, per chi ama lo sport e la vita.

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Noi che tiravamo pallonate

Campi che non finivano mai, larghi fino al confine della strada, lunghi fino alla sipala intricata di spine, dove riprendere il pallone che vi si era cacciato dentro diventava impresa da genio guastatore. Da pagare al prezzo dei pezzetti di stoffa strappati e impigliati tra i rovi, delle grancinate e delle ’rdicate che sembravano appiccare il fuoco alla pelle.
Era il calcetto pionieristico giocato nelle piazze e nelle strade, nelle periferie abbandonate, ovunque si potessero piazzare a terra due bottiglie o due mattoni per farne i pali della porta. La traversa come ipotesi, collocata a un’altezza indefinita: 10-15 centimetri sopra le dita stirate del portiere, calcolo approssimativo del salto che un ragazzino poteva compiere balzando dal suolo. Una linea orizzontale immaginaria che talora si materializzava nella riga tracciata con la vernice (ma anche con un paio di gessetti recuperati a scuola) sulle saracinesche o sul muro. Circostanza che comunque non impediva di stabilire senza eccessive contestazioni – e senza l’ausilio della moviola in campo – se fosse gol o meno, anche nelle situazioni di più difficile interpretazione. Graffiti di primavere lontane che su qualche parete resistono, tenaci come i tackle affondati nonostante il cemento, le ginocchia ’mprascate di sangue.
Un calcio da artisti di strada che odorava di libertà e di fantasia, che non viveva prigioniero degli schemi e delle divise delle scuole di calcio per bambini. Che considerava naturali la camicia e finanche i mocassini. Che a casa, a sera, riportava appiccicati sul viso sudore e terra.
Bastava essere in due: uno contro uno, trasposizione calcistica degli antichi duelli d’onore. In tre, il terzo diventava una sorta di arbitro dalle cui parate dipendeva l’esito della sfida. Ma in tre si poteva anche optare per la “modalità allenamento”: passaggi e tiri contro quello che fungeva da portiere fino a quando non riusciva a respingere una conclusione. Due contro due, con “portiere volante”. Due contro due, più il portiere fisso. Tre contro tre. E così via. Varianti pratiche e flessibili che consentivano il massimo dell’aggregazione possibile. In proposito non esisteva alcuna regola, se non quella inconsapevole e riassumibile nel motto di don Italo Calabrò: “nessuno escluso, mai”.
Ogni rione di Sant’Eufemia ha luoghi della memoria fatti di pallonate e vetri rotti, maglie sdillabbrate dalle trattenute (i falli esistevano soltanto nei casi di tentato omicidio) e scarpe aperte nella punta, immagini sfuocate di partite senza fine: «vince chi arriva prima a cinque gol»; ma poi si prolungava a dieci, a venti, o fino a quando non imbruniva ed era ora di rientrare.
La “Pezzagrande” contava il numero maggiore di campi di gioco improvvisati. All’interno della pineta comunale, con al centro il cerchio di cemento rialzato, una porta tra due alberi non perfettamente allineati e l’altra vagheggiata tra due pietre sistemate ad alcuni metri di distanza dal punto in cui il terreno digradava verso gli orti. Nel “Giardinello” polveroso, scenario piratesco di scorribande a caccia di ciliegie, ma anche di fughe precipitose, inseguiti dal cane aizzato contro i ragazzini dal massaro esausto ma minaccioso con la faccetta in pugno. E poi la mitica piazza Municipio con le sue “pietre di Catania”, al primo posto nella speciale classifica delle cause di distorsioni e fratture tra gli adolescenti. Piazza Matteotti, dove la scelta del pallone dipendeva dalle restrizioni vigenti: dal Tango al Super Santos, dal Super Tele al pallone di spugna, dalla pallina di tennis a quella di spugna, fino al prodigio della lattina di bibita schiacciata. Ma si giocava anche nel catino dell’ex pescheria, nelle strade aperte al traffico e in quelle chiuse, con buona pace per la squadra cui toccava correre in salita.
D’altronde, quando in palio c’era la supremazia rionale, il campo sportivo diventava teatro delle sfide campali tra selezioni di undici giocatori. Ed era come disputare un mondiale.

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C’era una volta il tennis

Chi non hai mai provato la sensazione di trovarsi in una circostanza “già vista”? L’improvviso riemergere nella memoria di ricordi sospesi tra sogno e realtà è il fenomeno del déjà vu: un passante che ci sfiora, una frenata brusca con l’automobile, un profumo, un suono che appartengono a una situazione già vissuta nel passato. Che sappiamo come andrà a finire, mentre si svolge.
A me capita entrando in pineta, soprattutto quando la primavera sta per esplodere. Il sole tiepido di marzo mi riporta agli anni del tennis, ormai lontanissimi nella memoria mia e del paese. Da oltre un decennio il campo da tennis vive infatti una condizione di abbandono ed è incredibile come nessuno riesca a rilanciare una disciplina sportiva che ha avuto stagioni gloriose. Uno sport che ha aggregato generazioni di eufemiesi e reso vivace un angolo di paradiso, quale è la nostra pineta comunale con la sua brezza fresca, che d’estate è un balsamo miracoloso per coloro che soffrono il caldo.
La vitalità di un paese si misura dal rapporto virtuoso che l’uomo riesce a instaurare con l’ambiente che lo circonda. L’abbandono è sinonimo di morte. Quanti sono nel nostro paese, oggi, gli spazi morti? Beninteso, ciò dipende pure da una socialità che è parecchio mutata rispetto anche soltanto a due decenni fa e che è – ahimè – prevalentemente “virtuale”.
Fatto sta che i luoghi di aggregazione stanno sparendo. Di sicuro è svanita la loro originaria funzione. I cortili sono ormai scomparsi o, se ci sono, hanno perso l’antico fascino di luogo in cui le famiglie condividevano con i vicini della porta accanto gioie e dolori. Le strade servono soltanto a collegare un posto con un altro, ma sono prive di calore: quasi scomparse le biciclette, per non dire dei palloni che rotolavano lungo le discese mentre dietro orde di ragazzi si affannavano per raggiungerli. Le piazze sempre più vuote o comunque non “vissute”: giusto qualche bambino, finché non raggiunge l’età che gli consente di affrancarsi dalla tutela dei genitori.
La pineta di venti, trenta, quarant’anni fa per molti eufemiesi è il posto delle fragole, perché rimanda all’innocenza e alla felicità di tempi che non torneranno mai più, all’adolescenza fatta di sogni e semplicità. Tra i suoi alberi sono nati amori, altri sono naufragati. Sulle sue panchine si sono accomodati migliaia di giovani e meno giovani. Sono queste le scene che rivedo quando ne varco l’entrata. Nonostante sia cambiata “fisicamente”, se si chiudono gli occhi e si sta in silenzio, è possibile ascoltare la vita trascorsa.
In questo passato c’è il tennis, che tutti abbiamo praticato. Con la racchetta di legno, prima che esplodesse la mania dei più moderni semiracchettoni. Tutti. Quelli che non sono mai riusciti a impostare il rovescio. Quelli che “forzavano” prima e seconda battuta. I “pallettari” che attendevano sempre l’errore degli avversari. Da marzo a settembre-ottobre era una gara a chi riusciva a prenotare il campo. Sempre occupato. E poi, d’estate, i tornei con 50-60 partecipanti: tutti affascinati dall’abilità con cui Rocco Vizzari riusciva a comporre i tabelloni di singolare, doppio e doppio “giallo”, tra teste di serie e turni preliminari, per dare a tutti almeno una chance di passaggio del primo turno.
Perché quel movimento è scomparso? Certo, il “pensionamento” di un fuoriclasse dell’organizzazione come Rocco Vizzari ha inciso parecchio. L’emigrazione universitaria e lavorativa di due-tre generazioni trainanti ha fatto il resto. Tuttavia, a mio modo di vedere, a un certo punto sono mancate le condizioni minime per poter continuare. Vale a dire: un impianto tenuto in discrete condizioni e un custode responsabile.
Per rilanciare il tennis e rivitalizzare la pineta comunale occorrerebbe ripartire da qua. Riprendere quel filo, spendendo pochi soldi per sistemare la recinzione, comprare la rete e pitturare il campo; quindi affidarne a qualcuno la gestione, stabilendo orari di apertura e di chiusura della pineta (se la videosorveglianza implica dei costi eccessivi) per evitare che i soliti vandali distruggano quanto di bello il nostro paese ha da offrire.

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Forza Eufemiese

I campionati di calcio giovanili e le categorie dilettantistiche sono come il militare: periodi “mitici” che si finisce per ricordare negli anni, magari davanti a una bottiglia di vino o a una birra ghiacciata, tra vecchi eroi del tempo andato. Ancora oggi a quelli della mia generazione capita di ricordare la “lotta” tra ragazzini di 13-14 anni, in occasione delle trasferte, per salire su una Fiat 131 blu sulla quale una volta ci stringemmo in nove (più i borsoni). La nostra automobile preferita. Merito del simpatico autista che aveva sempre aneddoti curiosi da raccontare e che, puntualmente, all’altezza dell’uscita di Gioia Tauro, faceva scendere uno o due passeggeri: insomma, quelli che eravamo in soprannumero. Dall’autostrada ci arrampicavamo sul cavalcavia, lui superava in tranquillità l’eventuale posto di blocco della polizia, quindi ci riprendeva a bordo. Perfezione geometrica. La Fiat 126 bianca di Peppe Napoli, che chissà quanti chilometri ha macinato in giro per la provincia, e poi altri bolidi: la Fiat 127 rossa sulla quale al ritorno da Bagnara una volta consumammo un’intera cassetta di fragole; il “maggiolino” della Volkswagen con optional “vista sull’asfalto”, grazie a un buco nella carrozzeria coperto dal tappetino; la Citroen due cavalli, che in teoria non avrebbe mai dovuto cappottarsi: impresa realizzata dal suo proprietario, per fortuna non con noi a bordo.

Amicizie nate nello spogliatoio e intatte decenni dopo, grazie a una passione che andrebbe sempre trasformata in occasione di crescita sociale e umana, collettiva e individuale. Altrimenti non ha senso. Non so se provare tenerezza o sorridere per quelli che si creano chissà quali aspettative. Bisognerebbe invece capire che uno su trecentomila ce la fa e che la finalità di una squadra di calcio dilettantistica non è quella di creare campioni. Anche se qualcuno bravo ogni tanto salta fuori e riesce anche ad avere anche una discreta carriera. Anche se alla fine a nessuno piace perdere. No, il calcio a questi livelli e in queste realtà – come qualsiasi altra attività sportiva – è qualcosa di molto importante proprio perché va al di là della prestazione e del risultato. Vincere o perdere non è tanto questione di un gol in più o in meno. Vincere o perdere è riuscire ad essere fattore di aggregazione, trasmettere valori positivi a ragazzi che domani diventeranno adulti. Condivisione, rispetto, responsabilità e sacrificio: talenti che vanno oltre la pratica sportiva, elementi fondamentali del percorso di maturazione che ogni ragazzo vive.

Lo so che sono di parte, perché è mio amico e perché per molti anni su quella Fiat 126 bianca ci sono salito ogni settimana, per andare a volte in posti impossibili nei quali non sono mai più ritornato: Cataforio, ad esempio.

Dirigenza, allenatori e giocatori passano, ma lui c’è sempre: da almeno 35 anni dici Eufemiese (ora A.C. Sant’Eufemia) e inevitabilmente pensi a Peppe Napoli. Una passione che non ha mai flessioni, nonostante le difficoltà di un impegno gravoso anche sotto l’aspetto organizzativo. Domani inizia il campionato di Seconda categoria, che avrà tra le protagoniste l’Eufemiese (io la chiamerò sempre così): un grosso in bocca al lupo a Peppe Napoli, a mister Franco De Luca, ai collaboratori e ai ragazzi. Forza Eufemiese!

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Vandali in azione al campo di tiro a volo “Giuseppe Garzo”

Viene difficile dare torto a Rocco Rugari quando sostiene che no, così non si può andare avanti e forse è giunto il momento di gettare la spugna. Qualche notte fa è successo un fatto molto grave al campo di tiro a volo “Giuseppe Garzo”. Ignoti – ma di certo vandali e vigliacchi – si sono introdotti all’interno della struttura dedicata dal 1973 a uno dei soci fondatori dell’omonima associazione sportiva costituita l’anno precedente e, una volta dentro, hanno smontato e portato via dieci macchine lancia piattelli del “percorso caccia” e dello “skeet”, piattelli e altre attrezzature del campo. Un danno economico di circa 20.000 euro, non bruscolini per una società sportiva che si mantiene per lo più con l’autotassazione degli iscritti e con il denaro che qualche socio negli anni ha anticipato e chissà quando avrà indietro.

Ciò che più brucia è però la ferita allo spirito di questo gruppo di amici. Rugari c’era quando l’associazione è stata costituita più di quarant’anni fa e per venti (dal 1992 al 2012) ne è stato presidente, prima di passare la mano a Raffaele Monterosso per un saggio ricambio generazionale. Il campo di tiro a volo rappresenta, per lui e per molti altri, un sogno realizzato, ma anche importanti traguardi sportivi e gratificanti riconoscimenti ottenuti in tutta Italia. Senza fare l’elenco, citiamo la recente vittoria nel campionato regionale specialità “Fossa universale” a squadre, un’affermazione che a settembre farà volare a Bergamo i tiratori eufemiesi per la disputa della finale nazionale.

I due campi di “Fossa universale” non hanno subito danneggiamenti, per cui dovrebbero svolgersi regolarmente gli eventi già calendarizzati per la stagione estiva (13 luglio: trofeo “Città di Sant’Eufemia”; 16-17 agosto: trofeo “Garzo”, trofeo “Pillari”, trofeo “Lombardo”). Però il colpo psicologico è duro da assorbire e il futuro diventa un punto interrogativo che richiede una considerazione pacata e seria: vale la pena proseguire?

Tutto ciò che serve per creare aggregazione o utilità sociale è sacro, si tratti di strutture pubbliche, private, in uso alle associazioni. Le donne e gli uomini che se ne servono per fini di promozione sociale e del territorio vanno sostenuti e incoraggiati, non feriti a morte nell’entusiasmo, la parolina magica che spesso ripete un caro amico, da almeno 35 anni in prima linea nel campo del volontariato: “se manca l’entusiasmo non si va da nessuna parte, perché ogni attività ci apparirà un sacrificio e non un momento di crescita, nostro e della comunità”.

Chi ha compiuto questo inqualificabile atto può ancora rimediare restituendo il bottino del raid vandalico, che oltretutto è di complicata collocazione sul mercato. Questa sì che sarebbe una bella notizia.

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Il pasticciaccio di Scilla

Forse si sarebbe usciti alla prossima partita, poteva starci contro la seconda forza del campionato. Anzi, no: si sarebbe usciti sicuro. Mettiamola così. Ma il gioco è questo: una squadra vince e l’altra perde. Gli sconfitti fanno i complimenti ai vincitori. Applausi. Invece sembra essere andata diversamente. Perché le squadre erano tre e due “puzzerebbero” di biscotto bruciato, preparato per impedire al Sant’Eufemia di accedere ai play-off di Terza categoria. Terza categoria, ripetiamolo per dare la misura delle cose. Che è quella dei campi polverosi della provincia.

La versione ufficiale parla di una svista. Non se ne sono accorti di essere scesi in campo con un fuoriquota in meno, perché un caso di omonimia avrebbe fatto schierare il giocatore sbagliato. Ma la Scillese, assicurano, la partita contro il Real Messignadi l’ha giocata sul serio, tanto da avere chiuso la pratica con un tennistico 6-2. Il sospetto però è che sia stato tutto architettato per poter comunque festeggiare con una vittoria davanti ai propri tifosi la conquista del campionato. Oltretutto, una sconfitta casalinga avrebbe destato comprensibili sospetti.

Neanche l’arbitro ha notato il pasticciaccio. Quelli del Messignadi invece sì. Scafatissimi: ricorso e vittoria a tavolino. E per il Sant’Eufemia addio al sogno play-off. Nonostante il successivo reclamo della Scillese, che addebita all’arbitro la responsabilità per avere effettuato il riconoscimento dei giocatori soltanto durante l’intervallo.

Il giudice sportivo non l’ha scritto, ma il senso del rigetto del reclamo è impietoso: la toppa è peggio del buco, perché in questi casi la società è responsabile. D’altronde, chi compila materialmente la distinta ha un solo compito: verificare il rispetto delle regole sui fuoriquota.

Una vicenda che lascia l’amaro in bocca, nonostante la signorilità di Peppe Napoli, 35 anni da dirigente che andrebbero meglio rispettati, per tutto quello che rappresenta in termini di passione e valori trasmessi alle centinaia e centinaia di ragazzi allevati con l’amore di un padre verso i propri figli. Il presidente del Sant’Eufemia si è infatti limitato ad esprimere, in un comunicato, “disappunto per quanto in buona o cattiva fede accaduto”.

Viene da chiedersi quale sia il senso di un campionato di calcio di Terza categoria, se non quello di creare occasione di aggregazione tra ragazzi che altrimenti avrebbero ben poco da fare in paesi che offrono poco o niente. Perché Terza, Seconda o Prima categoria cambia davvero poco. Finisce tutto, se a questi livelli il risultato viene prima della funzione sociale dello sport. E finisce tutto soprattutto per società come il Sant’Eufemia, autogestite e portate avanti da gente innamorata del calcio come Peppe Napoli e Franco De Luca, un educatore prima ancora che un allenatore, attento agli aspetti della responsabilità e del rispetto più che ai tre punti.

I play-off avrebbero rappresentato, soprattutto per i ragazzi, la meritata ricompensa per i sacrifici di un’intera stagione. Niente di più. “Preferisco perdere piuttosto che vincere con modi sleali e spietati”, ma forse non tutti sono d’accordo con Pier Paolo Pasolini.

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I fotogrammi della vergogna

Avrebbero fatto meglio a silenziare l’audio. Ci saremmo risparmiate le castronerie di Somma, che derubrica a “atto vandalico” un bollettino da faida: sette colpi di pistola e tre feriti, uno dei quali in codice rosso. Non avremmo neanche ascoltato la minimizzazione di stato divulgata dalla questura per gettare acqua sul fuoco: “un episodio che non ha niente a che fare con la partita di calcio”.

Avrebbero fatto meglio a lasciare parlare immagini che non hanno bisogno di alcun commento, perché sono l’emblema della sconfitta del calcio. Che ormai da tempo è lo sport più bello del mondo solo nella mente delle agenzie pubblicitarie. Mentre, in Italia, è quello che tutti abbiamo visto ieri sera: un ostaggio nelle mani del Genny ’a carogna di turno. La cui resa viene rilanciata senza pietà dalla stampa internazionale: “il figlio di un camorrista ha deciso che la finale di Coppa Italia si può giocare”.

Le immagini della vergogna incorniciano il capitano del Napoli circondato dagli steward e in delegazione ai piedi di un pluripregiudicato assiso su una grata della curva Nord dell’Olimpico, che infine annuisce, stile don Corleone quando il consigliori Tom gli sintetizza all’orecchio il problema del mafioso che ha chiesto udienza. E pazienza per quella scritta sulla t-shirt nera inneggiante alla liberazione dell’ultrà assassino dell’ispettore di polizia Filippo Raciti. Pazienza anche per i razzi e i petardi che fanno scappare subito dopo tutti, ricordando, a ogni buon conto, chi comanda.

Basta con le stucchevoli analisi sociologiche sulla violenza della società contemporanea, sul lavoro che non c’è, sul disagio sociale, sulla rabbia che cova sotto la cenere e cerca sempre uno sfiatatoio. La questione è molto più semplice, nella sua brutalità. Il problema, annoso, è il rapporto perverso tra società di calcio e tifo organizzato. È nelle complicità, nell’omertà, nella “convenienza” che spinge una società di calcio ad avere rapporti opachi con questi figuri.
Qual è la logica che porta l’allenatore Seedorf ad incontrare gli ultras del Milan dopo la sconfitta con il Parma? Se a me non piace l’ultimo film di Robert De Niro, al massimo decido di non guardare il successivo, per ripicca. Ma non vado ad attendere l’attore sotto casa per chiedergli conto di una interpretazione che non è stata di mio gradimento o per suggerirgli quali ruoli accettare in futuro.

Ci sono interessi economici, legati all’indotto economico che l’evento calcistico genera in uno stadio, sui quali il tifo organizzato mette regolarmente le mani con la compiacenza delle società di calcio. Per questo motivo ai cancelli non passa la bottiglietta dell’acqua del bambino, ma entrano bombe carta, bulloni, catene e motorini da lanciare dal secondo anello. Per questo motivo, se gli ultras chiedono ai propri giocatori di togliere la maglietta perché considerati indegni, quelli la tolgono. In lacrime, ma la tolgono. E basta con la balla dell’onore ultrà: non c’è niente di “onorevole” negli scontri violenti con la tifoseria avversaria o con le forze dell’ordine, e neanche nelle razzie agli autogrill di teppistelli che assaltano gli scaffali ed escono senza pagare, con le tasche gonfie di cioccolatini, caramelle, souvenir.
Gli ultras violenti non sono tifosi esagitati, che “vivono” in maniera più intensa degli altri la partita della squadra del cuore. Sono criminali, delinquenti da perseguire con il codice penale, non con le carezze del Daspo o con le assurdità burocratiche della tessera del tifoso. Altrimenti a farne le spese sarà sempre chi ama davvero il calcio e, ad ogni partita, torna a casa con in bocca il retrogusto amaro della delusione per una storia finita.

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