Le palline di carta

Dei miei anni alle scuole elementari ricordo con tenerezza una circostanza che si ripeteva ogni mattina. La classe disposta su due file all’ingresso, i bambini in coppia pronti a recarsi in aula. Se chiudo gli occhi sento ancora la mano calda e sudata di Nino, con il suo caschetto biondo, il grembiulino e il fiocco a pois blu. Quel tenersi stretti per mano faceva parte della complessa crescita di due bambini che si affacciavano alla vita.
La scuola non è soltanto didattica, lo sappiamo tutti che è molto altro. Facevo questa riflessione stamattina, quando per pochi minuti mi sono ritrovato a sbirciare mio nipote, che frequenta la terza elementare, impegnato nelle sue lezioni al computer. Ho provato ammirazione per la fatica che costa agli insegnanti e agli alunni.
Non è facile controllare una classe da dietro un monitor, tenere alta la concentrazione dei bambini, non farsi prendere dallo sconforto e continuare, nonostante tutto, nella magnifica missione educativa e formativa di generazioni che dovranno affrontare un mondo oggi rarefatto, avvolto dall’angoscia e dal mistero.
Ho provato malinconia per mio nipote e per tutti gli altri bambini che immagino seduti al tavolino, da soli. Per loro, che stanno crescendo senza avere contatti fuori dalle mura domestiche e che hanno poche occasioni di interazione: e che si vedono così precluso un aspetto importantissimo di crescita individuale. Perché gli altri ci sono, esistono e da grandi – in qualche modo – bisognerà farci i conti.
Chissà quanto durerà questo vivere a metà: senza potersi lanciare una pallina di carta da un banco all’altro, senza poter condividere con il compagno la merenda, senza poterci litigare. Senza crescere esercitando nella vita di tutti i giorni la dimensione interpersonale. Di meno alle elementari, di più alle superiori, a quanto pare. Bambini e adolescenti sono le “vittime” silenziose della pandemia e, più o meno consciamente, lo sanno anche loro. Infatti preferirebbero le lezioni in presenza.
Ma le polemiche sulla scuola appaiono antipatiche, irrispettose e surreali. Inoltre, non aiutano: mentre ci sarebbe un grande bisogno di aiuto, di collaborazione e di responsabilità tra istituzioni, scuole e genitori per limitare al massimo i danni di un’attività che – oggettivamente – si scontra con mille difficoltà. Meglio non caricarci sopra anche le ubbie di un mondo ideale lontanissimo dalla realtà. Nella speranza di vedere nuovamente volare, presto, le palline di carta appallottolata.

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Antonio Manucra, il geriatra eufemiese in trincea contro il Covid

Tutti ricorderanno la bella storia di Emma e Adriano (79 anni lei, 86 lui), i coniugi sposati da 60 anni che guarirono dal Covid-19 a due mesi dal contagio. Le immagini della loro uscita dall’ospedale di Bobbio, comune della Val Trebbia (Piacenza) eletto Borgo dei Borghi nel 2019, fecero il giro dei telegiornali e guadagnarono le prime pagine dei giornali. Accanto a loro il medico che li aveva seguiti sin dall’ingresso in ospedale, Antonio Manucra, sottolineava quanto quella vicenda fosse un segnale di speranza, “una piccola lucina nel buio degli ultimi due mesi”, pur non nascondendo “i momenti brutti e pesanti”, per superare i quali “è stato fondamentale l’aiuto di tutti, il conforto di tutti, le carezze e i sorrisi di ciascuno di noi”.

Diploma al liceo “Fermi” di Sant’Eufemia d’Aspromonte, una specializzazione e un master in geriatria dopo il conseguimento della laurea in medicina presso l’Università di Messina, da quindici anni Manucra è dirigente medico presso l’AUSL di Piacenza, in forze al presidio ospedaliero di Bobbio, dove svolge attività di reparto: responsabile del centro demenze e disturbi cognitivi, referente aziendale del centro Terapia Anticoagulante Orale e Nuovi Anticoagulanti Orali, referente delegato ambulatorio di angiologia, attualmente è inoltre facente funzioni di Direttore del nosocomio bobbiese.
L’Emilia Romagna (42.000 contagi) è seconda solo alla Lombardia per numero di decessi: 4.500, dei quali circa 1.000 nella sola provincia di Piacenza, la più colpita.
Per questo motivo crediamo possa essere utile ascoltare la voce di chi combatte sul campo il nemico subdolo che sta cambiando la vita di noi tutti. La voce di chi, mentre affrontava quel buio, scriveva per sé stesso una sorta di vademecum: «Una nuova maschera da indossare, una nuova giornata da affrontare. Solidi, sicuri, sempre… L’uomo prima di tutto, la dignità da preservare, sempre… Parole che confortano, sorrisi che riscaldano il cuore, carezze che allontanano la solitudine imposta. Gesti da ripetere, tornare, per ripartire. Il cuore che si riempie di emozioni, di tristezza di senso di impotenza. La pioggia dirompe e tutto vacilla, ma solo per un attimo, è umano! Poi la forza di reagire e di proseguire su una via impervia e sconosciuta, ma con la consapevolezza di proseguire e non fermarsi».
D – L’emergenza Covid ha messo a dura prova anche la tenuta emotiva del personale medico ed ospedaliero. Come si affronta un nemico “sconosciuto”?
R – «Il sentimento prevalente, dominante, di quei tristi giorni (mi riferisco all’ultima settimana di febbraio e al mese di marzo e poi, in misura minore, di aprile) era di incertezza, di disorientamento. Ci siamo trovati, nel giro di pochi giorni, dal pensare al virus come a qualcosa di lontano ad avercelo in casa (Lodi e Codogno sono molto più vicini a Piacenza che non a Milano): è stato come assistere alla deflagrazione di una bomba con conseguenze che sembravano non dover finire mai. Avevamo di fronte un nemico invisibile, sconosciuto e molto insidioso. Non conoscevamo nulla di questa infezione da Covid-19 (coronarivirus desease 2019). Non sapevamo, oltre ai problemi respiratori, cos’altro potesse interessare e intaccare. Né quali potessero essere i “reliquati” (conseguenze di una malattia passata, n.d.r.). Soltanto in un secondo momento si è visto, da uno studio sulle microembolie condotto presso l’ospedale di Castel San Giovanni (altro ospedale della nostra rete, che è stato il primo ospedale Covid in tutta Europa) che l’eparina poteva essere utile; si è visto che veniva interessato il microcircolo; si è visto che veniva interessato il sistema nervoso centrale e periferico (ecco il perché del sintomo della perdita dell’olfatto e del gusto). Insomma, ci siamo trovati spiazzati».
D – Detto in maniera un po’ brusca, il tuo lavoro e la “tipologia” dei tuoi pazienti ti porta ad avere una certa familiarità con i decessi. In che cosa il Covid è stato diverso?
R – «Da medico, ma soprattutto da uomo, credo che non ci si abitui mai alla morte. Il nostro reparto (internistico), come tutte le medicine, ospita in prevalenza pazienti in età avanzata e per questo fragili per definizione. Ovviamente ci siamo trovati di fronte ad una situazione straordinaria. Il momento peggiore del maledetto mese di marzo sono state le ore tra le 11.10 circa del 21 e le 14.00 del 22: abbiamo avuto 5 decessi, in un reparto che conta 24 posti. Nei mesi di marzo e aprile abbiamo avuto il numero di decessi che in genere contiamo in un anno e mezzo. Ma l’aspetto più angosciante è stata la solitudine dei pazienti, nonostante la fascia oraria dedicata alla videochiamata con i familiari. Pensare anche alla mancanza del conforto dei propri cari… Qualcosa di tremendo».
Un’esperienza professionale estrema, per le continue assenze di colleghi, infermieri ed operatori sanitari (a volte il 50% del personale), come ha successivamente sottolineato Manucra nel ringraziare il personale sanitario: «Siamo stati pronti a rivedere la nostra organizzazione interna, anche a causa delle numerose assenze tra il personale sanitario, e lo abbiamo fatto senza battere ciglio. Ognuno di noi ha rinunciato ai propri riposi per poter garantire l’assistenza ai nostri degenti, impedendo quindi che la “macchina” si fermasse. Molti di noi si sono ammalati, alcuni sono ad oggi ricoverati ed in serie condizioni cliniche e a loro va il nostro pensiero e le nostre quotidiane preghiere. Il tasso di mortalità, tra i degenti, di queste ultime settimane è stato spaventoso. Abbiamo visto morire molti anziani soli e senza il conforto dei propri cari. Tutti voi, infermieri e OSS, avete contribuito a mantenere operativo il nostro ospedale, sobbarcandovi di compiti difficili e pesanti. Avete saputo gestire con competenza e professionalità i ricoveri ed i decessi occorsi in questi giorni, anche in assenza del medico di reparto. A tutti voi, che avete accettato le “novità” organizzative, imposte dallo stato di necessità, a tutti voi dico GRAZIE!!!».
Assenze che per 16 giorni, come ricorda un servizio giornalistico del quotidiano di Piacenza “Libertà” (21 aprile), hanno fatto del geriatra eufemiese l’unico medico presente in ospedale. Mentre il virus si portava via gli amici ed entrava nella sua abitazione di Rivergaro, contagiando la moglie Mariana Iofrida – anche lei medico in servizio presso l’ospedale di Bobbio – e causando il trasferimento dei tre figli (Francesco, Marco, Matteo) presso nonna Carmela: «Il virus era ovunque. Mi viene da pensare quanto fosse complicato anche solo abbozzare un sorriso, comunicare ai figli che avevo la situazione in mano quando invece non era sempre così. Per me il mese di marzo del 2020 è un brivido che ancora mi insegue». Le salme che non si potevano portare nella camera mortuaria e venivano sistemate nel primo piano dell’ospedale, con la mascherina e avvolte da un telo disinfettato. Scene atroci, difficili da dimenticare perché “non siamo delle macchine”.
D – Cos’è cambiato rispetto a marzo, sotto il profilo organizzativo e nella capacità di dare risposte più efficaci e tempestive? 
R – Nella nostra realtà, mi riferisco all’AUSL di Piacenza, è cambiato molto rispetto alla routine lavorativa dell’era pre-covid. Sono stati creati protocolli che regolano il flusso dei pazienti dal Pronto soccorso ai reparti e tra reparti. Le visite ai degenti erano state contingentate, ma dal 15 ottobre sono state nuovamente sospese a causa dell’aumento dei casi di positività. Sono stati creati nuovi posti di terapia intensiva e subintensiva (questi ultimi, nel giro di poche ore possono essere trasformati in posti letto di terapia intensiva), sono stati assunti più infermieri (77) per il territorio. In Emilia sono nate le USCA (Unità speciali di continuità assistenziale) che fanno i tamponi casa per casa allo scopo di isolare e limitare la diffusione del virus: nella solo AUSL di Piacenza esistono, ad oggi, 18 squadre. Le attività ambulatoriali sono riprese, ma gli orari sono stati aumentati per evitare assembramenti.
D – L’emergenza sanitaria ci ha insegnato qualcosa?
R – L’emergenza sanitaria ci ha insegnato che deve essere la medicina a cercare i malati e non viceversa. Ci ha insegnato che la tendenza a centralizzare attorno agli ospedali “grandi” (i cosiddetti HUB), in una visione ospedalocentrica, non va bene. Occorre invece rafforzare il territorio. Ci ha insegnato che la sanità deve essere pubblica ed universale, in modo da consentire l’accesso alle cure a tutti. I tagli degli ultimi dieci anni sono stati pagati tutti e con gli interessi: tagli sugli ospedali (più di 200), riduzione dei posti letto inseguendo una media assurda, tagli agli investimenti…
D – Torneremo alla vita di prima? “Andrà tutto bene”?
R – Contrariamente a ciò che qualche incosciente sostiene, non siamo di fronte ad una “banale” influenza. Abbiamo a che fare con un virus insidioso, che purtroppo circola. Occorre comprendere che più aumentano i positivi e più aumenteranno gli ammalati; di conseguenza, crescerà il numero di coloro che avranno bisogno di cure e, anche, di cure intensive. Per questo è necessario un maggiore impegno delle istituzioni nel settore degli investimenti nella sanità pubblica. Ma per tornare alla vita di prima, per far sì che tutto vada bene, occorre uno sforzo di responsabilità e di senso civico. Dipende da noi. Ne usciremo, se riusciremo a superare individualismo; se, e solo, tutti insieme adotteremo le cautele del caso e ci adegueremo a indicazioni molto semplici: mascherina, distanziamento e igiene delle mani.
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Deve passare la nottata

Niente sarà più come prima o tornerà tutto come prima? Me lo chiedo spesso in queste giornate a volte lunghe, a volte corte: in fondo uguali. Vuote. Ma è questa la domanda da porsi o, piuttosto, dovremmo chiederci cosa si potrebbe fare per soffiare lontano l’aria da Bisanzio che opprime i polmoni di noi che viviamo “sospesi tra due mondi e tra due ere”?

Siamo soli, impauriti, smarriti. L’uomo è per definizione un animale sociale, tende naturalmente a rapportarsi con gli altri, a instaurare rapporti empatici. Si esprime con un linguaggio che non è soltanto verbale, ma è fatto di tanti altri strumenti di comunicazione, oggi dolorosamente compressi. Viviamo nel chiuso delle nostre case, abbiamo quasi azzerato le nostre uscite: ed è giusto così. Però ci manca “la vita di prima”: gli incontri, la spensieratezza di una partita a calcetto, gli abbracci per manifestare l’adesione alla gioia e al dolore altrui. Matrimoni e feste senza invitati, funerali senza partecipanti. Piccoli momenti di una vita quotidiana vissuta in maniera corale dalla comunità che oggi, per il forzato disimpegno dai propri doveri, per il distacco dalla propria natura, appare sfilacciata.
Tutt’intorno si avverte un deprimente tanfo di decadenza, accompagnato dall’apatica rassegnazione ad una realtà che si immagina asfittica per chissà quanto ancora. In queste condizioni, serve molto coraggio per puntare una fiche sul tavolo verde del futuro, per fare progetti, per coltivare una visione di lungo periodo, per tirare fuori dai cassetti i sogni e farli volare.
Siamo diventati fragili e precari, la paura del domani è un freno a mano tirato che pietrifica. Tutto sembra essere stato messo in pausa. Si vive ripiegati su sé stessi: in attesa di tempi migliori, si dice quasi giustificandosi. Ma i tempi migliori arriveranno mai, se non saremo noi a creare le condizioni affinché possano maturare, invece di restare inerti? La rassegnazione e la demotivazione sono patologie degenerative, che vanno combattute con forti dosi di passione e di creatività.
Deve passare la nottata. Eppure l’alba arriva prima, o almeno se ne ha questa incoraggiante percezione, se si corre incontro al sole. Se si ricomincerà dalla bellezza della vita, che è sempre a portata di mano e che può dare un indirizzo anche a questo tempo in bilico.
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Incontro con Domenico Antonio Tripodi, l’artista eufemiese che fa filosofia con i colori

Un fotogramma frequente delle estati eufemiesi ritrae una coppia di anziani coniugi passeggiare per le vie del paese. Domenico Antonio Tripodi e la moglie Eufemia (“Fena”) Borzumato hanno il passo lento e l’occhio attento di chi conosce la storia di Sant’Eufemia e si sofferma per trovare conferme o per commentare le trasformazioni. Ma anche soltanto per incontrare gente, scambiare un saluto e intrecciare i ricordi. Da diversi anni per me estate significa avere la possibilità di conversare con il Maestro Tripodi (“L’Aspromontano”), godere della pacatezza del suo argomentare e della serenità che trasmette il suo eloquio, entrare in punta di piedi nel mondo dell’arte attraverso le sue preziose lezioni. Capire come nasce un artista, cosa lo rende unico, cercare di vedere attraverso i suoi occhi quello che occhi ordinari non riescono a percepire. Tripodi vive a Roma, ma in estate abita nella casa della sua infanzia, tra le poche a resistere al terremoto del 1908, che fu anche bottega di pittura e di scultura e studio fotografico del padre, Carmelo.
La nostra conversazione parte proprio da Carmelo Tripodi.

Cosa significava per un bambino degli anni Trenta-Quaranta vedere come venivano sviluppate le fotografie? 
Ogni tanto mi infilavo nella camera oscura, anche se la mamma [Carmela Giordano] non voleva. Mio padre era un po’ indeciso, ma se vedeva che mi attaccavo ai pantaloni mi trascinava dentro: aggrapparmi alle sue gambe mi rassicurava in quella oscurità. Riuscivo a scorgere qualcosa del suo paziente lavoro, non molto perché non arrivavo al piano su cui operava. Quel buio era misterioso e affascinante.
Con la pittura era diverso? 
Con la pittura era tutto visibile, era all’aperto. Nell’Ottocento erano arrivati ad una sofisticheria che facevano addirittura delle tende, dei pannelli come quelli che si utilizzavano al cinema per ottenere certi riflessi sulla persona che posava. Era molto bello, complesso. Ma mio padre creava anche le statuette del presepe. Osservavo le sue mani lavorare al braciere e poi vedevo uscire fuori le braccia, le gambe, le mani: i personaggi prendevano vita ed io ne ero affascinato.
Come ha iniziato a dipingere? 
Da piccolo, con un carbone rubato dal braciere cercando di non farmi vedere da mia mamma. Eravamo in tempo di guerra e un pezzo di carbone costava. Ricordo quando scappavamo nella galleria [della linea taurense Sinopoli-Gioia Tauro], durante le incursioni aeree degli Alleati. Chi aveva i soldi riusciva a comprarsi la carne, quando c’era o quando ammazzavano gli animali, ma non tutti potevano. Un pezzo di carbone valeva tantissimo per le famiglie di allora.
Cosa disegnava con il pezzo di carbone sottratto dal braciere? 
Avevo la mania di disegnare per terra. La casa aveva i pavimenti in tavola, per cui io con il carbone “andavo a mille”. Mia madre si metteva lì con una scopa in mano, in un angolo, perché sapeva che poi sarebbe toccato a lei pulire. Mio padre seduto al cavalletto, sornione, andava avanti con i suoi lavori: lui aveva capito che ero portato. Così io disegnavo al piano di sopra, ma la stanza era piccola. Non mi bastava tutto il pavimento per completare i miei disegni, per cui spesso la gamba di qualche personaggio “scendeva” sui gradini della scala. Riproducevo per terra quello che mio padre disegnava al cavalletto.
Chi era Carmelo Tripodi? 
Mio padre è stato un artista grandissimo, che va riscoperto. È quello che faccio da diversi anni con il volume a lui dedicato, giunto ora alla terza edizione. Prendiamo ad esempio il suo “Galileo Galilei”, con quel bellissimo gioco di luci. Galileo riflette, studia: forse sta pensando al dissidio tra scienza e religione. Questo quadro mio padre lo dipinse nei primi anni del Novecento. Bisogna pensare a questo: nel 1906 il quadro parte da Sant’Eufemia sul carretto trainato dai muli degli “scandesci” [soprannome di una famiglia dedita al trasporto di cose], attraversa lo stretto e arriva a Palermo, dove viene premiato. Poi parte per Parigi, insieme al disegno “Sant’Antonio Abate”: le due opere vincono tutto quello che c’era da vincere.
Carmelo Tripodi fu iniziato all’arte nella bottega di Giosuè Versace (autore, in particolare, di due tele pregevoli: San Luigi e Santa Chiara), il quale era figlio di Giuseppa Violi, decoratrice dei quadri dei Misteri gaudiosi e gloriosi nella chiesa del Rosario e, a sua volta, figlia di Domenicantonio Violi (suo un quadro dell’Immacolata Concezione). Nella prima metà dell’Ottocento a Sant’Eufemia operarono, inoltre, i fratelli Rocco e Paolino Visalli, a conferma di una tradizione antica e feconda. Un filo rosso che conduce a lei e ai suoi fratelli Graziadei e Agostino.
Sì, la mia formazione e quella dei miei fratelli è stata influenzata molto dalla produzione artistica di nostro padre. A Milano, dove arrivai nel 1953 (prima ero stato a Firenze e Siena, dove avevo molto studiato), ho “incontrato” Cézanne, Van Gogh, Matisse, Gauguin, gli impressionisti. E poi la pittura di Giorgio De Chirico, di Aligi Sassu, che è stato mio grande amico, di Aldo Raimondi. Quell’arte era la mia arte, il mio stile diventa più frastagliato. Gli oggetti, le figure prendono la luce del sole e la riflettono. Mio padre chiude l’Ottocento; io ho cercato di fondere il vecchio con il nuovo. Nei tre periodi della mia produzione artistica ho essenzialmente studiato l’uomo (e il mito); la natura, che ho ritratto nella sua sofferenza: come nel quadro del piccione ferito e morente che raccolsi e portai a casa, a Venezia; infine Dante.

Il filosofo

Il suo quadro più celebre è “Il filosofo”. Ci parli di quest’opera.
Si tratta di un dipinto del 1984 che ha una bella storia. Me l’hanno chiesto in tanti: politici come Amintore Fanfani e Luigi Gui, artisti come Don Backy e Gena Dimitrova, che nel 1986 aveva interpretato il Nabucco alla Scala di Milano. La Dimitrova era particolarmente insistente, ma le dissi: «Chiedimi una costola, ma non questo quadro». In quel periodo tenevo una mostra in via Manzoni, vicino alla Scala. Sul quotidiano “Il Giorno” uscì un articolo con la testa del filosofo in prima pagina. Dopo un paio di giorni mi contattarono da Torino le Edizioni Paoline: «Abbiamo visto la testa del filosofo. Venga perché abbiamo bisogno di lei». Mi recai a Torino cercando di capire il perché di quella necessità assoluta: “la provvidenza”, come mi avevano detto. Erano pronti per mandare in stampa dieci volumi di un’enciclopedia della filosofia e delle religioni e avevano bisogno dell’immagine del mio quadro, poiché in essa avevano visto la rappresentazione del pensiero di Sofocle.
Un motivo di grande orgoglio.
«Tripodi fa filosofia con i colori»: è questo l’orgoglio. Non la copertina in sé. Noi dall’Aspromonte facciamo filosofia, diamo forma fisica al pensiero dei filosofi.
È bella l’espressione “dall’Aspromonte”. Un artista che gira il mondo ed espone i suoi quadri a New York, Tokio, Istanbul, Parigi, Londra, Stoccolma, Mosca porta avanti le proprie radici, le proprie origini. Proprio a Mosca lei ha esposto le opere del ciclo dantesco: quanto studio c’è dietro i 150 quadri dedicati alla Divina Commedia, quanta fatica per riuscire a interpretare Dante e dare forma alla sua poesia?

Monte del Purgatorio

Dante non ti lascia spazio per fare altro, ti prende tutto. Non si smette mai di studiarlo. Da bambino ero affascinato dalle anime del purgatorio dipinte da mio padre. Quelle fiamme lì, con le figure dentro, a quattro-cinque anni mi attraevano. I miei dicono che io mi arrabbiavo perché con il carbone non potevo farle rosse. Mio padre quindi era dantista, conosceva Dante e mi ha trasmesso l’amore lui. Poi l’ho studiato sui banchi di scuola. È una passione che si è sedimentata negli anni ed è maturata piano piano. Interpretare Dante significa anche “andare oltre” Dante e svilupparne in un certo senso il pensiero, così come credo di avere fatto con Manfredi, che Dante colloca nel terzo canto del Purgatorio. Il “mio” Manfredi ha un’espressione di pace e di tranquillità, ha già superato la fase di chi attende di conoscere quale pena dovrà scontare.
In conclusione, a me sembra che il tratto caratteristico della sua produzione artistica sia la convivenza dell’umanesimo con la religione e con la fede. È d’accordo?
Sì, è un equilibrio necessario: c’è l’uomo e c’è la spiritualità. Attraverso i miei lavori cerco di penetrare la materia, la carne: di tirare fuori la sostanza, l’essenza della natura umana. Per questo mi sono messo a lavorare con Dante. Dante ha tessuto una tela di salvezza per lui, ma anche per tutti gli uomini. Il fine ultimo della Cantica del Paradiso, come scrive a Cangrande Della Scala, è quello di rimuovere i viventi dallo stato di miseria e condurli allo stato di felicità. L’artista è uno strumento di Dio, come affermano chiaramente Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Per cui non si può che condividere il pensiero del critico d’arte Antonio Paolucci: «Per il pontefice l’artista è chiamato a rendere visibile, nella pienezza della sua libertà espressiva e quindi nell’esercizio della sua spontaneità di “creatore”, ciò che è trascendente, inesprimibile, “ineffabile”».

*Antonio Paolucci, tra l’altro Ministro per i Beni Culturali e Direttore dei Musei Vaticani, nel 2010 scrive a Domenico Antonio Tripodi: «Lei è un artista vero. Ha passato la vita attraversando l’arte e il servizio dell’arte in tutte le sue forme e l’Arte Le ha restituito cuore caldo e mente serena. Le sue interpretazioni pittoriche della Commedia sono molto belle. Lei dimostra ispirazione, sensibilità, passione, capacità evocativa e visionaria e, naturalmente, mestiere; una cosa che manca, purtroppo, agli artisti di oggi e che è sempre importante. Lei, Tripodi, è testimone ed è alfiere delle Arti. Auguri di ogni bene e di ogni successo».

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Un pianoforte, Cettina e il cielo di Berlino

Sono lontani i tempi della Berlino cupa dell’epoca della guerra fredda. Gli anni del muro, la città segnata dalla cicatrice di cemento che la divideva in due. Davanti alle macerie del muro finalmente abbattuto, trent’anni fa Mstislav Rostropovich fece commuovere il mondo facendo vibrare Bach sulle corde del suo violoncello. E chissà se sia stato un caso, in questa estate 2019, trovare un pianoforte verticale rosso a Postdamer Platz, anch’essa divisa in due per 28 lunghissimi anni.
Domanda che forse non si è posta Cettina Papalia, ragazza di Sinopoli in vacanza a Berlino la settimana scorsa. Complice la sua grande passione per la musica, Cettina non ci ha pensato due volte: si è seduta dietro al pianoforte e ha cominciato a suonare. Il resto l’ha fatto la magia che la musica riesce a creare.
Studentessa in Pianoforte al Conservatorio “Cilea” di Reggio Calabria e di Chimica presso l’Università degli studi di Messina, Cettina è allieva del Maestro Roberto Giordano: «È una fonte di ispirazione per me; in ogni lezione mi trasmette tutto il suo amore per la musica, il suo sapere, i suoi insegnamenti di vita. A novembre inizierò un nuovo e importante anno di studi: quello che mi porterà all’esame conclusivo per ottenere il Diploma Accademico di Primo Livello in Pianoforte. Vedrò così realizzato uno dei miei grandi sogni, dopo tanti anni di studio, di sacrifici per la mia famiglia, ma anche di tanta determinazione e voglia di arrivare in fondo. Anni di crescita e di cambiamenti; anni di un amore che ogni giorno scopro essere sempre più forte, senza il quale non potrei sopravvivere».
Una passione che ha origini lontane, come lei stessa spiega: «Tutto è nato nella mia Chiesa, a Sinopoli, un luogo di fondamentale importanza per la mia vita. A sette anni mi innamorai dell’organo che si trova al suo interno: lo ascoltavo, lo osservavo e rimanevo così affascinata da quello strumento che, non appena finita la messa domenicale, correvo a casa e con una piccola tastiera riproducevo esattamente i suoni che avevo ascoltato. I miei genitori, comprendendo questa mia particolare dote, decisero di iscrivermi in una scuola privata per iniziare a studiare pianoforte e da quel momento non ho più smesso. La mia vita è totalmente cambiata grazie alla musica».
Cettina infatti, oltre ad essere “pianista accompagnatore” di strumentisti e di cantanti, dirige il Coro parrocchiale di Sinopoli e suona proprio quell’organo che da bambina l’ha fatta innamorare della musica. Spesso pubblica sui social i video delle sue performances ed è proprio sul suo profilo Facebook che ha di recente condiviso il breve, ma suggestivo filmato della sua improvvisata “esibizione”: «Il pianoforte di Potsdamer Platz era a disposizione di chiunque avesse voluto suonare, anche soltanto per trasmettere una piccola emozione. Ho iniziato a suonare e attorno a me si sono radunate moltissime persone: chi mi riprendeva con il telefonino, chi applaudiva, chi mi faceva i complimenti. Mentre suonavo si è avvicinato uno studente di Berlino, Thomas Kruger: si è seduto accanto e abbiamo cominciamo a suonare a quattro mani come se avessimo fatto quello da sempre. Un’intesa perfetta: ecco il potere della musica! Non ha importanza la provenienza, il luogo, la persona: la musica sarà sempre capace di unire e di emozionare, di sorprendere e di stupire. In quel momento Thomas per me non era uno sconosciuto, ma un amico musicista speciale che ha condiviso con me un momento unico e raro».
I minuti scorrono veloci sulle note di “L’amour Toujours” di Gigi d’Agostino, “A skyfull of stars” dei Coldplay, la colonna sonora del film “Pirati dei Caraibi”. Il capannello di persone attorno ai due giovani diventa sempre più numeroso: i bambini ballano, i telefonini degli adulti si trasformano in cineprese e macchine fotografiche. Lo stupore e l’allegria degli astanti sono palpabili. Alla fine dell’esibizione una standing ovation coinvolge anche gli avventori dei ristoranti vicini, in quello che per Cettina rimarrà “il momento più bello dell’intero mio viaggio”.

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Viaggi sulla Luna

Mio nonno lo considerò un sacrilegio: «Ora viene la fine del mondo. La Luna non si deve toccare. È là, per i fatti suoi… perché l’uomo va a violare la sua tranquillità?». Più o meno le stesse parole ascoltate da un’anziana signora a corollario della consueta riflessione sulle stagioni che non sono più quelle di un tempo, una piovosa mattina d’agosto di qualche anno fa: «Da quando sono andati sulla Luna, si sciasciaru tutti i cosi».
D’altronde, ad un livello più “letterario”, un anno e mezzo prima dello sbarco dell’uomo sulla Luna, in una lettera a Italo Calvino la scrittrice Anna Maria Ortese aveva manifestato la tristezza e il fastidio (“e nella tristezza c’è del timore, nel fastidio dell’irritazione, forse sgomento e ansia”) che provava quando sentiva parlare di lanci spaziali e di conquiste dello spazio: si trattava di una violazione incomprensibile dello “straziante desiderio di riposo, di ordine, di beltà”. Opinione non condivisa da Calvino, il quale nella sua risposta sottolineava: «Chi ama la luna davvero non si accontenta di contemplarla come un’immagine convenzionale, vuole entrare in un rapporto più stretto con lei, vuole vedere di più nella luna, vuole che la luna dica di più».
E pazienza, quindi, se il 20 luglio 1969 l’uomo ne avrebbe profanato l’inviolabilità, a distanza di oltre quattrocento anni da Astolfo in cerca del senno perduto da Orlando, dopo il tradimento di Angelica. Un viaggio sul carro alato del profeta Elia, a differenza degli astronomi nel film muto Viaggio nella Luna, di Georges Méliès (1902), i quali compiono l’impresa a bordo di una navicella a forma di proiettile incredibilmente somigliante al modulo di comando dell’Apollo 11. Celeberrima la scena dell’allunaggio (diventata sigla del programma di RaiTre “Fuori Orario”), con il proiettile che, scagliato in orbita da un cannone, si conficca in un occhio della Luna abitata dai Seleniti.
Ad ogni modo, la Luna conserva intatto il suo fascino. “Silenziosa”, come ricorda il Poeta, là in alto continua a raccogliere i nostri travagliati pensieri e “forse” intende “questo viver terreno/ il patir nostro, il sospirar, che sia”.

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Quale festa

Il primo maggio non è una festa.
Non è la festa di chi deve chinare la testa ed umiliarsi perché in qualche modo ha una famiglia da mantenere.
Non è la festa di chi vede calpestata la propria dignità sull’altare del cinismo: «Se non ti vanno bene queste condizioni, puoi restare a casa. Là fuori ce ne sono migliaia pronti ad accettare ciò che tu rifiuti».
Non è la festa di chi ha dovuto barattare, rinunciare, adattarsi perché “questo è il sistema”.
Non è la festa di chi è sottopagato e dequalificato.
Non è la festa di chi viene sfruttato sedici ore al giorno ed è costretto a vivere in una tendopoli.
Non è la festa di chi ha rinunciato a vivere, divorato dalla depressione nella prigione di casa. Demotivato e spento, in attesa del niente che gli riempia le giornate.
Non è la festa di chi non voleva andare eppure gli è toccato di andare.
Non è la festa di chi voleva andare eppure è dovuto rimanere.
Non è la festa dei genitori che utilizzano pacchi come ponti per accorciare la distanza dai figli.
Non è la festa di chi non poteva rivendicare le più elementari condizioni di sicurezza e sul posto di lavoro ci ha rimesso la vita.
Non è la festa di chi, ricoprendo ruoli di responsabilità, non riesce ad offrire a molti giovani un’alternativa alla delinquenza.
Il primo maggio non è una festa.
Il primo maggio è un monito.

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«Ora e sempre Resistenza». Ecco perché è sempre attuale.

Nell’edizione odierna del Quotidiano del Sud, un mio intervento sul significato del 25 aprile e la risposta di Annarosa Macrì.

Cara dottoressa Macrì,
manca qualcosa a questo Paese, se gli eventi che dovrebbero essere occasione di unità provocano invece così aspre contrapposizioni. Manca la capacità di tenere insieme ragioni e torti, soprattutto quando ci si scontra con le contrapposizioni territoriali scaturite dal processo di unità nazionale o dall’irriducibile antinomia fascismo/antifascismo. In questo preciso momento storico, l’incapacità politica e culturale di cui sopra si salda pericolosamente con la tendenza a rimettere tutto in discussione, finanche i valori fondanti della democrazia affermatasi in Italia con la Resistenza.
La Resistenza è stata tutta rose e fiori? No, lo sappiamo. Ci sono stati eccessi e crimini storicamente accertati, regolamenti di conto che poco avevano a che fare con la conquista della libertà dopo il ventennio di dittatura fascista. Male ha fatto una certa storiografia a tentare di nascondere questa pagina nera. Ma il revisionismo storico non va confuso con quello pataccaro che infesta le cloache del web, apodittico in quanto decontestualizzato e decontestualizzante, oltre che tendenziosamente strumentale ad una narrazione politica falsa e pericolosa.
Ha ancora senso celebrare il 25 aprile? Certamente sì. Ha senso proprio perché non si tratta di un “derby” tra fascisti e comunisti. Chi sostiene questo evidentemente non ha idea del contributo fornito alla causa da personalità quali Alfredo Pizzoni, Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, Edgardo Sogno. Si tratta, e dovrebbe essere chiaro anche a chi non è dotato di particolari strumenti culturali, di interiorizzare la replica di Vittorio Foa a Giorgio Pisanò: «Abbiamo vinto noi e tu sei potuto diventare senatore, avessi vinto tu io sarei ancora in carcere». Sta tutta qua la differenza tra fascismo e antifascismo. Ed è una differenza dirimente.
Non si possono mettere sullo stesso piano coloro che lottavano per la libertà e i seguaci del nazifascismo. Claudio Magris sostiene che “è triste dovere difendere la Resistenza”: non dovrebbe essercene bisogno. La vittoria dei partigiani ha portato in Italia la democrazia, quella dei repubblichini di Salò l’avrebbe trasformata in un campo di concentramento nazista. Insomma, c’erano una parte giusta e una sbagliata: chi non accetta questo compie un’operazione storicamente disonesta e moralmente indecente.
Il 25 aprile non segna soltanto la fine di una sanguinosa e fratricida guerra civile. È l’atto fondante della Repubblica italiana, la rinascita della nazione dopo la seconda guerra mondiale, la riconquista di quell’onore che il fascismo aveva oltraggiato con la dittatura, con la soppressione di tutte le libertà, con le leggi razziali e con l’ingresso in guerra al fianco della Germania nazista.
Ecco perché suona ancora attuale la chiusura dell’epigrafe composta da Piero Calamandrei per la celebre lapide “ad ignominia” dedicata al criminale di guerra Albert Kesserling: «Ora e sempre Resistenza».
Domenico Forgione – Sant’Eufemia d’Aspromonte

RISPOSTA
Sì, è triste dover difendere chi siamo, chi sono i nostri padri, qual è il Paese in cui siamo nati.
E’ come se qualcuno strappasse la nostra carta d’identità, di persone e di cittadini, ci costringesse a declinare le nostre generalità, noi le recitassimo e non fossimo creduti.
E’ triste perché se è vero che la libertà non è un concetto finito e definito, è un’acqua di cui si ha sete perenne e che non disseta mai fino in fondo, e, di generazione in generazione, apre nuove praterie da percorrere e nuovi diritti da conquistare, la liberazione dal Fascismo, quella, non può essere messa in discussione, perché i fatti storici sono fatti, e, al di là delle interpretazioni, sono stati, e sono, causa ed effetto, di altri fatti: anelli di una catena che è pericolosissimo spezzare.
E’ triste perché il revisionismo becero che spira in questo Paese è un furto. Non dei valori in cui crediamo, che non sono, vivaddio, merce negoziabile, ma di tempo. Sì, di tempo. Io provo fastidio, un grande fastidio a dover partecipare a dibattiti, o solo ascoltarli, che mettono in discussione storia e storie acquisite, perché sento di essere governata da gente non solo ignorante o in malafede, ma di perditempo, che cerca di disfare, inutilmente, quell’arazzo faticosamente e dolorosamente tessuto da tutti gli Italiani, che si chiama “Novecento”, ed è lo sfondo “naturale” della nostra contemporaneità.
Ma la festa, quelli là, non riescono a rovinarcela. Semplicemente perché è impossibile, e perché Liberazione fa rima con Costituzione, e la Costituzione è lo scudo della Storia e della libertà.
Ieri ho ricevuto tanti auguri laici e tanti ne ho dati, e i giardini pubblici di Roma – dove in questo momento mi trovo –, al centro e in periferia, erano pieni di gente, moltissimi i giovani!, che cantavano e brindavano e ridevano.
Enzo Biagi, durante i momenti più bui del berlusconismo, diceva: “vedrete, “loro” se ne andranno e noi, invece, rimarremo”; beh, in fondo aveva ragione.
Anche se altri “loro” sono arrivati, peggiori di quelli di prima, noi siamo qua. E finché ce la raccontiamo e siamo capaci di far festa, viva la Libertà e viva la Liberazione!

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Il pane calpestato

Mi ha turbato molto vedere gente inferocita prendere a calci e calpestare il pane. Sono coltellate quelle parole piene di rabbia: «Devono morire di fame!».
Non voglio fare nessun ragionamento che possa apparire di parte, né utilizzare trenta bambini innocenti come scudi umani. Quale parte poi? Quella dell’umanità? Siamo arrivati al punto di dovere giustificare il gesto più nobile che un uomo possa compiere nei confronti di un suo simile?
I calci al pane, il piede che schiaccia la vita e la dignità dell’uomo: su questo bisognerebbe riflettere.
Ho ascoltato storie antiche che si perdono nella notte dei tempi. Quella notte che noi abbiamo voluto buia, per non pensare che accadevano pochi decenni fa; per non ricordare da dove veniamo; per cancellarle dal nostro album di famiglia.
Le storie dei contadini che scalavano a piedi i sentieri dell’Aspromonte con un tozzo di pane in tasca. Le storie di chi pranzava con pane e olive, di chi leccava una sarda e dava un morso a pezzo di pane, di chi ci sfregava sopra un tocco consunto di formaggio. Le storie di chi a 8-10 anni era già un uomo abile al lavoro: e proprio un chilo di pane era la sua paga giornaliera.
Ho visto mia nonna raccogliere il pane caduto a terra e baciarlo. L’ho visto fare a mia mamma. Lo faccio anch’io. Ho visto mia nonna girare dal “lato giusto” il pane poggiato sulla tavola “a faccia in giù”: perché il pane è il volto di Cristo, diceva. L’ho visto fare a mia mamma. Lo faccio pure io. Anche se non sono sicuro che il pane sia il volto e il corpo di Cristo. Ma so che il pane è il volto e il corpo dell’uomo, il suo sudore, la sua fatica, la sua dignità.
Questo mi basta per comprendere il sacrilegio di un gesto così disumano.

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L’Alfiere della Repubblica Roman Moryak: la premiazione

Si è svolta ieri al Palazzo del Quirinale la cerimonia di consegna degli Attestati d’Onore ai 29 nuovi Alfieri della Repubblica, giovani nati tra il 1999 e il 2008 “che si sono distinti per la loro testimonianza, il loro impegno, le loro azioni coraggiose e solidali” e che rappresentano modelli positivi di cittadinanza, “esempi dei molti ragazzi meritevoli presenti nel nostro Paese”.
Tra i premiati anche Roman Moryak (14 anni il 30 maggio), nato a Reggio Calabria da genitori ucraini che risiedono da circa 15 anni a Sant’Eufemia d’Aspromonte, con la seguente motivazione: «Si è distinto per la passione e l’impegno dimostrati prima nello studio del sassofono, poi nell’attività di calciatore, e quindi in quella di scacchista. Nei tornei di scacchi il suo valore è molto apprezzato e già diversi trofei sono entrati nella sua personale bacheca, oltre a piazzamenti importanti a livello regionale e nazionale. Essendo figlio di immigrati ucraini, nella sua comunità è divenuto un simbolo positivo di integrazione».
Si tratta di un riconoscimento del quale andare fieri come comunità eufemiese per il suo alto valore simbolico, in un momento storico particolarmente difficile per le tematiche legate al concetto di integrazione.
Nel suo intervento il Presidente della Repubblica Mattarella, riferendosi allo stupore dei giovani premiati in virtù di comportamenti da essi stessi considerati “normali”, ha sottolineato l’importanza di “far vedere che questa è la normalità della vita, che aiutare gli altri, aiutare chi è in difficoltà, rende la vita migliore, fa vivere meglio se stessi e la comunità in cui si è inseriti”: «Ed è quel che avete fatto, in tanti modi diversi, ciascuno con un’iniziativa particolare, dimostrando che ogni persona è irripetibile, ma che tutte queste risorse individuali confluiscono nella vita comune, nella convivenza. Non siete i soli a fare cose così belle da sottolineare; tanti altri ragazzi come voi hanno fatto cose analoghe. Voi li rappresentate tutti, perché il nostro Paese è pieno di ragazzi che hanno la vostra stessa sensibilità. È importante però farla conoscere, far capire che questa è la regola della vita, la normalità, che dovrebbe essere sempre praticata da tutti».
«Vi ringrazio molto – ha concluso il capo dello Stato – perché avete dimostrato che questa è la vita del nostro Paese e che la solidarietà è l’impalcatura della convivenza. Nulla regge senza impalcatura. La nostra società, il nostro vivere insieme non starebbe in piedi senza la solidarietà. Voi l’avete praticata e dimostrata».
Complimenti a Roman e auguri anche ai genitori, Igor e Ivana.

*La fotografia e il video della consegna degli attestati sono condivisi dal sito istituzionale della Presidenza della Repubblica (www.quirinale.it)

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