Quando il custode non custodisce

Stamattina l’acqua che scendeva dal rubinetto aveva un poco rassicurante colore marrone. Ho pensato: «Chissà se qualcuno ha già chiamato per segnalare il problema». Che al comune sia arrivata o meno una telefonata, l’inconveniente è durato poco tempo.
Ci sono posti, nella nostra civilissima Italia, dove le cose non funzionano così. L’acqua sgorga costantemente mista a terra, ma farlo presente alle autorità competenti è fatica sprecata. È il caso della casa circondariale “Francesco Uccella” di Santa Maria Capua Vetere. Molti sono a conoscenza di questa vergogna e, qualche volta, la questione ha guadagnato spazio pure sui giornali. Senza tuttavia produrre alcuna iniziativa eclatante. Nell’indifferenza generale, i detenuti continuano a lavarsi con l’acqua sporca e a cucinare con l’acqua minerale. Da anni e chissà per quanti anni ancora.
Non è vero che il carcere non ci riguarda. Noi cittadini siamo lo Stato. E lo Stato ha il dovere di “custodire” chi finisce dietro le sbarre. Ciò comporta un alto grado di responsabilità, alla quale sfugge chi calpesta la dignità dei detenuti che gli vengono affidati, per un periodo più o meno lungo. Così come non lo adempie ogni volta che un detenuto si toglie la vita: 54 nel 2021, 61 nel 2020, 25 nei primi cinque mesi del 2022. Custodia, per definizione, è l’attività di sorvegliare, avere cura, assistere cose o persone.
Politici, avvocati e la cosiddetta “società civile” dovrebbero incatenarsi ai cancelli del carcere di Santa Maria Capua Vetere e urlare “da qua non ce ne andiamo fino a quando, là dentro, dai rubinetti non scenderà acqua potabile e trasparente”.
Senza girarci intorno: quella struttura andrebbe chiusa perché non rispetta la dignità umana. Ma è un abbaiare alla luna, se non si riesce a dare voce a chi non ha voce: «Quello che non si sa – scrisse Enzo Tortora (del quale oggi ricorre il trentaquattresimo anniversario della morte) in una delle sue Lettere dal carcere – è che una volta gettati in galera non si è più cittadini ma pietre, pietre senza suono, senza voce, che a poco a poco si ricoprono di muschio. Una coltre che ti copre con atroce indifferenza. E il mondo gira, indifferente a questa infamia».

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Viva la libertà, senza retorica

La Liberazione costituisce l’evento fondante della Repubblica e segna il riscatto del popolo italiano dal disonore della dittatura fascista, delle leggi razziali e dell’ingresso nella seconda guerra mondiale. Come tutte le ricorrenze, ha un senso se non si riduce a vuota retorica, a citazione di frasi che non hanno attinenza con lo stato reale della libertà in Italia, oggi.
Il 25 aprile viene celebrato onorando la memoria dei caduti per la libertà, della quale tutti ci sentiamo paladini quando – ad esempio – riproponiamo la celeberrima epigrafe composta da Piero Calamandrei per la lapide “ad ignominia” dedicata al criminale di guerra nazista Albert Kesselring, o la lettera scritta nel 1933 dal “recluso politico” Sandro Pertini, che si dissociava con sdegno dalla richiesta della grazia presentata al regime fascista dalla madre. Non bisogna abbassare la guardia poiché – come ammoniva Calamandrei – “la libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare”.
Eppure esistono posti, nel nostro amato Bel Paese, nei quali per molta gente quell’aria manca, e non dovrebbe mancare. Nelle carceri italiane sono attualmente reclusi oltre 54.000 detenuti, 16.000 dei quali non ancora condannati definitivamente: 8.500 di essi addirittura in attesa di primo giudizio. Un detenuto su tre, secondo la lettera della nostra Costituzione, è un presunto non colpevole.
Un dramma silenzioso, che non provoca alcuna indignazione se non in settori minoritari della società e della rappresentanza politica. Non potrebbe essere diversamente, dopo tre decenni di propaganda giustizialista che hanno fatto dire ad un (per fortuna ex) ministro della Giustizia che gli innocenti non finiscono in carcere e a un celebre (per fortuna ex) pubblico ministero che un innocente è un colpevole che l’ha fatta franca.
Il carcere preventivo rappresenta il buco nero della giustizia italiana. Statisticamente, ogni anno circa 1.000 persone che finiscono in carcere sono innocenti. Prigionieri sequestrati per mesi o per anni dallo Stato, non dall’Anonima sequestri, per effetto di uno strumento emergenziale (la custodia cautelare) che nel tempo è diventato distorsione e abuso.
Alla luce di queste tragedie umane, siamo sicuri che in tema di libertà personale esista in Italia una questione più grave dello scempio costituzionale che si consuma quotidianamente con l’ingiusta privazione della libertà a danno di un così alto numero di persone?
Buona festa della Liberazione, dunque. Senza retorica.

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Palamara, atto secondo

Un anno dopo l’uscita del libro-intervista Il sistema. Potere, politica, affari: storia segreta della magistratura italiana, Alessandro Sallusti e Luca Palamara sono tornati in libreria Lobby & Logge. Le cupole occulte che controllano «il Sistema» e divorano l’Italia, che completa il quadro sconcertante dello stato della giustizia in Italia. Il secondo atto è un viaggio in quello che Palamara definisce il “dark-web” del sistema giudiziario, l’ombra nella quale si muovono «faccendieri, servizi segreti più o meno deviati, logge all’incirca massoniche o più semplicemente lobby che usano la magistratura, a sua volta lobby potente, e l’informazione, per regolare conti, consumare vendette, puntare su obiettivi altrimenti irraggiungibili, fare affari e stabilire nomine propedeutiche ad altre, e ancora maggiori utilità, Cambiare, di fatto, il corso naturale e democratico delle cose».
La mia impressione è che questo secondo volume stia avendo un risalto mediatico inferiore rispetto al primo, nonostante la realtà descritta offra molteplici spunti di riflessione. Dalla presunta loggia Ungheria alle faide correntizie, alle dinamiche “politiche” che determinano la gestione di inchieste e pentiti, alla deriva giustizialista iniziata con Tangentopoli, all’opacità di certa antimafia, per finire all’implosione di un sistema che ha portato a compimento la profezia di Francesco Cossiga: «Finiranno ad arrestarsi tra di loro». Dalla giustizia ad orologeria all’intreccio perverso tra procure e informazione, che fa dire a Palamara che un gruppo composto da un procuratore della Repubblica con i suoi aggiunti e sostituti, un ufficiale della polizia giudiziaria “ammanicato” con i servizi e un paio di giornalisti delle testate più importanti ha un potere superiore a quello del Parlamento, del premier e dell’intero governo.
Lo spaccato inquietante conferma quanto sia indispensabile mobilitarsi a sostegno dei referendum che si terranno il 12 giugno. Tranne qualche rara eccezione, da questa classe politica non c’è da attendersi nessun sussulto di dignità sul tema della giustizia. Solo ipocrisia, come quella di chi sostiene che le riforme vanno fatte in Parlamento: campa cavallo. Tanto che fa venire i brividi alla schiena la reazione scomposta dell’Associazione nazionale magistrati contro la mini-riforma Cartabia: un attacco sostanziale al principio cardine della separazione dei poteri, secondo il quale compito dei giudici è applicare le leggi, non produrle.
Sono emblematici il mutismo del servizio pubblico e l’indifferenza generale nei confronti della mortificazione del fondamentale diritto dei cittadini ad essere informati sui referendum. Così come il silenzio assordante sulle vicende raccontate da Palamara, che coinvolgono toghe stellate e i vertici istituzionali della magistratura e della politica italiana negli ultimi vent’anni.
Tutto questo conferma la sensazione di avere di fronte una casta dalla doppia morale. Sull’esistenza di due giustizie, con un metro di giudizio valido per tutti tranne che per i magistrati e uno esclusivo dei giudici, profetiche appaiono le parole di Giulio Andreotti, opportunamente rievocate da Sallusti: «Quando ho dovuto affrontare il mio processo ho capito perché la stupenda scritta “La legge è uguale per tutti” è alle spalle e non davanti agli occhi del giudice».

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Pacifismo e putinismo

© Gettyimages

Ho la spiacevole sensazione che dietro molti pacifisti di facciata in realtà si nasconda una inconfessabile simpatia per un autocrate come Putin. Perché è antiamericano, perché le canta a questa Europa che non ci piace. Il fondamentalismo ideologico è il più potente tra gli oppiacei.
Passano così in secondo piano le sofferenze di un popolo in fuga. Ci sono già, a parte le vittime, 2 milioni e mezzo di profughi. Alla gente con il culo al caldo, in fondo, interessa solo non perdere nessuno dei privilegi dei quali gode la società occidentale, quella stessa società che possono criticare perché hanno la fortuna di viverci. In Russia non gli sarebbe consentito farlo, per dire. Privilegi che vedono minacciati da una eventuale estensione del conflitto. Interessa che il prezzo del gas non aumenti ancora, che nei nostri negozi continui ad arrivare il pellet, la pasta, la farina. Interessa continuare a fare lezioni su qualsiasi questione, “approfondita” leggendo il post di miocuggino, spaparanzati sul divano di casa con lo smartphone in mano. Ma di questi 2 milioni e mezzo di profughi ne vogliamo parlare?
Intellettuali di vaglia, argomentando il proprio pacifismo non ne fanno cenno. Davvero siamo tutti numerini senza valore? Un cinismo deludente per me che sento di avere affinità con quel mondo. Perché, diciamoci la verità, ovvia ma che purtroppo va ribadita in questo impazzimento generale: non vogliamo la guerra. A me non piace Zelensky e non piace Putin. Ma ho chiaro in testa chi ha aggredito e chi è stato aggredito. Non mi pare che ci siano russi costretti a scappare, che hanno avuto le case distrutte e il cui Paese è stato attaccato nei principi fondamentali della democrazia: libertà, indipendenza, autodeterminazione dei popoli.
È compito della diplomazia risolvere la crisi, ma nel frattempo che facciamo? Lasciamo massacrare un popolo? Questa, per me, è la questione vera. Non credo che se una sorte del genere fosse toccata a noi avremmo accolto l’invasore stendendo al suo passaggio un tappeto di petali di rose. O almeno me lo auguro.

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La guerra e noi

Provocano sempre sconcerto la violenza e le guerre, rigurgito di pulsioni primitive che si fa fatica a definire. Cos’è la guerra? Perché gli uomini e le nazioni si fanno la guerra?
Ci sono certamente delle ragioni che portano gli uomini a calpestare la vita e la dignità di altri uomini per un qualche interesse. Anche se qualsiasi motivazione risulta incomprensibile agli occhi di chi pone al primo posto della propria scala di valori la vita e la dignità umana.
Da giorni leggo i commenti e i post delle tifoserie contrapposte. Come se davvero la guerra possa essere accomunata ad una partita di calcio o ad una gara canora. Se l’uomo perde di vista l’aspetto umano degli avvenimenti, perde sé stesso.
C’è un popolo in fuga dal proprio Paese, che ha dovuto abbandonare la propria casa con quattro cose strette dentro un sacco. Una vita dentro un sacco. Ci sono bambini che piangono terrorizzati. C’è la piccola Mia, che nasce nel sotterraneo della metropolitana di Kiev adattato a rifugio antiaereo. C’è il fischio della sirena che invita a correre negli scantinati perché dal cielo stanno per piovere bombe. Ci sono civili e militari che muoiono, e non era nei loro progetti. Non così, almeno. C’è gente che ha perso tutto ciò che aveva. C’è il ricordo, già diventato vecchissimo, di una condizione di normalità stuprata dall’invasione.
Le democrazie hanno mille imperfezioni, spesso sono inefficienti. Ma rappresentano il meglio di cui l’uomo è stato capace per esprimere la sua natura di animale sociale. Sono il prodotto di un percorso evolutivo millenario; nel secondo dopoguerra, l’esito della fine dei conflitti e della sconfitta delle dittature in Europa: “la peggiore forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora”, ammoniva Winston Churchill in un celebre discorso del 1947.
A differenza di molti altri conflitti in corso sul pianeta, dei quali colpevolmente non sappiamo o facciamo finta di non sapere niente, questa in Ucraina è una guerra in presa diretta. Uomini, donne, bambini e anziani non sono numeri, ne vediamo i volti sofferenti. Il dolore provocato non dobbiamo immaginarlo, ferisce i nostri occhi.
Per questo è sconcertante l’incontinenza verbale del tifoso della strada. Mette angoscia ciò che non si riesce a comprendere.

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Referendum giustizia

Avrete notato che in questi giorni si parla più dei quesiti referendari cassati dalla Corte costituzionale che dei cinque sulla giustizia ammessi. Non è un caso. Non credo alle casualità in materia di giustizia. Non credo neanche nella giustizia, a dire il vero. E considero ipocrita chi sostiene il contrario, chi di fronte a palesi abusi e violazioni del dettato costituzionale si trincera dietro frasi fatte: “la giustizia deve fare il suo corso”; “bisogna difendersi nel processo”. No, sempre più spesso si finisce con il doversi difendere “dal” processo: dalla distorsione tutta italiana che consente di individuare un colpevole per il quale, in qualche modo, occorre trovare un reato.
So bene che solo toccando con mano è possibile rendersene conto: e non è augurio da fare a nessuno. Tuttavia, può capitare a chiunque di ritrovarsi in un girone infernale inimmaginabile. Mille all’anno, spiegano i più ottimisti, rifacendosi alle statistiche dei risarcimenti delle ingiuste detenzioni. In realtà a quei mille vanno aggiunti coloro che sono talmente schifati da non presentare nemmeno la domanda per il risarcimento, coloro che non sanno neanche di avere questo diritto, coloro che anche se detenuti ingiustamente il risarcimento non l’avranno perché possono avere indotto (avete letto bene!) i giudici all’errore. Cornuti e mazziati.
Personalmente considero i cinque quesiti referendari timidi e insufficienti rispetto alla cura da cavallo che servirebbe per risollevare la credibilità della magistratura, oggi ai minimi storici. Ritengo però che poco è sempre meglio che niente. La vittoria dei sì indicherebbe una strada di civiltà, in Italia smarrita dai tempi dell’ordalia di Mani Pulite. E darebbe una risposta orgogliosa alla pavida subalternità della politica, debolissima nella rivendicazione delle proprie prerogative, appaltate in maniera suicida al potere giudiziario.
Ascoltiamo con sempre più distacco e delusione i distinguo sull’opportunità che è compito del Parlamento riformare la materia. L’avesse fatto, non ci sarebbe stato bisogno dei referendum. Osserviamo senza alcuna sorpresa alla levata di scudi di forze politiche legate al guinzaglio delle Procure per convinzione o per calcolo. Consideriamo una furbata l’invito al boicottaggio delle urne, in modo da sommare i no ai referendum all’astensionismo fisiologico dei tanti elettori che, per le più svariate ragioni, non si recheranno al seggio. Al pari dei tentativi di affossamento dei quesiti referendari mediante la proposta di accorparli al secondo turno delle prossime elezioni amministrative (giugno), quando l’affluenza sarà prevedibilmente più bassa.
La scomposta reazione di chi vorrebbe mantenere lo status quo è di per sé un buon motivo per non disertare. Nell’immediato cambierà poco, la strada della riforma della giustizia sarà in ogni caso lunga. Ma è notorio che anche un viaggio di mille miglia comincia sempre con un primo passo.

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Le ragioni di un’astensione

Non sono affatto pentito di avere disertato le urne, né mi sento toccato dalla contestazione che, così facendo, ho permesso ad altri di decidere per me. Lo accetto con serenità. Né mi indigna l’esito delle elezioni, poiché non credo che nessuno abbia l’autorità morale per stabilire quando un risultato è eticamente accettabile e quando no. Chi vince è stato più bravo e sarà giudicato per quello che riuscirà a fare o a non fare.
Sono un elettore di centro-sinistra, ma non ho la vocazione al suicidio e nemmeno paraocchi che mi impediscano di vedere il caos (apparentemente) calmo calabrese.
Avrei avuto a disposizione tre scelte, una più scalcinata dell’altra. A partire dalla coalizione guidata da Amalia Bruni, candidata dell’ultima ora di PD, Cinque Stelle e un paio di liste allestite per fare gonfiare il petto in conferenza stampa: «Ci sostengono sei liste». Ma quando mai. Le ultime tre, insieme, non hanno raggiunto il 2%.
Anche la seconda alternativa (De Magistris) contemplava la presenza di diverse liste in funzione puramente decorativa. Opzione personalistica molto pompata a livello mediatico, con il velleitario lancio di una “rivoluzione gentile” in salsa populista. Proprio ora che il populismo mostra la corda: vedi a livello nazionale il mesto e inarrestabile declino dei Cinque Stelle. Basta bandane, basta toni ultimativi da salvatori della patria, basta l’arroganza di chi si ritiene il più puro tra i puri. Non guasterebbe un bagno d’umiltà. Che, per la verità, è mancata anche a Carlo Tanzi, autore ad urne aperte della dichiarazione più atroce: «A me interessa solo che la mia lista raggiunga il 4%». Sì, ciao.
La terza possibilità (Oliverio) più che una proposta politica, era il gesto estremo del marito che si taglia gli attributi per fare un dispetto alla moglie. La quale guadagna l’uscio con una ragione in più.
La vittoria di Occhiuto restituisce (ci si augura) la politica ai politici. D’altronde, puoi essere bravo e rispettabile quanto vuoi, ma alla fine contano i numeri. E i numeri, a livello locale, fortunatamente ancora li possiede chi sta sul campo 365 giorni su 365, chi ha rapporti con le comunità e con i territori, chi si confronta con le persone in carne e ossa, non con gli algoritmi. Se lo comprendessero anche a sinistra, finirebbe la stagione delle imposizioni romane, fatte digerire con il baratto della garanzia di qualche strapuntino personale. Impareranno la lezione? Qualche dubbio permane.
Non è serio scaricare responsabilità proprie su un elettorato comprensibilmente disorientato. Forse si è davvero toccato il fondo, dal quale non si può che risalire. E questa potrebbe davvero essere l’unica nota positiva di un disastro annunciato.

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La terra delle ingiuste detenzioni

Ci sono i dati e c’è l’interpretazione dei freddi numeri. Ma la politica, è notorio, su certi temi preferisce fare lo struzzo. Il dato è quello delle ingiuste detenzioni nell’anno 2020 diffuso dal Sole24Ore, che riporta il contenuto della “Relazione sull’applicazione delle misure cautelari personali e i dati relativi alle sentenze di riconoscimento del diritto al ristoro per ingiusta detenzione” redatta dal Dipartimento per gli Affari di Giustizia: 1108 procedimenti e 46 milioni di euro liquidati, quasi 27 milioni di risarcimenti soltanto nelle Corti d’appello di Bari, Catanzaro, Palermo, Roma e Reggio Calabria. Capolista di questa speciale classifica dei risarcimenti, la Corte d’Appello di Reggio con circa 8 milioni liquidati, seguita da quella di Catanzaro (4 milioni e mezzo). Insomma, il Sud la fa da padrona. Si dirà: certo, c’è la mafia. Più reati uguale più arresti, ma anche maggiore possibilità di errori e di vittime collaterali della sacrosanta lotta al crimine.
E quindi? I numeri di matricola schiacciati dai panzer delle procure meritano un moto di indignazione e la ribalta politica, o basta un risarcimento? Scusate e tanti saluti.
Ancora: c’è una ragione se nonostante i rastrellamenti a tappeto di interi paesi la criminalità è viva e vegeta? Sì, c’è. Un motivo semplicissimo: la repressione da sola non è sufficiente e, anzi, gli errori provocati dalla pesca a strascico (o dal napalm: fate voi) fanno soltanto aumentare la sfiducia dei cittadini nelle istituzioni.
Nel suo pregevole La ’ndrangheta come alibi (Città del sole edizioni, 2019), Ilario Ammendolia con coraggio sostiene che la ’ndrangheta è stato ed è l’alibi di classi dirigenti incapaci, funzionale alla giustificazione del disimpegno dello Stato in Calabria. Stato che dà segnali di vita con interventi repressivi, intercettazioni telefoniche di massa, operazioni mediatiche che coinvolgono migliaia di innocenti, provocano assurdi scioglimenti di consigli comunali e interdittive antimafia contro le imprese. È il paradosso di uno Stato che si manifesta con la sospensione dello Stato di diritto e con il ricorso a una legislazione emergenziale.
Nihil sub sole novum: è storia antica, che non ha neanche il pregio dell’originalità. Già la legge Pica (1863), da applicare alle province del Sud dichiarate in “stato di brigantaggio”, non risolse il problema nonostante le migliaia di arresti, fucilazioni sommarie, condanne ai lavori forzati e al domicilio coatto. Un abuso denunciato subito (3 maggio 1863) dal deputato pugliese Giuseppe Massari, uno dei pochi a comprendere la complessità del fenomeno: «Il brigantaggio è stato considerato come questione di forza, e quindi per combatterlo non si è saputo far altro di meglio se non contrapporre forza a forza. Ma in cosiffatta questione la parte militare è accessoria, è secondaria».
Se l’emergenza non viene mai superata, bisognerebbe almeno porsi qualche dubbio sull’efficacia di uno strumento che evidentemente non va alle radici della questione, principalmente perché mischia fenomeno sociale e reati: da qui gli arresti di massa. Occorrerebbe prendere atto che la criminalità è effetto del sottosviluppo, non causa. Un ribaltamento di prospettiva che metterebbe sul banco degli imputati l’intera classe politica italiana, colpevole (non soltanto per incapacità) della mancanza di lavoro, infrastrutture e servizi in una vasta area del Paese.
Servirebbe l’antimafia dei fatti, che si traduce in politiche di sviluppo. E meno antimafia di parata, quella dei vuoti codici etici, degli ipocriti registri della “cittadinanza consapevole” e delle targhe “Qui la mafia non entra”. Togliete alla criminalità il brodo di coltura della disoccupazione e appassirà da sola.

*Pubblicato su CalabriaPost.net, 30 giugno 2021

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Bene i colloqui in presenza, ma manteniamo anche quelli video

IL DUBBIO, 26 GIUGNO 2021

Gentile direttore,
è stato accolto molto positivamente l’annuncio del ministro della Giustizia Marta Cartabia sulla ripresa dei colloqui in presenza nelle carceri. Come si ricorderà, la sospensione a marzo 2020 aveva scatenato le proteste e le rivolte culminate con i morti di Modena, feriti e pestaggi in diversi penitenziari.
Per attenuare l’isolamento dei detenuti, in una fase caratterizzata inoltre dall’interruzione di ogni attività all’interno delle carceri (lezioni scolastiche, palestra, celebrazioni sacre, ingresso di volontari), il governo dispose l’aumento delle telefonate a casa e introdusse le videochiamate, sostitutive dei colloqui visivi, sebbene in numero variabile da penitenziario a penitenziario. Ad ogni modo, la soluzione contribuì a rasserenare gli animi e, cosa più importante, a garantire quel “diritto all’affettività”, in senso ampio, che va riconosciuto al detenuto quale tutela della sua dignità di essere umano. Una giustizia giusta è infatti incompatibile con la concezione della pena in senso esclusivamente afflittivo, tipica invece della “vendetta pubblica”.
La sentenza 26/1999 della Corte Costituzionale ha stabilito una volta per tutte che «l’esecuzione della pena e la rieducazione che ne è finalità – nel rispetto delle irrinunciabili esigenze di ordine e disciplina – non possono mai consistere in “trattamenti penitenziari” che comportino condizioni incompatibili col riconoscimento della soggettività di quanti si trovano nella restrizione della loro libertà». La detenzione non annulla la titolarità dei diritti del detenuto, tra i quali vi è il diritto al mantenimento delle relazioni affettive con il proprio nucleo familiare. D’altro canto, l’articolo 5 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, richiamato dall’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, afferma che “nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o punizioni crudeli, inumani o degradanti”. Inumana e degradante è la condizione di chi, già privato della libertà personale, non può avere alcun tipo di contatto con le persone care.
Ecco perché sarebbe auspicabile non abbandonare del tutto l’esperienza nata da una situazione di emergenza che si è rivelata tanto utile quanto umana. Non tutti i familiari di un detenuto hanno la possibilità di svolgere i colloqui in presenza, soprattutto se il penitenziario dista centinaia e centinaia di chilometri dal luogo di residenza. Ciò accade ai coniugi anziani (nelle carceri ci sono molti detenuti ultrasettantenni) con problemi di salute che rendono complicato un eventuale viaggio, in presenza di bambini molto piccoli o di familiari con disabilità, ma anche in realtà di disagio economico: non tutti possono permettersi i costi della trasferta e, a volte, del pernottamento.
Mantenendo entrambe le opzioni, una alternativa dell’altra, chi non avesse la possibilità di svolgere i colloqui visivi potrebbe continuare a vedere il volto dei congiunti attraverso il display di un telefonino. Sembra poco, ma non lo è: né per i detenuti, né per i suoi familiari.

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I referendum sulla giustizia un’occasione da cogliere

Il lancio del referendum per una “giustizia giusta” un primo risultato l’ha già ottenuto. Quello di ricollocare al centro del dibattito politico una questione che sembrava avere segnato il passo, dopo le iniziali aspettative generate dall’insediamento di Marta Cartabia negli uffici di via Arenula. La reazione dell’Anm indica che è stato toccato un nervo scoperto e dice molto sulle resistenze corporative di parte della magistratura.
Ma andiamo con ordine. Quali sono i contenuti dei sei quesiti promossi dal Partito Radicale e dalla Lega? Abolizione della legge Severino in materia di incandidabilità, ineleggibilità e decadenza nel caso di condanna per determinati reati: sarebbe il giudice a decidere, caso per caso, se applicare anche l’interdizione dai pubblici uffici. Limitazione della carcerazione preventiva ai soli reati gravi. Separazione delle carriere dei magistrati: il magistrato sceglierebbe se svolgere la funzione giudicante o quella requirente, senza possibilità di passare dall’una all’altra. Diritto di voto, per avvocati e professori universitari, nella valutazione dei magistrati nei Csm distrettuali. Responsabilità civile dei magistrati: il cittadino potrebbe chiedere il risarcimento dei danni direttamente al magistrato, invece di rivolgersi allo Stato. Abolizione della raccolta delle firme del magistrato che intende candidarsi al Csm, senza l’obbligo di iscrizione a una corrente della magistratura: avete presente “il sistema di Palamara”? Ecco, si abolirebbe quel sistema.
L’Associazione nazionale dei magistrati non l’ha presa bene, come si evince dalla preoccupante dichiarazione del presidente Santalucia: «Il fatto stesso che si porti avanti il tema referendario sembra esprimere un giudizio di sostanziale inadeguatezza dell’impianto riformatore messo su dal Governo; e fa intendere la volontà di chiamare il popolo ad una valutazione di gradimento della magistratura, quasi a voler formalizzare e cristallizzare i risultati dei vari sondaggi di opinione che danno in discesa l’apprezzamento della magistratura. Credo che spetti all’ANM una ferma reazione a questo tipo di metodo».
A me sembrano quesiti ragionevoli, in alcuni casi addirittura insufficienti. Ad esempio, limiterei la carcerazione preventiva ai soli casi di flagranza di reato. Per cui non comprendo questo timore, in presenza dell’esercizio di un diritto garantito dalla Costituzione (art. 75). Piuttosto, rilevo che sono altri i diritti del cittadino privi di reale garanzia: la presunzione d’innocenza e il diritto a non subire processi mediatici, sui quali il Parlamento dovrebbe porre riparo recependo finalmente la direttiva europea 2016/234. Oppure, il diritto del detenuto a non vedere calpestata la propria dignità in carceri spesso invivibili, come segnalano i numerosi casi di suicidi (61 nel 2020) e tentati suicidi, le condanne e i rimproveri subiti dall’Italia per la condizione delle sue prigioni.
L’iniziativa referendaria rappresenta un’opportunità da cogliere, non un ostacolo a riforme che possono invece trarre dalla spinta popolare maggiore slancio: «Da oltre 30 anni – ha osservato Irene Testa – il Partito Radicale chiede alla politica una riforma della giustizia. Il Parlamento in questi anni non ha trovato il coraggio di fare questa riforma, oggi la rivendica, anzi ci viene a dire che il Parlamento è sovrano e che la riforma della giustizia deve farla lui. Ben venga, ma noi nel frattempo abbiamo deciso, insieme a Matteo Salvini, di farla fare a 500mila italiani».
Non ho alcuna simpatia per Salvini, né mi interessa considerare se la sua è un’adesione strumentale: i radicali hanno tradizionalmente trovato estemporanei compagni di viaggio a sostegno delle loro battaglie. D’altronde è sempre valida la massima di Deng Xiao Ping: «Non importa se un gatto è nero o bianco, l’importante è che catturi i topi».

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