Il mio secondo padre

Molti pensano che Nino Altavilla sia mio zio, insomma che lui o sua moglie Eufemia siano fratello o sorella di uno dei miei genitori. Non è così e la storia che lega le nostre due famiglie è la testimonianza di come a volte i rapporti di amicizia siano più forti, più profondi di quelli di sangue.
Vorrei scrivere qualcosa di bello, oggi che Nino compie settant’anni, anche se so di correre il rischio di apparire agiografico o retorico. Due aggettivi che non si conciliano con la sua personalità riservata. Non apprezzerebbe. Probabilmente un po’ di fastidio lo proverà anche se verrà a conoscenza di queste mie parole: i festeggiamenti “in suo onore” non li ha mai graditi. Comunque capirà e mi perdonerà.
Come faccio a mettere da parte sentimenti che riempiono la mia vita dal 1977, da quando con i miei genitori e fratelli tornammo dall’Australia? Ce ne innamorammo allora, con Luigi e Mario. Abbiamo giocato sulle sue ginocchia, goduto della sua simpatia e del suo affetto smisurato, della sua naturale capacità di farsi amare dai bambini: nei miei nipoti oggi rivedo noi piccoli, che stravedevamo per lui.
Nella casa dei suoi genitori, nel cortile dove anch’io sono cresciuto, ho ascoltato le storie della dura alba del Novecento. Ancora, i racconti della sua infanzia, ricordi di bambini sgualciti del secondo dopoguerra che avevano sempre mondi nuovi da scoprire e avventure da vivere in spazi sconfinati. Spericolati o forse soltanto più liberi e geniali con i loro giochi di strada, la caccia ai nidi e alle lucertole, gli orti razziati, i bagni nelle fiumare. I mille mestieri dai “mastri” più disparati. Le avventure ardimentose con mio padre (la foto sotto li ritrae in piazza municipio) e con i giovani della sua generazione, quasi tutti poi emigrati. Come Nino, che all’inizio degli anni Settanta va a finire a Cuba: e mi sembra un eroe della Frontiera in sella al suo cavallo, allacciati agli stivali gli speroni in seguito regalati a mio fratello Luigi.
Ma non voglio raccontare Nino, né la forza di questi suoi settant’anni. Mi ha insegnato l’amicizia vera, quella che non si lascia sfiorare dal dubbio se sia il caso di lanciarsi contro il fuoco; quella fatta di parole di verità e di giustizia, sempre. Non si diventa casualmente punto di riferimento per fratelli, sorelle, nipoti, amici: occorrono saggezza, generosità, rispetto dell’opinione altrui, lealtà.
Un uomo “preciso” che pretende serietà e che in ogni circostanza sa pesare le parole, trovare i modi giusti, dare i consigli più opportuni: questo è Nino, il mio secondo padre.

Condividi

Il segnalibro

Mi prendo la libertà di darti del tu, anche se mi viene da sorridere: è proprio vero che la rete ci rende tutti più disinibiti, sfacciati se si vuole. Il prossimo sei novembre saranno sei anni senza di te. Sei lunghissimi anni, sei brevissimi anni.
Mi piace questa fotografia che ci ritrae nell’estate del 2009, alla presentazione del mio libro sulla storia politica e amministrativa di Sant’Eufemia d’Aspromonte. Era la “tua” Sant’Eufemia, io uno dei tuoi tanti ragazzi. Uomini e donne ormai, che ti fanno vivere nei ricordi scambiati ogni volta che il discorso cade su di te, il professore Rosario Monterosso. Un miracolo che ci fa sentire tutti compagni di banco, in barba alle rispettive appartenenze generazionali. Vento in faccia che non sferza, profumo di prati e di speranza: i nostri vent’anni. Ma forse sto divagando.
Mi piace questa immagine scolpita nel tempo, per sempre: tu guardi qualcosa, cerco di arrivarci pure io. Come nell’aula, incantato dalle tue spiegazioni. Tutt’orecchi. Rivedo il ragazzo che è cresciuto inseguendo il tuo sguardo, per capire dove si sarebbe posato, per cercare di vedere con i tuoi occhi.
La dea della memoria è figlia del cielo e della terra. Le vette del pensiero e la materialità dei bisogni degli uomini nei due luoghi che hai frequentato per tutta la vita, dove ci hai accompagnato tenendoci per mano. Divago ancora.
Ora è diverso. Cerco i sassolini che hai fatto cadere dalle tue tasche per trovare la strada, come nella fiaba. Tento di saltare dentro le tue grandi orme, un passo dietro l’altro, provo a seguirle nel bosco per riuscire ad uscirne. Chissà.
Ti vedo sui tuoi libri, che oggi continuano a vivere nella mia libreria e che spero un giorno possano continuare a respirare altrove, ancora. Sei nel tuo studio, dietro c’è il tuo amato orto. L’orto del professore contadino: il pomodoro da legare, le erbacce da pulire. Nella curva che ancora oggi mi fa rallentare per vedere se sei là, come un tempo.
Tra le parole lette e meditate nel tuo paradiso borgesiano c’è la tua firma: un’annotazione a margine, una sottolineatura, un segnalibro. Come la striscetta di cartone trovata nei racconti di Mario Rigoni Stern (Tra due guerre e altre storie), che conforta una mia antica consuetudine e che là resterà, dove l’hai messa tu:

Ora siamo sazi, abbiamo le nostre case, anche le nostre ferie, eppure mi pare manchi qualcosa. Così in questi giorni sono andato al cimitero. È un posto davvero tranquillo e sereno; senza chiasso. Si sentono il canto degli uccelli e il ronzio delle api. È lì che ritrovo la mia Antologia di Spoon River, dove «tutti, tutti dormono, dormono; dormono sulla collina». È lì che ritrovo parenti stretti, prossimi e lontani, gli amici, le amiche, le storie di tanta gente che ho conosciuto, storie buone e non buone. Non è che pianga o sospiri; a volte mi viene anche da ridere. Rivedo in quei nomi, in quelle date tanto della mia vita, della vita del paese, la storia grande e quella piccola. Avevano ragione i greci quando dicevano che le muse sono le figlie della Memoria.

Condividi

La presentazione del libro come l’ho vista e sentita

Cosa mi rimane della presentazione del libro? Se riavvolgo il nastro e riparto dalla fine, dalla composizione floreale che il giorno dopo ho portato al monumento dei caduti, la prima cosa che penso è che non l’avevo preparata. Non ci avevo pensato prima, ma a ben vedere è stata la cosa più naturale dopo un pomeriggio dedicato alla memoria dei soldati di Sant’Eufemia.
Tutto l’evento si è svolto con una linearità sorprendente, come se un regista ne avesse scritto la sceneggiatura. Ogni cosa al suo posto, ogni parola misurata, incastonata nel quadro di un pomeriggio per me indimenticabile. Eppure gli interventi non erano stati “studiati”. Nessuno di noi sapeva cosa avrebbero detto gli altri, al massimo ne intuiva il tema per grandi linee, in base al profilo dei relatori. Io stesso avevo un foglio con degli appunti da sviluppare, ma credo di averlo fatto soltanto per metà: alla fine, mi mancavano ancora parecchie cose da dire. Un pomeriggio volato via leggero, tra tantissime persone rimaste fino all’ultimo. Attente, coinvolte, emozionate.
Mi interessava legare la piccola storia a quella grande, come con la lettura della poesia di Giuseppe Ungaretti “San Martino del Carso”, un luogo che per gli studenti è il simbolo delle atrocità della guerra. Ma anche il luogo dove, nella stessa giornata (29 giugno 1916), morirono sei soldati di Sant’Eufemia, asfissiati dal fosgene e dal cloro dell’attacco chimico degli austroungarici. Corre una grandissima differenza tra “un” e “il”.
Ripenso alle notti trascorse al computer, spesso “ai computer” perché a lungo ho avuto bisogno di lavorare su due monitor. Sono soddisfatto perché ritengo di avere anche compiuto un atto di giustizia: tirando fuori dall’oblio due vittime della guerra i cui nomi non sono presenti nell’albo dei caduti, né tantomeno sono incisi sul monumento dei caduti (Giuseppe Ierico, Giuseppe Sofo); oppure “consegnando” alle rispettive famiglie le cartoline di Giovanni Siviglia e Antonino Sofo, scritte cento anni fa e mai giunte ai propri cari.
È stato toccante leggere l’emozione nei volti degli adulti intervenuti alla fine della presentazione per condividere con il pubblico i propri ricordi familiari. E mi ha riempito il cuore di speranza constatare l’attenzione dei giovani per quelle storie lontane che tanto hanno ancora da raccontare e da insegnare. C’è bisogno di sentirsi comunità e di poterlo rivendicare; di farlo pizzicando le corde giuste, sforzandosi di elevarsi dalla gretta quotidianità. Non esiste altra strada, se vogliamo sopravvivere a questi tempi così tristi.
Ripenso agli incoraggiamenti e all’attesa suscitati dagli “aggiornamenti” che ogni tanto pubblicavo sul mio profilo facebook: mi sono stati di grande aiuto. Non perché temessi di non farcela. La ricerca è stata lunga ma non pesante: niente è pesante quando si fa ciò che si ama. Ma è stato importante avvertire l’interesse di tante persone nei confronti del lavoro che stavo portando avanti.
I tanti messaggi ricevuti dopo la presentazione mi lusingano come uomo e come cittadino del mio paese, ancor prima che come studioso.
Tutto si tiene. Bisogna riuscire ad assecondare la propria indole, a coltivare le proprie passioni: scrivere, dipingere, recitare, suonare, cantare, ballare, praticare sport o qualsiasi altra attività. Se si fa del bene a se stessi, ci sono buone probabilità di fare del bene anche alla comunità nella quale si vive.

Condividi

Sant’Eufemia d’Aspromonte e la Grande Guerra – La recensione di StrettoWeb

SANT’EUFEMIA D’ASPROMONTE E LA GRANDE GUERRA: LA COLOSSALE RICERCA CHE RESTITUISCE UNA STORIA E UN’IDENTITÀ AI CADUTI.
In Calabria i giovani chiamati alle armi furono migliaia e Sant’Eufemia d’Aspromonte offrì alla causa nazionale centinaia di propri figli – Articolo di Monia Sangermano per StrettoWeb

Sant’Eufemia d’Aspromonte e la Grande Guerra, un tema ostico e complesso, ma sempre attuale quello trattato da Domenico Forgione nel suo ultimo lavoro di ricerca, tramutato in un libro che a breve sarà dato alle stampe. Ciò che è accaduto in un periodo storico tra i più caldi che la storia italiana ricordi ha cambiato la conformazione umana e sociale di quasi i tutti i comuni della nostra penisola, andando a rivoluzionare soprattutto le regioni del sud. In Calabria i giovani chiamati alle armi furono migliaia e Sant’Eufemia offrì alla causa nazionale centinaia di propri figli. Forgione, esperto e appassionato di storia, ha voluto raccogliere in un volume tutte le vite di questi eufemiesi, “accompagnandoli” nel loro percorso di guerra e di vita, che li ha portati in alcuni casi a tornare dalle loro famiglie e in molti altri a trovare la morte in terra straniera. Una morte che ha dunque privato la comunità di un consistente patrimonio umano e che oggi, dopo un secolo, può essere ricostruito e fatto conoscere a tutti grazie a questa approfondita ricerca.
“Le fonti che ho utilizzato – spiega Forgione che ha portato a termine una minuziosa e certosina ricerca durata oltre 4 anni – sono diverse: i ruoli matricolari, ovvero 256 volumi con tutte le classi dal 1875 fino al 1900; l’Ufficio notizie, creato nel 1915 con sede centrale a Bologna (per i militari di terra e di mare); l’ufficio anagrafe del Comune. Alcuni dei documenti che ho avuto modo di analizzare, in particolare quelli dell’Ufficio notizie, erano lacunosi, mancavano dei dati, ma incrociandoli sono riuscito a venire a capo di tante storie, tante vite che da Sant’Eufemia sono partite e in alcuni casi purtroppo non sono più tornate. Complessivamente le schede dell’Ufficio notizie sono sessantamila e io ne ho utilizzate circa 1.500. L’Ufficio anagrafe del comune mi è stato molto utile per lo stato civile e in particolare per il nome delle mamme di questi ragazzi: ci tenevo molto, per un senso di giustizia anche nei confronti di queste madri che hanno sofferto in silenzio e con grande dignità subendo il dolore più devastante che un essere umano possa subire”. In totale i soldati censiti dal ricercatore eufemiese sono 580, ma probabilmente i suoi compaesani che hanno combattuto la prima guerra mondiale sono di più, di molti però si è purtroppo persa traccia.
“Il libro – racconta ancora Domenico Forgione – è costituito da una prima parte di introduzione generale, dove spiego che cos’è l’ufficio notizie, quali campi di prigionia hanno “ospitato” i nostri militari, quali sono state le principali malattie veicolate da e per la guerra, racconto la vita della trincea e descrivo i soldati, uno per uno, indicando nome, altezza e altri dati che potranno sicuramente interessare. Inoltre ho inserito un’appendice che contiene qualche cartolina dal fronte, qualche foto e soprattutto i grafici con le statistiche.”. Un tuffo nel passato, dunque, quello di Forgione che aiuterà molti suoi concittadini a comprendere il loro stesso presente, anche solo ricercando, tra quei 580 nomi, un cognome familiare, un “marchio” di famiglia, una storia già sentita dai racconti dei nonni.

Condividi

Sant'Eufemia oggi

Magari è soltanto una mia impressione, una percezione temporanea destinata a svanire con le nuvole dei pensieri tristi. Forse è proprio così, vorrei che fosse così. Una visione amara dovuta ai cicli naturali della vita, che portano via figure di riferimento per un’intera comunità mentre l’orizzonte appare confuso: tempo di mezzo, tra un’epoca che sta per finire e un’altra che stenta ad iniziare.
Mi chiedo come sarà domani, se ci saranno giovani pronti a raccogliere il testimone e a proseguire il cammino dei tanti che ci hanno preceduto. Avverto una malinconica sensazione di riflusso, di ripiegamento su se stessi. Come se la visione d’insieme non conti nella formazione e nell’esaltazione dell’anima di un paese. Come se trama e ordito non abbiano bisogno di tenersi stretti per dare vita a un tessuto. Quel tessuto sociale oggi sempre più sfilacciato, debole.
Non si fa un buon servizio se si dice che viviamo nel migliore dei mondi possibili. Non si è onesti con gli altri, né con se stessi. Sant’Eufemia si sta impoverendo, nonostante la caparbia di quanti si oppongono a un declino che è sotto gli occhi di tutti. E non si tratta di politica, no. Quello semmai è l’effetto, non la causa. Le ragioni sono più profonde, strutturali: è un declino figlio della congiuntura storica contemporanea, della crisi economica ed etica che scava la roccia, giorno dopo giorno.
Un paese impoverito dai troppi salassi dell’emigrazione, chiuso anche fisicamente: che non prende aria, che non respira, che non vola. Negli ultimi anni sono scomparse associazioni storiche: l’associazione culturale “Sant’Ambrogio”, anni fa; la Pro Loco, più di recente. Neanche la squadra di calcio esiste più. C’è l’isola felice del “Terzo Millennio”, ma è un’eccezione: una vitale eccezione. Il resto è fatica e caparbia di chi non vuole arrendersi, encomiabili e da incoraggiare. Ma il pluralismo associazionistico è ricchezza e carburante prezioso per la crescita culturale e sociale di una comunità, anche quando mostra la faccia della sana competizione.
Il liceo scientifico ad ogni inizio di anno scolastico fatica a comporre la prima classe: e fortuna che ancora ci soccorrono i paesi vicini. I nostri figli sono per lo più fuori. Le strade e le piazze deserte sono una pugnalata al cuore, il certificato di morte che accomuna i piccoli centri interni dell’Aspromonte.
Non ho la soluzione in tasca: osservo, considero. Nel mio piccolo cerco di fare il mio “pezzettino”, come altri, perché aveva ragione Robert Kennedy: «Pochi sono grandi abbastanza da poter cambiare il corso della storia. Ma ciascuno di noi può cambiare una piccola parte delle cose, e con la somma di tutte quelle azioni verrà scritta la storia di questa generazione».
Credo che si dovrebbe cercare di amare un po’ di più il proprio paese (tutti: chi ci vive, chi ci torna ogni tanto, chi guarda da lontano). Chissà che non sia questo l’antidoto giusto.

Condividi

Il ritorno del Bikini

Correvano i favolosi anni ’80: giocavo a calcio (of course), a tennis, pedalavo sulla bici da corsa. E divoravo un numero spropositato di Bikini, un gelato prodotto dall’Algida che ho adorato. In teoria avrebbe dovuto fare concorrenza al Maxibon Motta, anche se era molto diverso. Metà biscotto, come bordo una cornice di cioccolato, la parte superiore bigusto (vaniglia e cioccolato), ricoperto di cioccolato croccante e granella di nocciole. Negli anni ’90 fu ritirato dal commercio e sostituito dal Magnum Sandwich (buono, ma tutta un’altra cosa): un trauma dal quale ho faticato non poco per riprendermi.
Ad ogni inizio di stagione (che ora in realtà non ha soluzione di continuità, mentre al tempo iniziava in maniera “istituzionale” in vista della ricorrenza di San Giuseppe) rivolgo al mitico Tonino, che da 35 anni fornisce il bar di mio padre, la stessa angosciata domanda: «Perché non mettono nuovamente in produzione il Bikini?». Una preghiera finalmente esaudita quest’anno, per la gioia di un bambino un po’ cresciuto.
A questo punto e visto che sognare non costa nulla, consiglierei all’Algida di riproporre il Magnifico (ignominiosamente ritirato dal commercio qualche anno fa), ma soprattutto il tartufo nella coppa di plastica marrone scuro: gelato al tartufo e nocciole tritate (e il cuore cremoso di cioccolato con un non so che di liquoroso). Sulle pareti della coppetta restava attaccato cioccolato duro, sul fondo un paio di millimetri spessi e spaventosamente squisiti. In assoluto, il mio preferito e il mio rimpianto più grande. Una nostalgia lacerante.
Se poi qualcuno volesse completare il sogno, ridatemi pure il Vasco di “C’è chi dice no”, Altobelli e Rummenigge all’Inter, Pertini al Quirinale, Goldrake e Shingo Tamai, Bud Spencer, i giochi di piazza e i muretti sempre occupati da decine e decine di ragazzi felici solo per quello stare insieme.

Condividi

Il custode di vite

Tutto quello che avevo da dire è sulle mie tele senza cornice. Mi siedo e le guardo, senza capirci più di tanto ad essere sincero. Ma quello era il mondo che mi portavo dentro, i fantasmi che in qualche modo mi circondavano e che mi facevano compagnia. Ora sono svaniti, andati via. Con i miei anni oziosi e con le mie ciocche bianche, stanche anche loro, impregnate della polvere e della muffa dei pochi metri quadrati di tre stanze su due piani.
Eppure ho anche avuto paesaggi luminosi e colorati nella testa, alberi e fiumi e cieli azzurri e tramonti rosso arancio che avevano bisogno di prendere aria. Per questo dipingevo. Per questo ero circondato da ragazzi stupiti che mi chiedevano come si fa, con quali pennelli, se olio o tempera.
Osservo tra le pieghe dei miei ricordi per ritrovare brandelli di vita: una nebbia metà sogno e metà racconto di favole antiche, attorno al braciere fumante bucce di mandarini.
Nella città grande c’ero stato, ma quanta fatica per lo spirito quando devi pensare solo alla pancia. Lavorare, mangiare, dormire. Tutti i santi giorni. E mai potersi riconoscere, con la spada del bisogno ondeggiante sopra la testa, minacciosa e opprimente. Non mi andava più di vendere cianfrusaglie nei mercati, non poteva essere vita quella. Non poteva essere la mia.
Non poteva essere la nostra, amore. Anche se non eri d’accordo. Ci salutammo come davanti alla bara: gelidi, già morti. Chissà cosa fai ora, se ci pensi ancora a quest’uomo strano, perso tra le nuvole e i colori di un mare che un tempo fu calmo.
Ti attendevo ad ogni estate, ricordi? Il compromesso durò poco, ma io ti aspetto ancora. Sì. Ti aspetto per una passeggiata in montagna o per il gusto di dividere quel piatto che ti faceva chiudere gli occhi. Tu felice come una bimba che assapora sui rami le ciliegie più grosse, quelle più rosse. Io a compiacermi dei quadri sparpagliati in pineta, il teatro afoso della caccia al tesoro con premio finale le mie visioni.
Sono sopravvissuto ai miei anni e ora voi vorreste seppellirmi. Davvero non capisco. Non capisco questo vostro cercarmi, le vostre preoccupazioni per un vecchio scorbutico ma desideroso di silenzio. Questo chiedere informazioni a vicini che odio. Che mi spiano dalle finestre per vedere cosa porto dentro le mie grandi buste.
Vorrei essere lasciato in pace, non sentirmi più addosso occhi inorriditi per i topi che sbucano rumorosi tra lattine, bidoni e sacchi gonfi, non appena entrate con il fazzoletto premuto contro il naso.
La mia missione è offrire un riparo alla solitudine del mondo. Raccolgo per strada cose che voi avete abbandonato e le conservo perché un giorno, forse, serviranno ad altri.
Bottiglie che hanno dissetato, cibo che ha sfamato, scarpe che hanno camminato.
Custodisco la vita che scivola via da mani distratte, per quando sarà ancora vita.

Condividi

Buono, non buono

Quando un anno sta per finire e un altro non è ancora cominciato, per dirla un po’ alla Marzullo, è tempo di bilanci e di nuovi propositi. Il 2017 che mi lascio alle spalle è stato un anno vissuto molto intensamente. Pertanto, molto positivo. Le emozioni sono una parte molto importante della vita: la rendono affascinante, degna di essere vissuta al di là delle delusioni e delle gioie che si provano. La reazione del momento è dettata dall’istinto, ma inevitabilmente tende a sfumare con il passare del tempo. Per questo occorre sempre cercare di guardare il bicchiere mezzo pieno, nutrirsi di positività. Tutto ciò che è accaduto fa di noi ciò che siamo ora e che non saremo domani, quando altra vita si aggiungerà a quella già vissuta. “Buono – Non buono” può essere un gioco, ma come tutti i giochi sa essere tremendamente serio.

LETTURE – «Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere vorresti che l’autore fosse un tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira» (J.D. Salinger, Il giovane Holden). Più o meno quello che avrei voluto fare con Stefano D’Arrigo, anche prima di finire la lettura di Horcynus Orca. L’avrei fatto ogni giorno, in questa estate 2017 che per me sarà sempre “l’estate in cui lessi Horcynus Orca”, opera sfibrante e sorprendente per la sperimentazione di un linguaggio nuovo ma arcaico allo stesso tempo, che lascia senza fiato dalla prima all’ultima pagina: un’odissea umana, ma anche “un’odissea della parola”. BUONO

ADDII – Ogni anno che passa è come fare l’appello a scuola, c’è sempre qualche nome in meno. Non vedremo più quel sorriso, non sentiremo più quella risata. Ma la vita va avanti e coltivare i ricordi e qualche insegnamento può aiutare a lenire il dolore di una perdita. NON BUONO

REGALO – Quello più bello, inaspettato: i libri del mio vecchio professore di storia e filosofia al liceo, Rosario Monterosso. Ed è emozionante pensare che, in qualche modo, i miei occhi si poseranno su quelle pagine che lui ha tanto amato. BUONO

DISAGIO – Viviamo in una realtà per certi versi insopportabile, regredita e degradata. Nella quale ogni giorno che passa è sempre più faticoso riuscire a riconoscersi. Si fa fatica e distinguere il reale dal virtuale ed è imbarazzante il livello di volgarità raggiunto nelle discussioni, se così può ancora definirsi l’aggressività del web. Ha ragione chi grida di più, chi la spara più grossa, chi copincolla fesserie prive di alcun fondamento. È la vittoria, amara, di Umberto Eco. NON BUONO

500 MESSAGGI NELLA BOTTIGLIA – Per diverse vicissitudini quest’anno ho scritto di meno, anche se nella seconda metà dell’anno ho cercato di recuperare e mi sono fermato a cinque post di distanza rispetto al 2016. Il 2017 è stato però l’anno del cinquecentesimo post, un traguardo che mi inorgoglisce. Da questo blog è passata tanta storia locale: gli avvenimenti più salienti, i suoi personaggi più importanti, ma anche il ricordo delle vite di donne e uomini comuni, spesso dimenticati. Per riconoscersi come comunità c’è bisogno di una memoria condivisa. BUONO

PAGINE DA DIMENTICARE – Da dimenticare, o forse da ricordare affinché se ne tragga il giusto insegnamento: gli incendi estivi che hanno distrutto i boschi attorno a Sant’Eufemia, l’inciviltà di chi continua a smaltire i rifiuti secondo il proprio personalissimo calendario, al netto dei disservizi che proprio in questo fine anno hanno accentuato la situazione di emergenza. Da dimenticare anche le polemiche imperversate per qualche giorno in occasione dei festeggiamenti della nostra Santa Patrona, nella nota vicenda dei fuochi d’artificio dell’Entrata. Alla fine tutto si è risolto per il meglio, ma un po’ di turbamento, onestamente, a me è rimasto. NON BUONO

ELEZIONI – In un piccolo paese come il nostro una campagna elettorale è una situazione “estrema”, quindi altamente formativa. L’ho affrontata con onestà intellettuale, ma soprattutto con serenità e lealtà. Le elezioni comunali costituiscono un’occasione unica di studio della natura umana, perché esaltano il meglio e il peggio delle persone. Da una parte sincerità, amicizia e rispetto, anche quando ci si trova su opposte barricate; dall’altra falsità, venalità e tornacontismo, ciò che alla fine realmente incide nelle scelte di alcuni, al di là della prosopopea dei tempi “calmi”. Ma tutto questo lo capisco, non mi sorprende. Non capirò mai, invece, l’atteggiamento di chi mischia politica e personale, di chi si volatilizza dopo anni di rapporti quotidiani, come se anche soltanto domandare “come stai?” possa essere compromettente. Eppure ho sentito tanto affetto in quei mesi, di certo superiore alla solitudine di qualche momento. BUONO

Condividi

Il cortile vuoto

Tempo fa mi ritrovai nel cortile della mia infanzia. Non c’era nessuno in quel momento. Con gli occhi chiusi cercai di andare indietro nel tempo, di ritornare a quegli anni, a quei volti, a quelle voci. La casa di mia nonna e tutto quel microcosmo a me così familiare. Di quel tempo non è rimasto quasi niente e nessuno.
Ora anche Micuzzu Papalia (“u grugnu”) è andato via, lui che sembrava eterno, lui che fino a qualche anno fa stava sempre per attraversare la Principe di Piemonte, con la sua giacca di pelle nera. Ma lui era abituato a camminare. Nella Seconda Guerra Mondiale dalla Libia era fortunosamente sbarcato a Bari e da lì era tornato a casa a piedi.
A piedi.
Che energia avevano quei giovani? Me lo sono sempre chiesto. Ho ascoltato i loro racconti incredibili e mi ripeto che là è la nostra storia, là dobbiamo trovare la forza per non rassegnarci mai. Ho ascoltato storie di gente che andava a lavorare in Aspromonte e lungo il viaggio leccava una sarda e mangiava pane: leccava e mangiava, perché la sarda se la doveva fare durare. Altri che sfregavano un pezzo di formaggio sul pane e mangiavano solo questo: il formaggio se lo dovevano fare durare. L’olio quando era possibile, nella bottiglia della gassosa: da fare durare anche quello, da utilizzare con il contagocce. E il sugo preparato con le lische del pesce stocco, perché solo quelle la povera gente poteva permettersi di acquistare.
Quando scrissi Il cavallo di Chiuminatto, a Sant’Eufemia una sola persona ancora vivente aveva visto Giacomo Chiuminatto. Quell’uomo era Micuzzu Papalia. Era un bambino nella metà degli anni Venti, ma ricordava perfettamente il periodo in cui fu completata la ferrovia con il ponte di ferro. Aveva una memoria talmente vivace da riuscire a mettere a fuoco un particolare curioso per chi ama la storia: ricordava la fascia rossa legata a una zampa dei cavalli da tiro impiegati per il trasporto dei carrelli carichi di sassi e di sabbia, in un mondo che oggi non esiste più.
Un mondo pieno di storie da ricordare. Storie minime. Storie di cantina e storie di putija negli anni delle “librette” fitte di nomi, pasta, pane e lire. Storie che Domenico e la moglie Concetta conoscevano bene, perché in quella rruga le avevano vissute in prima persona per lunghissimi anni. La rruga che è stata la mia prima casa, il mio mondo. Con i racconti di tutti quei giovani che ho conosciuto già anziani, ascoltati come lezioni da tenere bene a mente. Perché noi siamo anche quelle storie, non dobbiamo mai scordarlo.

Condividi

Disagio

Abbiamo già perso quando ci chiediamo: «ma chi me lo fa fare?». Eppure è difficile nascondere il disagio e la delusione, due sentimenti che spingono al disimpegno, a chiudersi nel proprio io e là trovare conforto. Nel piccolissimo di chi ha sperato di dare un contributo di passione e di valori, è un po’ quel che accadde tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, quando la disillusione prese il sopravvento sull’onda lunga del ’68, della contestazione, dell’esplosione di creatività degli anni ’70, ma anche delle grandi lotte politiche e sociali sfociate nel terrorismo. Gli anni del “riflusso”, furono definiti.
Eppure ci sarebbe bisogno di società civile: non quella dei convegni e delle parate, bensì quella che si rimbocca le maniche e cerca di fare qualcosa di buono per la collettività. Non ne sto facendo una questione di politica superiore, né di amministrazione locale: parlo in generale, anche se è evidente che i segnali di questo decadimento morale è possibile coglierli pure nelle nostre piccole realtà. Ci stiamo imbarbarendo, siamo diventati volgari, insopportabili, verbalmente violenti e incapaci di confrontarci con l’altro senza ricorrere all’insulto.
Ecco: viviamo in una realtà per certi versi insopportabile, regredita e degradata. Nella quale ogni giorno che passa è sempre più faticoso riuscire a riconoscersi. Nella quale molte delle cose in cui si è sempre creduto sono andate perse o non contano più niente. A cavallo tra due ere: una che è ormai in pieno declino, che forse è già morta tranne che nella testa di chi ancora ostinatamente cerca di coglierne qualche bagliore di luce; l’altra sempre più dirompente, una slavina che sta portando via tutto.
Una realtà fatta di scostumatezza e di gente senza alcuna idea di cosa significhi il termine “rispetto”, quello vero, non la loro idea di seconda mano, anche di terza, filtrata da un armamentario concettuale superato e vivo soltanto nei ricordi nostalgici di qualche anziano.
E poi l’ipocrisia delle anime belle, quelle che predicano grandi valori, valori che scompaiono quando entrano “in conflitto” con le proprie tasche. Perché quella è l’unica cosa che conta, il denaro. Per il denaro si può anche vendere l’anima al diavolo, in tanti lo fanno quotidianamente. E la cosa sconfortante è che troppa gente riconosce che, se solo si trovasse in quella situazione, farebbe la stessa identica cosa. Ci si gira dall’altra parte, si fa finta che non sia successo niente, sperando che domani possa andare meglio.
Disagio e delusione. Perché a nessuno può essere chiesto di diventare martire o giustiziere, quella è la vocazione degli eroi e “beati i popoli che non hanno bisogno di eroi”. Ma neanche si può mandare a quel paese mezzo mondo e cercare rifugio sotto una campana di vetro.
È questa la vera solitudine.

Condividi