Reggio è un blues… a Bagnara

Antonio Calabrò e Salvatore Bellantone hanno voluto farmi questo bel regalo, che ho accettato con molto piacere. E quindi sabato 29 marzo, a partire dalle ore 19:00, avrò l’onore di presentare a Bagnara l’ultimo libro di Calabrò, Reggio è un blues (Disoblio Edizioni).

Insieme all’autore e all’editore, ci ritroveremo presso la sede della Società operaia di mutuo soccorso, in via Antonio De Leo, con Mimma Garoffolo (presidente della Soms di Bagnara), Giuseppe Spoleti (assessore alla Cultura di Bagnara), Domenico Canale e Rodolfo Megale, i due musicisti che daranno all’evento quel tocco di originalità che da dicembre contraddistingue la tournée di presentazione del libro.

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Un cinghiale ferito non può far cambiare verso all’Italia

È successo che Renzi ha pensato bene di cominciare a “cambiare verso” all’Italia nominando sottosegretario alle Infrastrutture il senatore Tonino Gentile, da giorni nell’occhio del ciclone per la storiaccia delle pressioni al quotidiano “L’Ora della Calabria” per silenziare la notizia dell’inchiesta sugli incarichi legali all’Asp di Cosenza, che coinvolge il figlio Andrea.
È successo che, con sprezzo del ridicolo, esponenti di primo piano del Ncd calabrese hanno fatto a gara nell’esprimere soddisfazione e giubilo per la nomina del “cinghiale che se ferito ammazza tutti”: da Luigi Fedele a Nazzareno Salerno, da Daniele Romeo a Giuseppe Scopelliti. Senza imbarazzo alcuno.

È successo, questo ormai è evidente a tutti, che esiste un rapporto perverso tra stampa e politica che andrebbe spezzato. Perché un giornalismo sotto ricatto non potrà mai svolgere il ruolo di cane da guardia della democrazia. E alla fine di questa nauseabonda vicenda, a pagare potrebbero essere soltanto i tanti ragazzi che tra mille difficoltà si fanno il mazzo per inseguire un sogno.
È successo che ci saremmo aspettata una reazione feroce da parte degli esponenti del partito democratico, il quale (salvo rarissime eccezioni) risulta “non pervenuto” sulla registrazione della telefonata tra lo stampatore, nonché presidente di Fincalabra, Umberto De Rose e l’editore di “L’Ora della Calabria” Alfredo Citrigno. Imbarazzato ma taciturno, invece, sulla nomina di Gentile.

È successo che è impossibile che Renzi non sia stato informato su quel che è accaduto in Calabria nell’ultima settimana. Se, nonostante tutto, ha preferito piegarsi al diktat del suo alleato di governo, vuol dire che siamo di fronte all’ennesimo bluff. Ma sulle questioni di principio non si può esitare: la libertà di stampa è un principio costituzionale da difendere senza se e senza ma. Ad ogni costo. Punto.

Non ci sono altre strade per rimediare allo sdegno, all’imbarazzo, al disorientamento provocati da una scelta così spudorata: Gentile deve andare a casa perché, al di là degli eventuali risvolti giudiziari della vicenda che lo vede coinvolto, la sua presenza in un esecutivo che si definisce di rottura rispetto al passato non è opportuna. E i rappresentanti democratici calabresi in Parlamento, senza distinzione di corrente, devono assumere una netta posizione di intransigenza. Fino a quando non ci saranno le dimissioni o non verrà ritirata la delega a Gentile, dovranno togliere il sostegno al governo Renzi.
Se proprio non si riesce a cambiare verso, almeno si cominci a cambiare andazzo.

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Prima la politica

Come spesso accade per le cose del partito democratico, le primarie che avrebbero dovuto eleggere il nuovo segretario regionale in Calabria hanno registrato una coda inattesa. Neanche tanto, a dire il vero, considerato che già alla vigilia era data come altamente probabile l’eventualità che nessuno dei quattro candidati raggiungesse la maggioranza assoluta dei delegati. Cosa che puntualmente si è verificata. A norma di regolamento, la palla passa all’Assemblea. Non senza qualche coda polemica. Magorno contro Canale. Con il primo che si è fermato a soli due delegati dai 151 necessari per avere la maggioranza. E con il secondo che può a ragione ritenersi soddisfatto. Checché se ne dica, dall’altra parte c’era schierata la stragrande maggioranza dell’establishment dei vecchi democrats, politici di lungo corso ritrovatisi incidentalmente renziani a braccetto, anche fuori dalle insegne di partito, con coloro che più hanno da temere dall’affermazione di uomini e metodi nuovi: Sandro Principe, Marco Minniti, Mario Pirillo, Agazio Loiero, Luigi Incarnato, Peppe Bova, Antonio Borrello, truppe cammellate delle più svariate fogge. Avere impedito a Magorno una vittoria al primo turno, nonostante l’impari lotta contro questi vecchi volponi, per Canale è già una vittoria. L’altro dato a mio avviso confortante riguarda la provincia di Reggio Calabria, dove Canale (54%) ha stracciato l’avversario (45%) nonostante lo sforzo collettivo compiuto da tutti i big (esclusi Nino De Gaetano e Sebi Romeo) per contrastarne l’affermazione. Merito della novità della proposta, colta in particolare da quei giovani che hanno permesso gli exploit di Rosarno, Palmi, Bagnara, Siderno e, a leggere bene le situazioni, anche Gioia Tauro. Il futuro è segnato. Ritorni al passato, almeno in provincia di Reggio, non ce ne saranno. E questa è una prospettiva davvero interessante. Una prima, vera, vittoria.

Ora occorrerà ricomporre i cocci della campagna elettorale, stemperare i veleni di situazioni non limpidissime (Diamante e Belvedere Marittimo), ricercare un’unità di intenti che è indispensabile per affrontare con fiducia le prossime sfide: Europee, Comunali, Regionali.

Il 22 febbraio alle 16.30 Canale riunirà presso l’Hotel Euro Lido di Falerna i delegati, gli amministratori, i segretari di circolo e i sostenitori della sua lista per elaborare la proposta politica da presentare all’Assemblea. Un’altra storia deve necessariamente iniziare dai contenuti, non dalla conta congressuale. Da qui lo slogan #primalapolitica con il quale Canale ha lanciato l’evento.

Come circolo “Sandro Pertini” di Sant’Eufemia, cercheremo di dare il nostro piccolo contributo anche in questa occasione. L’abbiamo fatto giorno 16 con i 130 voti attribuiti a Canale, per i quali grande merito va ai compagni e amici Mario Surace, Enzo Fedele, Peppe Gentiluomo e Pasquale Napoli. E speriamo di continuare a farlo nelle sedi deputate, a partire dal coordinamento della Piana. Perché o la politica parte dal basso, o è altro.

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Con Massimo il Pd cambia Canale

Alle primarie per l’elezione del segretario regionale del partito democratico, domenica 16 febbraio, voterò per Massimo Canale. Una decisione, va detto, non influenzata da logiche geografiche o di campanile. Voto Canale non perché dei quattro in lizza è l’unico candidato proveniente dalla provincia di Reggio Calabria. Se così fosse, una banale scelta di opportunità e non di merito, si ricadrebbe negli errori del passato, nel localismo e nel personalismo che hanno determinato quattro devastanti anni di commissariamento. La ragione fondamentale è un’altra ed è serissima, perché ha a che fare con il futuro del Pd in Calabria, con il progetto di una nuova visione del rapporto tra partito e società.

La candidatura di Canale archivia antichi steccati correntizi e di campanile, non soltanto perché sostenuta trasversalmente da renziani, cuperliani e civatiani. Ciò che la distingue dalle altre proposte è l’apertura a tutta un’area storicamente di sinistra ma non iscritta al Pd, spesso molto critica nei confronti dei democrats, che in Canale vede il riferimento alto e rappresentativo dei movimenti, dell’impegno civico, della contrapposizione frontale al “modello Reggio”. D’altro canto, Canale ha già ampiamente dimostrato di riuscire ad intercettare consensi fuori dal recinto partitico, come attesta quel 10% in più ottenuto rispetto alle liste che sostenevano la sua candidatura a sindaco contro Arena. Non un grigio burocrate di partito, bensì l’espressione più avanzata della lotta politica e culturale contro la gestione scopellitiana del potere, che nelle primarie “aperte” (alle quali, cioè, potranno partecipare anche i non iscritti al partito) può ritrovare una buona occasione per manifestarsi.

Canale rappresenta ciò che fino ad ora il Pd non è mai stato. L’entusiasmo e la spinta di una massiccia componente giovanile nascono proprio dall’aspettativa di un partito aperto a quanto di meglio offre il territorio. Nascono dalla sensazione di avere finalmente aperto le finestre delle segreterie per farvi entrare aria fresca. Nascono dalla promessa di un nuovo protagonismo agli amministratori locali, perché un partito che si ricorda di esistere solo quando c’è da racimolare qualche voto per questo o per quel candidato non ha ragione di esistere.

Infine, non va sottovalutato un aspetto solo apparentemente secondario. Il partito democratico calabrese, lacerato dai veti incrociati e dalle primarie fasulle del passato, umiliato dalla lotta fratricida per lo strapuntino personale a costo della mortificazione delle energie locali, per chiudere con quella stagione e rilanciarsi ha bisogno di un segretario a tempo pieno. Come Massimo Canale, che ha escluso una sua candidatura nei prossimi appuntamenti elettorali ed ha assicurato l’impegno esclusivo per la cura del rapporto con il territorio e l’ascolto delle sollecitazioni della base, nell’ottica di un partito che sia realmente cinghia di trasmissione tra società e istituzioni, periferie e centro.

Domenica 16 febbraio, dalle ore 8.00 alle ore 20.00, il circolo di Sant’Eufemia “Sandro Pertini” allestirà il seggio elettorale “Sant’Eufemia-Sinopoli-San Procopio” nella sala della biblioteca comunale, all’interno del palazzo municipale.

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Le colpe dei figli ricadano sui padri

Vergogna, indignazione, amarezza. Sentimenti che esprimono rabbia per l’ennesimo atto di barbarie inferto, da noi stessi, alla nostra terra. Perché è comodo attribuire sempre al prossimo la responsabilità dei disservizi che quotidianamente tutti siamo in grado di constatare, con conseguente e sacrosanta irritazione. Dalle guerre puniche in poi, è sempre colpa degli altri. Sarebbe ora di smetterla con i piagnistei e cominciare a chiedere cosa facciamo noi per rendere migliore la terra in cui viviamo. Cosa fanno i nostri figli. E quanta responsabilità hanno famiglie e collettività per i comportamenti sbagliati di questi ragazzi.

Abbiamo trasporti da terzo mondo, su strada e su linea ferrata. D’accordissimo. Posti raggiungibili solo mettendo a rischio l’incolumità personale e con tempi biblici. Un’economia asfissiata dalla lentezza delle comunicazioni. Ci lamentiamo per le corse soppresse, per quelle che non ci sono e che andrebbero invece introdotte, per gli autobus che non funzionano. Giustamente.

Poi però, sempre a casa nostra, periodicamente i pullman vengono devastati: vetri sfondati, sedili divelti o, addirittura, qualche mezzo avvolto dalle fiamme, a rischiarare il cielo stellato. Ogni tanto, qualche conducente intimidito da chi non vuole pagare il biglietto o si è sentito offeso da un rimprovero “inopportuno”. Sempre omini sono, anche a quattordici o quindici anni: non è che il conducente può alzare la voce per cercare di ristabilire l’ordine, anche se quelli stanno smontando l’autobus o si divertono ad importunare i compagni di viaggio.

Non bisogna minimizzare quello che accade da troppo tempo su molti autobus di linea. Derubricare un atto vandalico a bravata commessa da ragazzini vivaci è intellettualmente disonesto. Bisogna chiamare le cose con il loro nome: delinquenti, inciviltà.
Ieri qualcuno ha pensato bene di tentare di incendiare l’auto di Antonio Melara, autista sugli autobus delle Ferrovie della Calabria nella tratta San Procopio-Sinopoli-Sant’Eufemia. Stamattina i pullman non sono partiti: servizio interrotto. La “colpa” dell’autista? Avere “preteso” che alcuni ragazzi pagassero il biglietto.

Altri studenti sono stati costretti a saltare le lezioni, i più fortunati sono stati accompagnati dai genitori. D’altronde, quando viene a mancare un servizio, a farne le spese è sempre chi non può ovviare a disfunzioni e inefficienze del settore pubblico. Si tratti di scuole, ospedali, trasporti. Se un giorno l’azienda dovesse malauguratamente decidere di sospendere la corsa, il danno maggiore lo patirebbe chi non ha altro modo per raggiungere Reggio.

In una società in cui nessuno è mai responsabile di niente (entrate in un qualsiasi ufficio pubblico e preparatevi al ping-pong da una stanza all’altra), sarebbe già una mezza rivoluzione inchiodare le famiglie alla responsabilità sull’educazione dei figli. Se un ragazzo allaga una scuola, taglia le gomme all’auto di un insegnante che gli ha dato un brutto voto, sfonda il vetro di un autobus, logica vuole che tocchi ai genitori risarcire materialmente il danno. E così deve essere.

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Libertà è… offrire un caffè!

In principio fu Giovanni Giolitti: “un mezzo toscano e una croce da cavaliere non si negano a nessuno”. Poi qualcuno aggiunse la stretta di mano, che il fascismo scoprì poco virile e antigienica; infine, toccò al caffè. In un celebre spot degli anni Ottanta, Pino Caruso rischiò di pagare caro un suo vezzo (“al signor Caruso, cuannu si l’arrimina, ci piaci sentiri u scrusciu d’a tazzina”): “mi sono rovinato, ora ci vuole il caffè per tutto il vicinato!”.

Niente a che fare, comunque, con le conseguenze nefaste che la passione per la miscela arabica procurò a Gaspare Pisciotta, il braccio destro di Salvatore Giuliano ucciso da un caffè dell’Ucciardone corretto con la stricnina, e al banchiere Michele Sindona, al quale nel carcere di Voghera fu servito un “lungo” al cianuro.

Ed è proprio per scongiurare rovesci economici che in alcuni bar ai clienti, da diversi anni, è vietato offrire. Si legge proprio così sugli avvisi esposti: “vietato”. Ma può esistere niente di più arrogante e offensivo? Perché levare anche il piacere di offrire a un amico un caffè o una bibita qualsiasi? Ogni volta che si invade il terreno della discrezionalità altrui, imponendo o vietando un comportamento, si compie una violazione della libertà. E violare la libertà, anche quella di offrire un caffè, è cosa molto grave.

Conosco l’obiezione: si tratta di un provvedimento necessario per contrastare gli scrocconi seriali. Quelli sempre in agguato nelle vicinanze del bar, pronti a lanciarsi dentro appena vi fa ingresso la vittima di turno. Quelli che ci rimettono due euro di benzina e un set di gomme dell’auto nell’attesa del momento propizio. Quelli che si spingono addirittura nella sala gioco, sperando che qualcuno alzi lo sguardo dalla biglia del biliardo o da una mano di carte strepitosa: “hai preso il caffè?”.

L’introduzione del divieto ha quindi fondate ragioni. Economiche, perché entri per un caffè e alla fine scopri che ti è costato dieci euro, dato che in certi posti offrire è quasi un obbligo (anche molto ipocrita, certo; ma tant’è). Morali, perché ti evita di pagare per qualcuno anche quando l’unico tuo desiderio sarebbe che la bevanda si trasformasse in un potentissimo lassativo.

E qui si arriva al nocciolo della questione. A pensarci bene, il divieto ha la stessa ratio dell’obbligo di utilizzare la cintura di sicurezza, non perché può salvarci la vita, ma perché altrimenti ci becchiamo la multa. Di indossare il casco sulla moto; utilizzare paletta e sacchetto per raccogliere gli escrementi dei nostri amici a quattro zampe (ma dalle nostre parti ancora ce n’è strada da fare); non lasciare per ore il tubo dell’acqua aperto ad allagare i balconi delle case; compiere o non compiere azioni per le quali basterebbe regolarsi seguendo elementari norme di educazione o di buon senso, senza ricorrere alla minaccia della sanzione o dell’imposizione arbitraria. È, in fondo, la stessa filosofia del “ce lo chiede l’Europa”. Ché se certe cose le decidessero “i nostri” gliela faremmo vedere. Ma l’Europa è l’Europa. E quindi, forse, non ci resta che confidare in una moratoria di Bruxelles, per avere di nuovo il piacere di pronunciare: “trasiti cumpari, u cafè l’aviti pagatu”.

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Il Sud è niente

“Se di una cosa non ne parli, non esiste”. Non sempre è così, ci sono assenze ingombranti e silenzi assordanti. D’altronde, per il Poeta “assenza” è “più acuta presenza”: lo sa bene Fabio Mollo, regista reggino all’esordio con Il Sud è niente, romanzo di formazione dell’introversa Grazia, interpretata dalla bravissima Miriam Karlkvist alla sua prima apparizione sul grande schermo.

L’assenza è quella di Pietro (Giorgio Musumeci), che nella versione familiare e ufficiale muore in Germania, dove si trasferisce per lavoro quando la sorella ha 12 anni.
Grazia, che “incontra” il fratello sotto l’acqua del mare dello Stretto, si convince che Pietro è vivo. Di sicuro, sente che il padre – Cristiano, pescivendolo rassegnato cui presta il volto Vinicio Marchioni, noto al grande pubblico come “il freddo” della serie televisiva “Romanzo criminale” – non le ha raccontato la verità.
“Con la verità ti puoi pulire il culo”, a Reggio Calabria. Perché la verità spesso non la puoi raccontare. Neanche se ti hanno ammazzato un figlio. Neanche se ti prendono la casa e ti costringono a chiudere l’attività commerciale, facendo ricorso ai noti ed efficaci metodi del sabotaggio sistematico. Neanche se ti “suggeriscono” di andare via, scappare lontano, al Nord.

Grazia attraversa la città in rabbiosa e ricercata solitudine, appena violata dal mormorio di dialoghi smozzicati, essenziali come il cast stesso del film: oltre a Grazia e Cristiano, Carmelo (Andrea Bellisario), figlio di giostrai che nell’incontro/scontro con Grazia offre una via d’uscita all’incomprensione; la nonna (Alessandra Costanzo), che racchiude nell’espressione hiatu meu l’essenza millenaria delle famiglie del Sud; Bianca (Valentina Lodovini), presenza per la verità quasi impalpabile, sulla quale forse si poteva osare di più.

Un silenzio carico di sguardi, pause, gesti, pronto a esplodere nella ribellione di Grazia, che indica la via stretta e accidentata del riscatto nello squarcio del velo di una incomunicabilità che è anche generazionale. Se speranza c’è (e il finale uno spiraglio esilissimo lo offre), ha volto di donna e urla capaci di spezzare le catene dell’omertà.

Scena più bella: il ballo sfrenato e liberatorio di Carmelo e Grazia nella pista dell’autoscontro.

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Sud e legalità, il nervo scoperto della storia italiana

Aldo Varano ha “approfittato” della nomina di Pina Picierno nella segreteria del Pd, con delega alla legalità e al Mezzogiorno, per toccare uno dei nervi scoperti della storia d’Italia, forse il suo peccato originale: “Al Sud non manca solo la legalità” (L’Ora della Calabria, 15 febbraio). Come non essere d’accordo? Eppure, centocinquanta e passa anni dopo l’Unità si continua a trattare la questione meridionale come questione criminale, a lottare contro l’illusione che, sbattuto in galera il delinquente di turno, non ve ne siano altri dieci in agguato. Se così fosse, per risvegliarsi nel migliore dei mondi possibili, in Calabria basterebbe commissariare tutti i Comuni (e siamo sulla strada buona), quindi passare alle Province e infine concludere il lavoro di bonifica con la Regione.

È l’idea che animava la Destra storica e i prefetti dell’unificazione investiti della “missione” di guadagnare alla causa nazionale le lontane e recalcitranti regioni meridionali attraverso le questure, il controllo asfissiante sull’attività degli enti locali, lo scioglimento delle amministrazioni per motivi di ordine pubblico, la manipolazione delle elezioni. È l’ispirazione della legge sulla repressione del brigantaggio, la famigerata “legge Pica”, che ignorava la considerazione “sorprendente” contenuta nella relazione (3 maggio 1863) del deputato pugliese Giuseppe Massari, segretario della Commissione d’inchiesta parlamentare sul brigantaggio meridionale: “Il brigantaggio è stato considerato come questione di forza, e quindi per combatterlo non si è saputo far altro di meglio se non contrapporre forza a forza. Ma in cosiffatta questione la parte militare è accessoria, è secondaria”.

Da allora, poco sembra essere cambiato. Se si escludono i laureati sfornati, che scappano o non vedono l’ora di scappare (o restano, conficcando a forza nei cassetti pergamene e sogni), il gap con il Nord è sempre materiale e culturale. Mancano infrastrutture per spezzare l’isolamento fisico e favorire la liberazione in loco delle tante energie e progettualità autoctone; manca la determinazione necessaria per riuscire a scacciare, in settori non marginali della società, la sensazione che l’antistato possa offrire più opportunità dello Stato.

Scopriamo l’acqua calda, ma servono politiche di sviluppo che non si risolvano nello sperpero di denaro per progetti senza prospettiva, l’affermazione del principio meritocratico sulla prassi clientelare e nepotista, la fine della confusione del diritto col favore. Ma soprattutto serve una collettiva assunzione di responsabilità, perché spesso le insufficienze dello Stato diventano l’alibi di complicità quotidiane, più o meno consapevoli, con il malaffare e con la cattiva amministrazione.

Su ZoomSud: http://www.zoomsud.it/index.php/politica/61362-l-intervento-sud-e-legalita-il-nervo-scoperto-della-storia-italiana.html

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Calabria d’autore – Incontro con Fabio Cuzzola

La mia seconda partecipazione a uno degli appuntamenti della manifestazione ideata da Antonio Calabrò ha confermato l’impressione suscitata la settimana scorsa, quando era toccato a Katia Colica accomodarsi sul divano del salotto ricavato all’interno di una sala della stazione ferroviaria di Santa Caterina. Senza trionfalismi, qua si sta scrivendo una pagina culturale importante per Reggio Calabria, che potrebbe aprire strade nuove, tutte da esplorare, sul rapporto tra territorio e cultura, luoghi e forme di fruizione.

Non è mia intenzione fare una recensione dell’evento che ha visto protagonista Fabio Cuzzola (Lou Palanca 2), anche perché ha già provveduto ottimamente Letizia Cuzzola per il sito di informazione locale ZoomSud.

Cuzzola è la mia prima conoscenza fatta sul web circa quattro anni fa, anche se ci eravamo già sfiorati nella “vita reale”, in occasione di un’iniziativa culturale poi non andata in porto. Siamo “fratelli di blog” e mi conforta verificare che su molte cose condividiamo lo stesso sguardo. Da questo punto di vista, mi sono sentito a casa nell’ascoltare ieri canzoni che fanno parte anche della mia “costellazione musicale”. Così come, senza scomodare Popper o Sartori, sottoscrivo in toto le considerazioni sui contenuti e sulle dinamiche che governano la televisione.

Ciò che colpisce, leggendo o ascoltando Cuzzola, è l’impegno civile che impregna ogni sua parola. Una storia che viene da lontano, dallo scoutismo, e si riflette nella sua missione di docente attento alla lezione di don Milani (il libro-documentario Soli e insieme. Viaggio nel mondo della scuola andrebbe fatto leggere e vedere ai detrattori della scuola pubblica e agli arraffatori di stipendi statali imboscati in certe aule).

Una storia che vive nel presente nutrendosi di due ideali potentissimi: rivoluzione e pacifismo. Apparente contraddizione che si scioglie nell’unica sintesi possibile, la strada indicata da Gandhi e Capitini: quella della rivoluzione pacifica.
Sembra quasi di sentirgli ripetere “vigiliamo”, verbo al quale Cuzzola spesso ricorre sul suo blog “Terra è Libertà”, che ci dà la cifra di un intellettuale non certo confinato in biblioteche e archivi. E poi l’umiltà, quel suo ritrarsi per lasciare spazio a uomini e fatti che solo grazie a lui vengono tirati fuori dagli scantinati della storia. Siano i cinque anarchici del Sud, sui quali si è appuntata l’attenzione di Carlo Lucarelli e del suo “Blu Notte”, i testimoni della rivolta di Reggio, o Luigi Silipo. “Da questo momento queste storie sono vostre”, ci dice senza falsa modestia e facendo un passo indietro – che è un po’ il senso della scrittura collettiva e dello pseudonimo Lou Palanca – per lasciare il campo a quelle vite, a quei sogni infranti, a quel messaggio di speranza in un futuro migliore.

*Per chi fosse interessato, la mia recensione dell’anno scorso al libro di Lou Palanca, Blocco 52

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Calabria d’autore – Incontro con Katia Colica

Il bello bisogna andare a cercarlo. Può così capitare di trovarlo in un posto impensabile come una stanza della stazione ferroviaria di Santa Caterina che i soci dell’associazione “Incontriamoci sempre” hanno trasformato in un piccolo gioiello.
Grazie alla felice intuizione di Antonio Calabrò, dall’8 novembre e fino al 20 dicembre ogni venerdì è un evento imperdibile, l’occasione per conoscere da vicino scrittori, giornalisti e artisti calabresi che onorano questa nostra regione.

Ieri è toccato a Katia Colica, scrittrice reggina che presta penna e sensibilità agli ultimi della terra, dando voce e dignità a chi, questa società, la dignità spesso non riconosce o calpesta.
Antonio Calabrò è a suo agio e scandisce con sapienza e leggerezza i ritmi dell’intervista: cambia registro di frequente, riuscendo così a tenere viva l’attenzione di un pubblico comunque concentratissimo. Si passa dai brani musicali alle citazioni cinematografiche, ai riferimenti letterari che Letizia Cuzzola utilizza come un passe-partout dell’anima. La formula è convincente, Katia Colica è gentile e generosa.
Novanta minuti volano in un soffio, aggrappati a “una scusa” da trovare ogni giorno “per restare” e continuare a lottare, tra i ricordi e le speranze di una confessione che ci ha fatto sorridere, riflettere, commuovere.

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