Vittorio Visalli, anche poeta

Forse non tutti sanno che Vittorio Visalli, nato a Sant’Eufemia d’Aspromonte il 15 ottobre 1859 e morto a Reggio Calabria il 27 giugno 1931, fu anche poeta. Il maggiore storico del Risorgimento calabrese è celebre soprattutto per due opere: I Calabresi nel Risorgimento italiano. Storia documentata delle rivoluzioni calabresi dal 1799 al 1862 (Torino, 1893) e Lotta e martirio del popolo calabrese. 1847-1848 (Catanzaro, 1928). Diede alle stampe anche diverse altre opere di carattere storico, i testi degli interventi pronunciati in conferenze tenute in tutta Italia e i volumi didattici di storia e di geografia scritti per gli alunni delle scuole elementari, delle scuole medie e delle classi inferiori del ginnasio. In anni più recenti l’editore Barbaro ha poi restituito alla comunità degli studiosi e agli appassionati di storia il volumetto Aspromonte (1995), curando la ristampa anastatica del lavoro che nel 1907 Visalli dedicò al ferimento di Giuseppe Garibaldi nel bosco degli “Zappineddi”, in contrada Forestali (29 agosto 1862).
Lo storico eufemiese ebbe riconoscimenti ufficiali già a un anno dalla morte, con la collocazione di un busto in bronzo presso la biblioteca comunale “Pietro De Nava” di Reggio Calabria, che custodisce anche i circa 1.500 volumi del catalogo “Donazione Vittorio Visalli”, mentre le carte utilizzate per la stesura delle sue opere storiche sono oggi conservate presso l’Archivio di Stato di Reggio Calabria (“Fondo Visalli, 1815-1893”).
Per niente noto è invece il Visalli poeta. Eppure esiste una sua raccolta di 47 componimenti (Semel), stampata presso la tipografia Giuseppe Lopresti di Palmi nel 1894 e oggi praticamente introvabile. Il titolo del volume fa riferimento alla sentenza latina semel in anno licet insanire (“una volta all’anno è lecito impazzire”), come lo stesso autore precisa spiegando “in breve e sinceramente” il motivo della pubblicazione del libro: «Non v’è uomo che durante la sua giovinezza non abbia sentito il bisogno di dare una capatina, più o meno fortunata, nel regno delle Muse; che non abbia sentito nel cervello una fioritura spontanea di poesia, cui l’esuberanza del sentimento e dell’immaginazione alimenta e feconda. Ed anch’io feci come tutti gli altri, e molti fogli rabescai di sonettini e canzonette e versi sciolti, che andavo qua e là disseminando nei giornali o su gli scrittoi di persone amiche, senza curarmi più che tanto delle loro vicende. Ma ora che la rigida prosa della vita e qualche filo bianco tra i capelli mi cominciano ad avvertire che giunge il momento di ammainare le vele, ora ho voluto mettere insieme alcune delle superstiti paginette, e conservarle come ricordo delle fuggite illusioni, dei dolori sofferti. […] È stata una follia? Non lo so dire. Ma se la sapienza antica tollerava che s’impazzisse una volta all’anno, SEMEL IN ANNO, tanto meglio posso chiedere scusa io se sbaglierò, almeno in materia di versi, questa sola ed unica volta».
Le poesie del giovane Visalli, suddivise in tre sezioni (“Calabria”, “Spigolature”, “Pagine grigie”), risentono delle influenze letterarie di fine Ottocento: rime di carattere storico, nelle quali emerge il contrasto tra i grandi ideali del Risorgimento e la miseria della realtà dell’Italia unita; versi che rimandano al classicismo carducciano; liriche intimiste o impregnate del sentimento panico della natura. I temi prevalenti: pene d’amore e gioie dell’amore, morte e vita. Ma anche la condanna dei costumi del tempo, che costituisce il nucleo centrale di alcuni dei componimenti presenti nell’ultima sezione. Ad esempio in “Fine di un monologo”, una sorta di omaggio al poeta Giuseppe Giusti, massimo esponente della poesia satirica nell’Ottocento e creatore del personaggio Gingillino:

È ver: la penna, la vanga, il martello
non dàn guadagno e sciupan molto presto;
più rende una levata di cappello
che non sei mesi di lavoro onesto.

Bisogna che s’appoggi ad un Lucullo
e divenga un suo servo, suo trastullo,
chi non vuole morir povero e brullo.

Strisciar bisogna come Gingillino,
lodare tutto, volgere il pensiero
secondo il vento, e star dimesso e chino
come salcio piangente al cimitero.

Ahimè, la mia colonna vertebrale
è dritta, è salda, e sarà sempre tale!
Mi toccherà finire a l’ospedale.

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Com’è triste Favazzina

Favazzina è uno dei miei luoghi dell’infanzia. Qua ho imparato a nuotare e a fare le gare di apnea, qua mi sono tuffato per la prima volta dagli scogli. Gli stessi scogli che, adolescente, esploravo a caccia delle patelle, da staccare con il coltello e divorare subito dopo una veloce sciacquata con la stessa acqua del mare.

Favazzina per me sono i miei fratelli e i miei cugini francesi, sarabanda giocosa con seguito di ombrelloni e borse frigo gigantesche con dentro di tutto. È mio padre che mi salva quella volta che scivolai in acqua da uno scoglio mentre, dall’alto, seguivo la sua caccia a un piccolo polipo. Perché il panico, a sette-otto anni può giocare brutti scherzi anche se sai nuotare. È la Toyota Corolla di mio zio Carmelo, nello stereo le musicassette di Johnny Hallyday per un mese di fila, mentre mia zia Gigì gli intima di andare piano non appena supera i 100 km/h: «Carmelò, doucement!».

Seguirono anni in cui smisi di andare a Favazzina. Ci tornai molti anni dopo e fu una piacevole scoperta ritrovarmi, insieme a tanti altri amici, nella stessa spiaggia che mi aveva visto bambino. Questa volta insieme ad altri bambini, ospiti dell’Orfanotrofio Antoniano di Sant’Eufemia, che per tutto il mese di luglio con i volontari dell’Associazione “Agape” accompagnavamo al mare. Una colonia estiva che per un decennio abbiamo organizzato portando bambini di Altamura e Napoli, ma anche disabili e ragazzini di Sant’Eufemia provenienti da nuclei familiari disagiati.
Da diversi anni la colonia estiva non la facciamo più a Favazzina, nonostante la comodità di un appoggio logistico in una casa a poche decine di metri dal mare e le sue particolari spiaggette “a misura di bambino”: non molto grandi, controllabili con un semplice colpo d’occhio.
In questa decisione ha pesato molto l’obiettivo stato penoso della “nostra” spiaggia, interessata tra l’altro da una progressiva erosione. Ci sono tornato ed è stato un tuffo al cuore. Niente è cambiato in tutti questi anni. Anzi, il degrado è, se possibile, aumentato.

E pensare che la spiaggia in questione è la prima che si incontra scendendo al mare dalla strada principale. In un’ottica turistica, un pessimo biglietto da visita: la strada d’ingresso dissestata e poi sassi su sassi, di dimensioni tali che piantare un ombrellone diventa un’impresa. Soltanto con l’intervento dei privati, quando decidono di pagare di tasca propria un ruspista, i disagi vengono alleviati grazie allo spianamento della strada e della spiaggia.

Vengono in mente i tanti bla-bla-bla sulle politiche per il turismo, quando sarebbe necessario – prima di tutto – che il turista in spiaggia riuscisse intanto a metterci piede. Dopo, che potesse anche piantarci un ombrellone e godere, finalmente, della bellezza del mare.

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Le Persefoni di Bova

Ieri a Bova c’è stata la Processione delle Palme con le Persefoni. Secondo alcuni antropologi questa Processione richiama il culto di antiche figure mitologiche (come Demetra e Persefone) e i riti preistorici delle grandi madri del Neolitico. Pertanto, i temi della Pasqua cristiana nasconderebbero tracce di riti propiziatori delle messi e della fertilità appartenenti a tradizioni più antiche, con le quali si festeggiavano appuntamenti importanti: il passaggio dall’inverno alla primavera, il ciclo della vita, il ciclo della donna, il rapporto tra Bova e le campagne circostanti.


Un culto che contiene riferimenti alle feste liturgiche del mondo ortodosso bizantino, anche se ora è rientrato totalmente nei riti cristiani della Settimana Santa.
Le Persefoni (o “Pupazze”), realizzate intrecciando le foglie di ulivo su steli di canna, vengono infine decorate con fiori, frutta e merletti.

*Un ringraziamento particolare alla dott.ssa Francesca Crea per le fotografie e per le preziose informazioni

**Per saperne di più sul mito delle Persefoni di Bova: http://www.calabriaonline.com/col/tradizione_folclore/tradizioni_religiose/pupazze-bova.php

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La stampa inglese, noi e la Salerno-Reggio Calabria

Leggevo ieri sul “Quotidiano del Sud” la notizia della critica ironica e spietata del giornale inglese “The Indipendent” a proposito dei lavori eterni sulla Salerno-Reggio Calabria, tornati ancora una volta d’attualità dopo la rassicurazione del presidente del Consiglio Renzi circa il loro completamento entro il 2016. Ho chiesto la collaborazione di Mario “il londinese” per una traduzione ottimale del pezzo firmato da Michael Day il 20 maggio (“Ultimo sforzo per l’autostrada italiana ‘eterna incompiuta’, a 50 anni dall’inizio dei lavori”), che pubblico. Insomma, al netto di qualche scontato luogo comune, il dato è che non siamo ben visti e che l’ironia degli inglesi sui ritardi nei lavori della nostra autostrada è purtroppo giustificata.

Nel 1966 Lunar 9 fu la prima navetta spaziale ad atterrare sulla luna, l’Inghilterra vinse la coppa del mondo, l’Italia aprì il primo tratto dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria.
Nel successivo mezzo secolo, le missioni spaziali hanno raggiunto obiettivi più importanti e l’Inghilterra non ha più vinto, ma incredibilmente l’Italia sta ancora, lentamente, lavorando alla costruzione dell’autostrada A3, generalmente conosciuta come “l’eterna incompiuta”.
La costruzione di quest’autostrada, 443km di distanza da Salerno, sud di Napoli, giù sino a Reggio Calabria, la punta dello stivale italiano, è stata condizionata da lavori non regolari, ritardi e scandali. I sindacalisti affermano che l’autostrada rappresenta l’incarnazione di tutto ciò che va male nel Paese, azzoppato dalla corruzione e dalla cattiva amministrazione: “l’autostrada è il simbolo di come le opere pubbliche siano gestite in Italia”, dice Stefano Zerbi, portavoce del Codacons, l’organizzazione che tutela i consumatori italiani.
Non è un segreto che l’autostrada parte dalla Campania, la casa della Camorra, e poi scende giù fino alle aree malfamate della Ndrangheta, che includono città come Rosarno e Gioia Tauro.
Se da un lato i mafiosi guadagnano milioni grazie a contratti di lavoro con ditte a loro affiliate, dall’altro fanno anche in modo che l’autostrada non disturbi le altre loro attività. Infatti, a circa metà percorso, sembra che l’autostrada torni indietro curvando goffamente su se stessa. Si dice che questa deviazione sia stata fatta per soddisfare la richiesta di un boss locale che non voleva che l’autostrada passasse troppo vicino alla propria villa.
Questa settimana però il primo ministro Matteo Renzi, che sembra essersi imbarcato nella missione di modernizzazione dell’Italia, dopo l’approvazione della riforma elettorale in parlamento ha espresso ottimismo: “Tutto sarà finito nel 2016!”. “Finiremo la Salerno-Reggio Calabria”, ha dichiarato a RaiUno. “Entro la fine del 2015 tutti i cantieri affretteranno i lavori e, al massimo entro il prossimo anno, l’autostrada sarà completata”.
Sembra che 3.000 operai stiano lavorando notte e giorno, sette giorni alla settimana, per velocizzarne il completamento.
In tanti però diffidano dai toni trionfalistici di Renzi, visto che dopo cinquant’anni ancora non è sicura la data di ultimazione dei lavori.
“È chiaro a tutti che solo un miracolo permetterà che i lavori siano completati tra un anno” afferma La Repubblica. Il quotidiano afferma infatti che alcuni documenti del ministero dei Trasporti indicano nel novembre del 2017 l’apertura dei 20 km di autostrada tra Laino Borgo a Campotenese.
“Sono sorpreso dalle parole del Primo Ministro”, dichiara Gigi Verardi, sindacalista della sezione calabra della Fillea-Cgil: “a nostro avviso, sono solo dichiarazioni propagandistiche”.
E anche se fosse “finita” l’anno prossimo o l’altro ancora, è probabile che 43 km di autostrada non avranno la corsia d’emergenza.
“Crederemo alla fine dei lavori quando lo verificheremo”. “E ciò significa con tutte le misure di sicurezza che sono state previste nel progetto”, aggiunge Zerbi.
Nel frattempo, il contribuente italiano continuerà a pagare di tasca propria, anche se ancora non avrà l’autostrada che avrebbe dovuto avere diversi decenni fa.

(Michael Day, The Indipendent, 20 maggio 2015. Traduzione in collaborazione con Mario Forgione)

Articolo originale:
http://www.independent.co.uk/news/world/europe/italys-eternally-unfinished-highway-enters-final-stretch–50-years-after-construction-began-10261986.html

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Giancarlo e Antonia, o dell’opportunità di diffondere immagini che commuovono il web

Un ragazzo che tiene sulle ginocchia la nonna ottantasettenne affetta da Alzheimer, abbracciandola come se la stesse cullando, un commento postato da Gioia Tauro un’ora dopo la mezzanotte di capodanno: “Anche questo è amore… non è stato il 31 dicembre migliore della mia vita forse… ma anche questo fa parte della vita… una volta mi tenevi tu sulle tue gambe adesso lo faccio io nonnina, senza vergogna e senza timore… per ricordare a tutti che la vita va vissuta e va combattuta… è facile scrivere parole su Facebook o altro… nella vita si deve essere presenti sempre e comunque… questo è il mio augurio per il 2015, la presenza di qualcuno accanto che ci possa proteggere e confortare ma anche essere felice e sorridente con noi”.

Sono loro i protagonisti della prima fotografia virale del 2015: “l’immagine che fa commuovere il web”. Ne parlano i giornali nazionali e la stampa straniera, in pochi giorni il post sfiora i 500.000 “mi piace”, ottiene più di 50.000 condivisioni e quasi 1.500 commenti. Commozione, dolcezza, amore in un mondo che fatica a difendere i valori autentici, semplici, che dovrebbero regolare le azioni quotidiane di ognuno di noi. I commenti parlano di buoni sentimenti e danno una spruzzata di ottimismo a questo inizio d’anno: non tutto è perduto se ancora ci sono giovani capaci di gesti d’amore come quello di Giancarlo Murisciano nei confronti della nonna Antonia.

Lo so che rischio l’impopolarità, ma la mia prima impressione non è stata questa. Riflettendo più a mente fredda ho poi pensato che forse qualche efficacia la diffusione dell’immagine potrà pure averla, che certamente il messaggio veicolato è positivo. So anche che l’impatto mediatico di una fotografia è superiore, e di molto, a quello di uno “stato” privo di immagine, contenente solo parole. Chiunque possieda un profilo Facebook può facilmente verificarlo.

Eppure non mi convince questo bisogno di rendere tutto pubblico, anche i sentimenti privati. Ha un retrogusto amaro. E non perché ciò debba per forza nascondere una forma di esibizionismo. Giancarlo ha fatto tutto con amore, non lo metto in dubbio. Però i soggetti deboli, si tratti di bambini, anziani, malati, vanno trattati con prudenza, delicatezza, pudore. Abbiamo assistito a campagne con protagonisti uomini e donne affetti da gravi patologie, volte alla sensibilizzazione dell’opinione pubblica sull’importanza di raccogliere fondi o per pretendere dalle istituzioni l’attivazione di politiche adeguate. Ma sono stati gli stessi soggetti in questione ad autorizzarne la diffusione. Nel caso di Antonia manca invece la volontà dell’anziana donna.

Sia chiaro: la preferenza per la strada della discrezione, quando si incrocia il dolore delle persone, non sottintende in me alcuno spirito polemico nei confronti di questa specifica vicenda. Nel caso dovesse un giorno capitare a me, so però che non avrei piacere a subire una decisione assunta da altri e lesiva, seppure in buona fede, del mio probabile desiderio di non mostrarmi in una condizione non rispettosa della mia dignità di uomo, quale un’immagine che rivelasse la mia incapacità di intendere e di volere.

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Muti, Cilea e un po’ di Sant’Eufemia sconosciuta

Le immagini della visita di Riccardo Muti al mausoleo di Francesco Cilea, a Palmi, hanno riportato alla mia mente una curiosità storica della quale forse non tutti sono a conoscenza. L’autore di Adriana Lecouvreur nacque infatti a Palmi il 23 luglio 1866, figlio dell’avvocato Giuseppe e di donna Felicia Grillo. Nelle sue vene scorreva però una parte di sangue eufemiese: quello della nonna Rachele Parisi, figlia di Francesco e Marianna Capoferro, la quale a 23 anni, il 2 giugno 1822, aveva sposato il ventottenne Francesco Cilea, medico originario di Pentidattilo. L’atto di matrimonio, redatto dall’allora sindaco di Sant’Eufemia Antonino Luppino, è conservato nel “Registro dei matrimoni” (anno 1822), presso l’Ufficio Anagrafe e Stato civile.

Un altro filo rosso che lega Cilea alle pendici dell’Aspromonte ci porta invece dritti a Nino Zucco: pittore, scrittore e scultore originario di Sant’Eufemia sulla cui opera l’8 aprile 2013 l’amministrazione comunale ha organizzato un convegno, grazie all’input arrivato da una serie di articoli e interventi che su questo blog avevano denunciato l’oblio ingiustamente calato su uno degli eufemiesi più illustri del Novecento.

Zucco fu infatti spesso ospite della casa del compositore palmese, sia a Roma che a Varazze, in provincia di Savona, dove Cilea trascorse gli ultimi anni di vita. È opera di Zucco il celebre quadro che ritrae il Maestro seduto al pianoforte. Così come il disegno a carboncino che ne riproduce il volto sofferente, a pochi giorni dalla morte.

Fu proprio grazie all’opera di convincimento di Zucco che la moglie di Cilea, inizialmente contraria, acconsentì di rilevare il calco del viso del marito per realizzarne la maschera funeraria.

A trent’anni dalla morte (1981), Zucco diede alle stampe il ricordo e il carteggio attestanti il rapporto “di profonda devozione da parte mia e di benevolenza e affettuosa amicizia da parte del maestro per me che durò fino alla sua morte” (Francesco Cilea. Ricordi e confidenze, Barbaro editore). Un’amicizia iniziata negli anni Quaranta, quando Cilea volle conoscere personalmente l’autore dell’articolo a lui dedicato dal quotidiano newyorkese in lingua italiana “Il Progresso Italo-Americano” del potentissimo Generoso Pope, sul quale a lungo scrisse anche il giornalista e critico musicale Nino Fedele, un altro eufemiese illustre.

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Perché voto Oliverio

Al termine di una telenovela estenuante e a dire il vero anche stucchevole, finalmente domenica 5 ottobre si terranno le primarie per scegliere il candidato del centrosinistra alla presidenza della giunta della Regione Calabria. Non era scontato che finisse così: chiunque segua con un minimo di attenzione le vicende politiche del partito democratico calabrese ha potuto verificare gli innumerevoli tentativi messi in campo più o meno strumentalmente per impedire il rispetto dello statuto del partito, che all’articolo 18 prevede lo svolgimento delle primarie per le cariche monocratiche istituzionali. Mesi a gettare sul tavolo il papa nero, quello bianco e l’altro arancione; chilometri su chilometri macinati tra via delle Nazioni a Lamezia e via del Nazareno a Roma, per trovare una quadra che semplicemente non c’era, come poi s’è visto. Non si è capito molto, purtroppo scontiamo un atavico deficit di chiarezza, ma tra quel poco c’è di sicuro l’ostilità pervicace di alcune frange del partito (segretario regionale in testa) nei confronti della legittima aspirazione del presidente della provincia di Cosenza Mario Oliverio, in campo già dalla primavera scorsa e con le carte abbondantemente in regola: ben 153, su 300, sono stati infatti i delegati regionali firmatari della sua candidatura.
Tra i candidati in lizza, considero Oliverio il più idoneo a guidare una regione complessa come la Calabria, principalmente perché dotato di un cursus honorum adeguato e del riconoscimento della bontà del suo impegno nelle istituzioni, come certifica l’apprezzamento unanime del lavoro svolto, da ultimo, a capo della Provincia di Cosenza. Esperienza che servirà molto più degli slogan, considerato che – finito il tempo della propaganda – poi bisognerà amministrare. Oliverio ha dimostrato di sapere governare: a questo si deve guardare quando si andrà a votare, non certo alla carta d’identità che di per sé può anche non significare niente. Il cambiamento vero va perseguito sul campo, nella guida di un ente che fa acqua da tutte le parti e che ha l’assoluta necessità di recuperare in credibilità. Altrimenti il cambiamento rischia di rivelarsi una bandiera sventolata in campagna elettorale e subito dopo riposta nel cassetto dei buoni propositi. La ragione per cui scelgo Oliverio, in definitiva, risiede nella sua affidabilità amministrativa.
Di Gianluca Callipo non mi convince la trita riproposizione dell’armamentario propagandistico renziano, lo scimmiottamento su scala locale del modus operandi del presidente del consiglio, il generico e ostentato richiamo al “cambiamento”. Indispensabile come l’aria, certo. Ma a partire dal rapporto con gli elettori, se non si vuole che rimanga parola vuota. Cambiamento significa, ad esempio, mettere chiarezza su “chi sta con chi” e porre fine ad atteggiamenti ambigui. Il trasversalismo della campagna per le primarie di Callipo, da questo punto di vista, è davvero imbarazzante. E prima o poi occorrerà aprire una discussione sull’opportunità di primarie condizionate dal voto di non iscritti ai partiti del centrosinistra. Personalmente, non mi rassegno all’idea che le “nostre” primarie possano essere inquinate dal voto di settori del centrodestra, oggi disorientati dal fallimento di quello schieramento e alla ricerca disperata di una nuova verginità politica. Transumanze dettate dall’opportunismo e che niente hanno a che fare con le ragioni ideali della politica. Votare Oliverio vuol dire anche sbarrare la strada al trasformismo dei gruppi di potere cresciuti a pane e inciuci.

* A Sant’Eufemia d’Aspromonte il seggio sarà allestito all’interno del Palazzo municipale, domenica 5 ottobre dalle 8:00 alle 21:00.

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Sulla vicenda dei Bronzi la penso così

Puntuale come il cd autunnale di Mina, l’estate 2014 ha portato in dono il sempreverde dibattito sulla trasferibilità dei Bronzi di Riace. Questa volta ci ha pensato l’ambasciatore per le Belle arti di Expo 2015 Vittorio Sgarbi a rispolverare la vexata quaestio, prima proponendo l’idea di un tour meneghino per i due guerrieri greci in occasione dell’esposizione universale e poi traducendo l’auspicio in una richiesta ufficiale – sottoscritta insieme al presidente della Lombardia Roberto Maroni – al ministro della Cultura Dario Franceschini, il quale ha preannunciato la costituzione di una commissione di esperti per decidere sulla trasportabilità delle due statue. Neanche a dirlo, la polemica è divampata immediatamente. Molte le reazioni stizzite: “chi vuole vederli deve venire a Reggio, a Milano si porti il David di Michelangelo e vediamo cosa dirà Renzi in proposito”, il senso di quelle più concentrate sul campanile. Non sono mancati però i possibilisti: “sarebbe una bella pubblicità per la città e una buona occasione per guadagnarci qualcosa”. D’altronde, dai sei mesi di visite al Padiglione numero 1 che dovrebbe ospitare i Bronzi, Sgarbi ipotizza un incasso di 15 milioni di euro, un terzo dei quali – assicura – potrebbe essere destinato alla città di Reggio.
Inevitabili, poi, anche le remore sulla fattibilità di scarrozzare le due statue senza rischiare di danneggiarle. Questo sì problema sul quale non ci si può dividere e preliminare rispetto a qualsiasi altra considerazione.

Assodata quindi la priorità della loro salvaguardia e al netto delle guerre di religione tra chi è pronto a fare le barricate per non spostarli dal museo di Reggio Calabria e chi è disposto ad accettare di spedirli in giro per l’Italia o per il mondo, il dato da cui bisogna partire, senza pregiudizi, è che i Bronzi – ora come ora – non creano turismo culturale, né indotto economico.
Perché è un bel dire “i turisti devono venire qua”, quando la verità inconfutabile è che i turisti a Reggio non vengono. Chi ha competenze tecniche e responsabilità di governo su questo dovrebbe confrontarsi, in modo da elaborare una proposta seria e realizzabile entro un paio d’anni. Avvitarsi perennemente in un dibattito inconcludente non risolve il problema; semmai, diventa un alibi all’inefficienza di chi doveva fare e non ha fatto, per negligenza o per incapacità. E, quindi, sarebbe forse più utile concentrarsi su come agire per rimuovere i molti ostacoli strutturali e incoraggiare il flusso turistico a Reggio.
Si potrebbe ad esempio pensare all’istituzione di una commissione per il rilancio e la valorizzazione del museo della Magna Grecia, composta da soggetti istituzionali e esperti del settore, alla quale affidare l’incarico di elaborare un progetto organico di sviluppo culturale della città in grado di colmare il gap di ricettività del territorio e di fruibilità dell’arte che Reggio sconta nei confronti di altre realtà nazionali e internazionali. Magari facendo ricorso proprio ai fondi garantiti dalla tournée dei Bronzi a Expo 2015 o da altre, limitate nel tempo, da svolgersi nell’ambito di eventi di eccezionale partecipazione.

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Una scuola da difendere, senza se e senza ma

Ciò che saremo è, per lo più, ciò che siamo stati. Ecco perché periodicamente la scuola si ritrova al centro del dibattito sul futuro della società. In genere ci finisce dopo qualche episodio spiacevole, esecrabile, vergognoso. Aggettivi appropriati per definire l’aggressione subita da Rosanna Gallucci, vicepreside del liceo classico “Telesio” di Cosenza, ad opera dei genitori di una quattordicenne fresca di bocciatura.
Si dirà che è un caso isolato, che può capitare. Che si tratta di una famiglia emarginata. Lo sosterranno anche altri genitori e altri studenti. Ogni volta che accettiamo una spiegazione-giustificazione del genere facciamo un danno incalcolabile ai nostri ragazzi, a noi stessi e alla collettività. Perché è evidente, al di là del caso specifico, che si è innescato un pericolosissimo corto circuito nel rapporto tra scuola e famiglia. Le due principali agenzie educative non riescono a parlarsi, ma soprattutto non riescono a riconoscere e a rispettare i rispettivi ruoli, che dovrebbero essere distinti e convergenti, non confusi e sovrapponibili. Ci sono i docenti e ci sono i genitori: l’uovo di Colombo è che ognuno faccia il proprio mestiere, senza invasioni di campo.
Nessuno si augura il ritorno degli insegnanti dallo schiaffo facile, i ceci sotto le ginocchia, le bacchettate, i pizzicotti e le orecchie tirate fino alle lacrime. Non è per questa via che la scuola riacquista autorevolezza, il grande assente nelle istituzioni scolastiche di oggi. Un’autorevolezza che non viene riconosciuta anche per una semplice, errata, deduzione. Molti dei genitori attuali hanno lo stesso titolo di studio, se non addirittura più alto, di quello dei docenti dei propri figli: “chi è quel docente, che ne sa meno di me, per valutare i miei figli?”, una frase che capita di sentire o leggere in sguardi stizziti.

Mentre un tempo i ragazzi venivano “affidati” a maestri e professori con smisurata fiducia, oggi vengono “parcheggiati” a scuola con supponente diffidenza. Tanto, nella maggior parte dei casi il pezzo di carta arriverà, in un modo o nell’altro, docenti o non docenti. Per cui, se qualcuno fa notare che va avanti solo chi lo merita, può ritrovarsi sbattuto a terra, preso a calci e pugni, piegato da un modello di società fondato sui vincenti, non sugli sfigati bocciati al primo anno di liceo. Occorre ripartire da una filosofia che contempli la possibilità dell’errore, che consideri utili i fallimenti personali e professionali, che indichi nella caduta il primo passo verso un nuovo e più maturo riscatto.

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Con Reggio è un blues a Bagnara

Per chi non c’era, il testo del mio intervento alla presentazione del libro di Antonio Calabrò, Reggio è un blues, presso la sede della Società Operaia di Mutuo Soccorso, a Bagnara Calabra. La foto è tratta dal profilo facebook di Ginevra Hepburn

Ho incrociato Antonio Calabrò sei mesi fa, grazie alla sua rassegna “Calabria d’Autore”, un’iniziativa culturale di successo portata avanti in collaborazione con l’Associazione “Incontriamoci Sempre” di Reggio Calabria in quello splendido gioiellino che è la stazione ferroviaria di Santa Caterina: una struttura abbandonata che l’Associazione presieduta da Pino Strati ormai da anni ha restituito alla collettività, rendendola uno dei luoghi culturalmente più vivaci di Reggio.
Antonio Calabrò è tante cose, tutte molto intriganti: scrittore, giornalista di punta del giornale online ZoomSud, simpatico cultore di quella musica che sembra arrivare dal mare e che lui raccoglie e rilancia dal suo “Balcone sullo Stretto”. Ma anche agitatore culturale, un vulcano di idee che si traducono in iniziative di riconosciuta qualità. Calabrò rappresenta uno dei tanti volti belli di quella Reggio che egli stesso definisce “bella e dannata”.
Conoscevo già, invece, Salvatore Bellantone. Avevamo avuto un “contatto” un paio d’anni fa e la cosa che mi colpì nel nostro primo incontro furono le sue parole: “voglio fare l’editore, qui”. Nel mondo della piccola editoria, è un’affermazione molto coraggiosa, perché spesso si finisce con il diventare semplici stampatori.
Bellantone invece ha coraggio e talento. E quindi fa l’editore, qui: legge quello che gli propongono o che lui stesso intuisce possa essere meritevole di essere divulgato e se la sua valutazione è positiva, pubblica. I volumi di “Disoblio” sono l’esito finale di un’operazione editoriale molto attenta ai contenuti, che devono coincidere con la “mission” di questa giovane casa editrice: valorizzare le energie e le risorse locali, portare alla luce quel patrimonio culturale del territorio che va ricercato con pazienza certosina. Perché esiste, Bellantone lo sa, però va cercato con quella lanterna che è il simbolo di “Disoblio” e che, in fondo, fa svolgere alla casa editrice la stessa funzione etica delle biblioteche in Marguerite Yourcenar: granai nei quali vengono ammassate le riserve contro “l’inverno dello spirito”. Un’attività che è culturale e sociale. E che pertanto va incoraggiata e sostenuta.
“Reggio è un blues”, quindi. Calabrò aveva già avuto modo di farsi apprezzare nel 2005 con Johnny Rolling. Una gioventù di musica, battaglie e amori nella Calabria degli anni ’70, un libro sulle passioni e sulle contraddizioni della generazione post-sessantottina; e nel 2010 con Un libro ci salverà, un titolo che ci dice molto sulla vera natura di Antonio Calabrò. Un ottimista irriducibile: anche quando la realtà che racconta è amara e dolorosa, Calabrò concede uno spiraglio alla speranza, alla convinzione che la strada del bello esiste e che spetta a noi cercarla e percorrerla.
Calabrò è giornalista e scrittore. La tempestività è quella del cronista di strada. Leggendo ZoomSud a volte mi chiedo: “ma come ha fatto a scrivere già un pezzo su quell’avvenimento, se si sa qualcosa da neanche un’ora?”. Antenne dritte, fiuto e penna fluida. Queste sono le doti dei grandi giornalisti. Che, ovviamente, non inficiano il giudizio sullo “scrittore”: semmai, ne arricchiscono il profilo. Perché è anche vero che Calabrò “narra” la realtà che lo circonda mettendoci tutto se stesso. Il suo non è mai un racconto asettico. La passione trasuda da ogni parola utilizzata per raccontare storie e drammi di questa martoriata e splendida città che è Reggio. Una città sempre in bilico tra salvezza e dannazione, che Calabrò racconta senza farsi prendere la mano né dalla retorica indulgente e fatua, né dal qualunquismo parolaio di chi è bravo soltanto a criticare senza mai sporcarsi le mani per migliorare la società in cui vive. Una scrittura “impegnata”, quindi, perché le parole non sono involucri vuoti, ma lo scrigno di emozioni e sentimenti che vanno tradotti in energia positiva.
Da attento osservatore, Calabrò rileva le storture, le contraddizioni, i difetti della sua città. È proprio dalla constatazione di ciò che rende Reggio brutta e invivibile che occorre ripartire: gli scempi ambientali, il malaffare, la ’ndrangheta. Ma anche dalla deriva etica di una società che sembra avere smarrito la bussola dei vecchi e sani valori. Nascondere la polvere sotto il tappeto non serve. Ecco perché i racconti di Calabrò sono un costante invito alla responsabilità. Senza una collettiva assunzione di responsabilità, ogni sforzo si rivelerebbe inutile.

La denuncia si accompagna quindi alla proposizione di esempi di bellezza pescati nell’attualità o nel passato della storia della città. Il ricordo diventa resistenza, ribellione e speranza. Anche quando racconta il disastro materiale e morale di Reggio, l’autore lo fa offrendo la possibilità di un’altra città. Non tutto è perduto, ma solo se ci rendiamo conto di ciò che siamo diventati possiamo darci un orizzonte di speranza e confidare in un futuro migliore.
Calabrò utilizza diversi registri di scrittura: l’arma sottile dell’ironia, quella romantica della nostalgia per i bei tempi andati, quella asciutta della fedeltà a una rappresentazione mai edulcorata. La sua sensibilità è attratta da storie dimenticate che hanno spesso come protagonisti i “vinti”: storie che racconta con “compassione”, che è la capacità di “patire con”, di sentire cioè sulla propria pelle la sofferenza altrui. Il dramma delle vite stentate degli ultimi, la crisi economica e quella etica del gorgo che ci sta risucchiando: siamo più soli e più arrabbiati, in un mondo dominato dall’egoismo e dall’edonismo.
Come un vecchio menestrello Calabrò racconta storie ascoltate chissà dove e chissà quando. Il suo rapporto con Reggio Calabria rimanda a quello tra Jorge Luis Borges e Buenos Aires, alla profondità e alla magia di un’affermazione ripresa da Leonardo Sciascia in riferimento alla sua amata Racalmuto: “Ho l’impressione che la mia nascita sia alquanto posteriore alla mia residenza qui. Risiedevo già qui, e poi vi sono nato”.
Storie dimenticate e una città che purtroppo non esiste più. La Reggio non ancora violentata da una cementificazione selvaggia; la Reggio non ancora umiliata da due terrificanti guerre di ’ndrangheta; la Reggio non ancora saccheggiata da una classe dirigente inadeguata e truffaldina, la Reggio dei mestieri; la Reggio dei “rioni”: il “Pescatori”, il “Ferrovieri”, il confine geografico del Calopinace, sorta di “via Emilia” nell’accezione gucciniana di limite estremo nella Modena del secondo dopoguerra, al di là del quale c’era il “West”.
Ricomporre le tessere di questo antico mosaico non è ginnastica per la mente, bensì corrisponde ad un maturo impegno civile. Nella ossessiva ricerca di conferme di un passato diverso da questo triste presente emerge il tema principale dei racconti di Calabrò: l’amore incondizionato per la propria città, che l’autore dichiara senza giri di parole: “è la potenza dell’amore che mi spinge a criticare Reggio e perfino ad odiarla”.

Perché amare non significa coprirsi gli occhi o nascondere la realtà. Amare significa non arrendersi al declino; significa grattare il passato per togliere la polvere dell’oblio da avvenimenti e persone, trarre insegnamento da vicende minime ma emblematiche.

Reggio è un blues è amore, nostalgia, delusione, dolore. Ma è soprattutto un messaggio di speranza. Reggio non può essere “quella” che incendia il Museo dello strumento musicale (“lo stesso fuoco della biblioteca di Alessandria, lo stesso fuoco dei roghi nazisti”). Reggio è la fiumana di gente che reagisce riversandosi nelle strade, che suona, balla e canta per non darla vinta alla barbarie. Perché Reggio è un blues, la musica del riscatto.

Un riscatto nel quale Antonio Calabrò, nonostante tutto, continua a credere. E noi con lui.

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