L’Unità d’Italia tra mito e controstorie

L’Italia del 1861 non era certamente una democrazia compiuta, ma era pur sempre uno Stato che consentiva al Sud, tanto per entrare a piedi uniti nelle polemiche di questi giorni, di uscire da una realtà per certi versi ancora feudale. Il revisionismo storiografico degli ultimi tempi e, soprattutto, la strumentalizzazione politica che con molta malizia viene da più parti fatta, sembrano condurre invece alla conclusione che quasi ci si debba vergognare del Risorgimento e che forse sarebbe stato meglio non unificare il Paese. Per essere chiari, io non credo che il revisionismo in sé costituisca un male. I fatti storici sono sempre rivisitabili ed è naturale che più carte inedite escono dagli archivi, più la storia va riscritta alla luce delle nuove fonti. Ma su alcune questioni di fondo non ci dovrebbero essere dubbi. Giampaolo Pansa, per esempio. I suoi lavori sugli eccessi della Resistenza vanno bene se si vuole dire che anche tra chi fece la Resistenza vi furono dei criminali, non vanno bene se si vogliono mettere tutti sullo stesso piano, perché è innegabile che da una parte si lottava per la libertà, dall’altra per la dittatura nazifascista. Su questo non si può transigere: il giudizio storico è definitivo, né può essere messo in discussione. Con le luci e le ombre che sono inevitabili in processi tanto straordinari quanto complessi.
Purtroppo, spesso a prevalere è la bassa strumentalizzazione politica. Ho letto pure io Terroni, di Pino Aprile. Non c’è dubbio che il libro aiuti a comprendere le ingiustizie e i crimini commessi contro il Mezzogiorno. Ma ha ragione Vittorio Cappelli, quando precisa che “dire che una fantomatica storia ufficiale abbia trascurato o nascosto la drammaticità e il peso del brigantaggio e della questione meridionale è una sonora sciocchezza”. Senza dire che il metodo di Aprile, dal punto di vista scientifico, non è correttissimo. Le testimonianze “si parlava di 1.000 morti” non sono verità storiche. Se dai registri parrocchiali di Pontelandolfo risultano 150 vittime, mentre per la tradizione orale si arriva anche a 9.000 e si utilizza il dato più alto, si vuole sostenere una tesi polemica (e forse politica), non certo fare storia.
Giordano Bruno Guerri, autore di un libro, Il sangue del Sud, che si inserisce anch’esso nel filone “revisionista” premette che “occorre continuare a considerare il Risorgimento un atto fondamentale, necessario e benigno, della storia d’Italia, pur con tutti gli errori e le colpe che accompagnano gli eventi epocali”. Condivido in pieno.
Non è intellettualmente onesto insinuare, dietro il legittimo tentativo di ricostruire anche le pagine più oscure della nostra storia, un giudizio di valore sull’unificazione che, diciamolo chiaramente, serve soltanto per fare il gioco della Lega. Si poteva fare di meglio? Certamente. Ecco perché non giovano le mitizzazioni e la retorica risorgimentale, ma neanche alcune improbabili “controstorie”. Per quanto mi riguarda, risolvo la questione “all’inglese”: giusto o sbagliato, questo è il mio Paese.

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Convegno sull’Unità d’Italia

In collaborazione con l’Istituto superiore “Enrico Fermi” di Bagnara Calabra, l’associazione “Terzo Millennio” ha organizzato un convegno che si svolgerà domenica 20 marzo alle 17.00, presso il teatro della scuola media “Vittorio Visalli”: 1861-2011. Risorgimento nazionale e Risorgimento locale nel 150° anniversario dell’Unità d’Italia. Introdurranno i lavori Francesco Luppino, presidente dell’associazione e coordinatore dell’iniziativa, e Angela Maria Palazzolo, dirigente scolastico dell’Istituto “Fermi”. Seguiranno poi i saluti delle autorità: il sindaco di Sant’Eufemia, Vincenzo Saccà; il dirigente scolastico dell’Istituto comprensivo di Sant’Eufemia, Giuseppe Gelardi; il coordinatore dell’ambito territoriale del Miur per Reggio Calabria, Vincenzo Geria; il consigliere provinciale Carmine Alvaro; il consigliere regionale Luigi Fedele. Quindi, avrà inizio il convegno vero e proprio, moderato da Rosario Monterosso, professore di Storia e Filosofia legato a Sant’Eufemia dai tanti anni di insegnamento nel locale liceo. Il primo intervento sarà “Il Risorgimento e la parola. L’identità nel linguaggio dell’altro”, di Francesco Idotta, professore di Storia e Filosofia al “Fermi”. Seguirà la mia riflessione su “Accentramento o decentramento? L’unificazione amministrativa dello Stato”; quindi, “Vittorio Visalli e il Risorgimento in Sant’Eufemia d’Aspromonte”, di Carmela Cutrì, professoressa di lettere al “Fermi”; infine, la relazione di Giuseppe Caridi, professore ordinario di Storia moderna all’Università di Messina e presidente della Deputazione di storia patria: “Il Risorgimento a Reggio e in Calabria”. È previsto inoltre un intermezzo musicale, eseguito dal soprano Giuseppina Violani, dal maestro di violino Francesco Russo e dalla professoressa di pianoforte Melania Scappatura.
La celebrazione del 150º anniversario dell’Unità d’Italia può aiutare a riscoprire il valore dell’identità nazionale che le risse quotidiane dell’ultimo ventennio hanno parecchio infiacchito. Ma rappresenta anche un’occasione unica per portare alla luce fatti e circostanze del Risorgimento locale purtroppo noti soltanto a pochi appassionati, e che invece meriterebbero una più ampia divulgazione.
A volte sembra che il nostro paese non abbia storia, ma basterebbe soltanto uno studio della toponomastica eufemiese per capire da dove veniamo, cosa siamo stati e quanto abbiamo amato la libertà. Carlo Muscari, uno dei 15 calabresi giustiziati in piazza Mercato a Napoli il 6 marzo 1800, alla caduta del Repubblica Napoletana; Ferdinando De Angelis Grimaldi, comandante della Terza divisone siculo-calabra durante i moti del 1848, condannato a morte dal tribunale borbonico; Francesco Pentimalli, condannato a 19 anni per gli stessi avvenimenti. Tre grandi eufemiesi, tre vie, ma anche tre martiri della libertà pressoché sconosciuti. Così come la trentina di condannati a pene dai tre ai diciannove anni per i moti risorgimentali che non sono ricordati neanche con una minuscola lapide.
Il fatto che nessuno ci abbia mai pensato non è un buon segnale. Le belle pagine della nostra storia andrebbero ricordate, ma per coltivare la memoria e avvicinare le giovani generazioni allo studio delle proprie radici occorre anche l’impegno delle istituzioni. La realizzazione di un archivio storico comunale, tanto per fare un esempio concreto, consentirebbe la consultazione di moltissimi documenti (altrimenti visionabili soltanto presso l’archivio di Stato di Reggio Calabria) che sono “custoditi” anche nel nostro comune, sepolti sotto la polvere negli scantinati del palazzo municipale.

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Un telegiornale un po’ troppo istituzionale

Mercoledì, sono quasi le 19.30 e penso: “vediamo cos’è successo in Calabria”. Accendo il televisore e mi sintonizzo sul tg3, curioso di apprendere qualche novità sulla fluidissima situazione politica regionale. Ci sono in ballo le candidature per le prossime elezioni amministrative, con Reggio da tempo ormai al centro dell’attenzione. Che farà l’Udc? Si accoderà alla linea regionale che riconferma in toto il patto di ferro con il Pdl o seguirà la strategia romana del Nuovo polo? Il Pdl sfoglierà la margherita (Fedele-Raffa) o, alla fine, salterà fuori un nome capace di mettere tutti d’accordo? Il Pd è vivo e lotta insieme a noi o è capitolato definitivamente, sotto i fendenti di Bova- Adamo- Loiero da una parte e Musi dall’altra? Mi attendo delle risposte e sono tutto orecchie davanti alla giornalista Maria Luigia Cozzupoli.
Si inizia con la cronaca. Ci può stare. In una regione martoriata dalla criminalità è pure normale. E poi, proprio il giorno prima c’era stata l’operazione “Crimine 2”. Si continua su quel filone. Per cui, in rapida successione: il rapporto della Direzione nazionale antimafia che assegna alla ’ndrangheta il primato nella classifica delle associazioni criminali; il sequestro di beni per un valore di 40 milioni di euro, effettuato tra Calabria, Basilicata, Lazio e Toscana; gli spari contro la segreteria politica di Salvatore Magarò, presidente della Commissione regionale antimafia e l’intimidazione al consigliere regionale Gianni Nucera. Completano il quadro della “nera”, gli aggiornamenti sulla scomparsa di Maria Pelaia a Serra San Bruno.
Grande risalto per la firma del protocollo di legalità sottoscritto tra Anas e prefettura di Reggio Calabria per la prevenzione dei tentativi di infiltrazione della criminalità organizzata nei lavori riguardanti il VI macrolotto della A3 (tratto compreso tra Scilla e Villa San Giovanni). Poi, la presentazione a Catanzaro del rapporto dell’Unicef sull’adolescenza e il consiglio provinciale aperto, tenuto a Cosenza per la presentazione del progetto di istituzione della facoltà di Medicina. A Cirò Marina, invece, il progetto presentato (“Io denuncio”) riguarda l’educazione alla legalità. Ma si “presenta” anche nella sede del consiglio regionale, dove Candeloro Imbalzano illustra la sua proposta di legge per l’istituzione di un Centro regionale per il sangue. Il disegno di legge sulle “quote rosa” andrà invece in votazione la settimana prossima. Le notizie di politica finiscono qua. Si chiude con lo spettacolo: il Jazzmin della “Sosta” di Villa San Giovanni, con l’intervista al mitico Mimmo Pitasi, e la “Compagnia del sorriso” che al teatro rendano mette in scena la commedia “Nobili e Povaromi”.
Il telegiornale è finito. Forse sono i miei interessi a non essere in sintonia con la linea editoriale della testata giornalistica regionale. Ma l’impressione è che sia la notizia a trovare il giornalista, non viceversa. Quasi che la redazione si limiti a svolgere il compitino senza “osare”, senza “ricercare” le informazioni. Colpisce il taglio “istituzionale”, ma se le notizie di politica si riducono alle note per la stampa preparate dalle segreterie, al fatto compiuto che non spiega le dinamiche e i retroscena (senza per questo diventare morbosi), il solco tra cittadino comune e istituzioni è fatalmente destinato ad allargarsi.

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Stringiamoci a co(o)rte

Sarebbe troppo comodo, oltre che vigliacco, sparare su Sandro Bondi, ora che la stella del ministro per i beni e le attività culturali sembra in declino. Colpa della famiglia allargata, se uno dei tanti sedicenti politici “non” di professione commette un peccato da Prima Repubblica, due incarichi affidati dal suo ministero all’ex marito e al figlio dell’attuale compagna. “Una storia dolorosa e un caso umano” (parole del ministro), ma anche un chiaro esempio di alimenti pagati con soldi pubblici. Eppure, non si può non rammentare la fertile vena poetica e il trasporto dei versi dedicati al premier dall’ex sindaco comunista di Fivizzano: “Vita assaporata/ Vita preceduta/ Vita inseguita/ Vita amata/ Vita vitale/ Vita ritrovata/ Vita splendente/ Vita disvelata/ Vita nova”. Commovente.
Di personaggi più realisti del re ne sono sempre esistiti. Bondi non è una mosca bianca e gli ultimi avvenimenti forniscono ulteriori conferme ai tanti esempi del passato, alcuni anche di casa nostra. Ineguagliabile rimane il senatore Antonio Gentile, nel 2002 presidente del comitato promotore per il conferimento a Berlusconi del premio Nobel per la pace. Più di recente, quanti stanno tentando di risolvere con ogni mezzo le due questioni più urgenti per il Cavaliere, la giustizia e l’informazione.
L’uomo del momento è senza dubbio il deputato Pdl Luigi Vitali (già sottosegretario alla Giustizia, noto per essere stato relatore, nel 2005, della legge “salva-Previti”), il quale, prima di essere sconfessato da Niccolò Ghedini e dallo stesso Berlusconi, aveva anticipato la presentazione di un progetto di legge sulla “prescrizione breve”: pena ridotta per incensurati e ultrasessantacinquenni, con effetti sulla prescrizione. Mancava solo la foto del beneficiario. Sul fronte dell’informazione, l’innalzamento della temperatura ha comportato il passaggio da Emilio Fede (se si vuole, “onesto” nella sua esplicita faziosità), ad Alfonso Signorini, autore dell’incredibile intervista a Ruby. Per non dire della tv pubblica, con il tg1 del “direttorissimo” Augusto Minzolini capace di parlare, a proposito della vicenda Mills, di “assoluzione” invece di “prescrizione”, tanto per non esser da meno rispetto a Studio aperto che aveva dato notizia dell’assoluzione di Berlusconi anziché del blocco del processo provocato dal lodo Alfano. Non può essere soltanto frutto di masochismo la realizzazione di un telegiornale (quello della rete pubblica ammiraglia) zeppo di servizi leggeri su costume, diete, moda, animali, con la conseguente perdita di autorevolezza e ascolti. Per la gioia di Enrico Mentana, il quale a ragione gongola. Della compagnia fa parte anche il direttore generale della Rai, Mauro Masi, che vorrebbe a tutti i costi riuscire a regalare a Berlusconi lo scalpo di Santoro o almeno il suo ridimensionamento. Anche a rischio di sfiorare il ridicolo, se soltanto la questione non fosse drammaticamente seria. Come nell’ormai famosissima telefonata di censura preventiva fatta in diretta durante una puntata di Annozero, o con le preziose raccomandazioni contenute nel “codice Masi” per disciplinare gli applausi del pubblico. Per non parlare della proposta per l’atto di indirizzo sul pluralismo avanzata dal senatore Pdl Alessio Butti in commissione Vigilanza, che prevede l’introduzione della doppia conduzione per i programmi di approfondimento politico o l’alternanza dei programmi (esempio: il giovedì, una settimana Santoro, quella successiva Paragone). Una proposta che il presidente della Federazione nazionale stampa italiana, Francesco Natale, non ha esitato a definire “un abominio” e che si aggiunge alla bozza precedente, bocciata, che voleva introdurre due divieti “cuciti” su misura per Santoro: quello di trattare per una settimana lo stesso tema, anche su canali differenti (se Vespa, lunedì, si fosse occupato dei processi del premier, non l’avrebbero potuto fare Floris martedì, né Santoro giovedì), e quello di vietare la conduzione ai giornalisti che abbiano interrotto la professione “per assumere incarichi politici” (guarda caso, Santoro è stato europarlamentare dei Democratici di sinistra).
Intanto, stanno per scendere in campo i mezzi cingolati: Giuliano Ferrara, con una striscia quotidiana dopo il tg1, e Vittorio Sgarbi con alcune prime serate in primavera. Sarà un caso se questo coincide con l’avvicinarsi dello scontro finale con la procura di Milano?

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La scuola ai tempi di B.

Come gli “strumentisti sessionmen” di Enrico Ruggeri, anche Berlusconi ha “già sviluppato il refrain”. Lo fa ormai da diversi anni, ma ancora funziona. Prima, parte lancia in resta; poi, verifica la reazione ai suoi attacchi; infine, se le cose si mettono male, è colpa dei giornalisti che “travisano” il suo pensiero. Per una forma di captatio benevolentiae, al congresso dei cristiano-riformisti il premier ha pensato bene di sferrare un attacco sommario al “relativismo etico” della sinistra “che non difende la sacralità della vita, inneggia alle coppie di fatto e cerca di imporre la cultura della morte e dell’eutanasia”. Dimentico, ovviamente, della giustificazione “dentro le mura di casa mia faccio quello che voglio”, uno dei massimi esempi di relativismo etico. Una performance bollata da Anna Finocchiaro come il solito “stanco repertorio”, nel quale non poteva mancare l’attacco ai comunisti italiani, gli unici ad essere rimasti uguali ai sovietici delle purghe staliniane.
Si sa che il presidente del consiglio è imbattibile nella capacità di conformarsi all’interlocutore che ha di fronte. È di pochi giorni fa – discorso tenuto nell’inaugurazione dell’anno accademico della Scuola ufficiali – la sortita sul sogno giovanile di diventare carabiniere. D’altronde, in materia di rapidità nel cambio degli abiti di scena, l’Italia ha una storica tradizione, dal mitico Leopoldo Fregoli ad Arturo Brachetti, “l’uomo dai mille volti”. Ma questa volta Berlusconi è andato addirittura oltre la semplice strizzata d’occhio al Vaticano, dettata dall’esigenza di dare una lustratina all’immagine appannata e ammaccata dalle rivelazioni sulle sue poco morigerate abitudini. È arrivato così l’affondo contro la scuola pubblica, accusata di inculcare “idee diverse da quelle che vengono trasmesse nelle famiglie”. Una sorta di spot per le scuole private (in gran parte cattoliche), ma anche un insulto gratuito nei confronti dei tanti che lavorano in condizioni rese oggettivamente più complicate dai tagli della Gelmini. Persino il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana, deve avere trovato eccessivo il discorso del premier, se ha sentito il bisogno di esprimere la fiducia della Chiesa nella scuola pubblica italiana.
Il problema della scuola non è l’ipoteca ideologica che su di essa eserciterebbe una parte politica. La scuola pubblica non ha niente a che fare con le Frattocchie, tanto per essere chiari. Il dramma sono quegli insegnanti a proprio agio con la grammatica e la sintassi quanto un pastore tibetano con le immersioni subacquee. Laureati che scrivono “qual è” con l’apostrofo, “accelerare” con due elle, “ce ne sono” con un profluvio di apostrofi e accenti, e via strafalcionando. Esiste un problema di preparazione del personale docente, dovuto alle scellerate politiche governative che negli ultimi decenni hanno praticamente concesso a chiunque la possibilità di insegnare. E c’è la questione, per responsabilità non tutte imputabili alla scuola intesa come istituzione, dello scarso riconoscimento (status, autorevolezza, ruolo) attribuito agli insegnanti. Ma le affermazioni irresponsabili non sciolgono i nodi, sono utili soltanto per completare e giustificare lo smantellamento dell’intero sistema scolastico pubblico.

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La lezione dei bambini/bis

Nella rubrica che cura su “Il Quotidiano della Calabria”, il professore Pietro De Luca ha così risposto, ieri, al mio intervento – inviato al giornale in una versione leggermente ridotta rispetto all’articolo pubblicato sul blog – sull’episodio di discriminazione accaduto in una scuola media di Catanzaro:

Caro Forgione, siamo qui a raccogliere i cocci di quel vaso che si è rotto quando il governo fece il suo bilancio e tagliò i fondi all’istruzione. Capimmo subito che a farne le spese sarebbe stata la riduzione degli insegnanti di sostegno. Lo scrivemmo più di una volta.
Potrà dirmi, caro Forgione, che la realtà del nostro caso è più complessa. Di sicuro lo è, ma l’insegnante di sostegno, prima ancora di essere una scelta economica, è una scelta di civiltà. Se è lì presente e tutti possono vedere che uno (il ragazzo destinatario) vale quanto l’intera classe per la cura che gli è prestata, allora si comprende in maniera concreta il valore della persona nella sua singolarità. La reazione della classe (neanche noi parteciperemo d’oggi in avanti a qualsivoglia iniziativa, se il nostro compagno non può uscire dall’aula) costituisce la prova provata che quei ragazzi hanno capito tutto, soprattutto il valore della personalità del loro amico. Un giorno gli avevano scritto: “Tu sei la nostra forza”, forse per dire finanche “tu sei il nostro maestro, colui che ci insegna e ci dispiega un mondo altrimenti sconosciuto”. Nel coro solidale si può leggere ancora: “se a te viene negato un diritto, anche noi ne facciamo a meno perché il titolo per riscuoterlo non può essere costituito da una semplice sperimentata abilità, a questa ha già provveduto madre natura, manca sempre quello della cittadinanza”. Bravissimi quei ragazzi, cittadini controcorrente di questa Italia individualista e sorda al disagio altrui. Mi domando perché, invece di dare la stura a vecchi e stereotipati luoghi comuni, non si espliciti chiaramente il disagio nel quale è piombata la scuola da quando è caduta sotto la mannaia Gelmini-Tremonti. Questo andrebbe detto, così semplicemente, perché tutti lo sappiano.
Caro Forgione, lei ha il vantaggio di parlare da dentro quel mondo della disabilità al quale offre la sua vicinanza e ne viene ripagato con un surplus di maturità riscontrabile. Per tale motivo sa bene che il buon cuore degli operatori non ha prezzo e quando manca nulla lo rimpiazza. Ci vuole anche dell’altro, però: mezzi, strumenti, strutture. Perché non si apre allora al volontariato per certi ammanchi di personale nelle strutture pubbliche? Che resta da pensare, che si vuole persino mortificare chi si trova in una necessità? Ma questo sarebbe solo mostruoso. Non vorrei neanche pensarlo per un minuto in più. Preferisco occupare la mia mente con la grande lezione della solidarietà di quella classe.

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La lezione dei bambini

Ho avvertito un senso di vuoto e molta amarezza nell’apprendere la notizia di quella dirigente scolastica di un Istituto comprensivo di Catanzaro che voleva impedire ad un ragazzino affetto dalla sindrome di Down di prendere parte alle uscite della sua classe. La storia è ormai nota. Durante una giornata di orientamento presso l’Istituto alberghiero di Soverato, dopo che la preside aveva tentato di tenere a casa l’alunno disabile perché quel giorno non c’era l’insegnante di sostegno (l’accompagnatore è obbligatorio fuori dall’edificio scolastico), questi rompe un bicchiere e si dimostra alquanto vivace. Per tale motivo, la preside comunica ai docenti l’intenzione di vietare in futuro al ragazzino la partecipazione alle gite, e lo stesso fa con gli alunni della classe, giustificando il provvedimento con la motivazione che “tanto, lui non capisce niente”. I compagni però si oppongono: “senza di lui, non andiamo neanche noi”, dando una lezione agli adulti e sconfiggendo il luogo comune suoi giovani di oggi senza valori, attratti soltanto dai vestiti firmati e dai telefonini di ultima generazione, dall’effimero e dal vacuo. Finiscono così sulle prime pagine di tutti i giornali perché, come ha fatto notare Isabella Bossi Fedrigotti sul Corriere della Sera, si sono dimostrati “più generosi, più civili, più veri uomini e vere donne” della preside.
Non bisogna ovviamente generalizzare. Ci sono tantissimi insegnanti che risolvono con il buon senso questo genere di problemi. Sono quelli che hanno come obiettivo non tanto il magro stipendio di fine mese, quanto il perseguimento della funzione educativa della scuola. Se non c’è l’insegnante di sostegno (eventualità non peregrina, dopo i tagli della Gelmini), assumono essi la responsabilità di portare in gita gli alunni disabili. Perché, quand’anche il disabile non dovesse capire niente, va ricordato che tra i compiti della scuola vi è anche quello di sviluppare le capacità dei ragazzi di socializzare e relazionarsi con gli altri.
Ho la fortuna di avere un minimo di familiarità con la disabilità. Ribadisco “fortuna”: chi fa volontariato mi comprenderà. Ma prima ancora, ho avuto la fortuna di avere amici che hanno iniziato prima di me, ai quali sarò riconoscente per tutta la vita, perché è grazie a loro che ho potuto conoscere una realtà che mi riempie il cuore e che mi ha consentito di essere ciò che oggi sono, un uomo certamente migliore del ragazzo che fui. Ho pianto pochissime volte nella mia vita. Due sono legate all’emozione delle esperienze che ho avuto modo di vivere grazie all’Agape, l’associazione della quale faccio parte da undici anni. La prima, un musical preparato dall’associazione, “La bella e la bestia”, con “la bella” interpretata da una ragazza down. La seconda, un pranzo consumato nel giorno di Natale presso una casa di cura per anziani. E poi tante altre emozioni, occasioni come la convivenza, giorno e notte, con soggetti disabili durante le colonie estive, che fanno capire cosa conti davvero nella vita, al di là delle maledette urgenze dettate dalla quotidianità. La mascotte della nostra associazione è un’altra ragazza down, che abbiamo visto crescere sin da quando era una bimba e che ora è maggiorenne. Anche lei ogni tanto è molto vivace. A volte ci prende a schiaffi, o si siede per terra perché non vuole più camminare e allora diventa dura, dato che pesa cento chili. Però ci recita la filastrocca dell’ “echifante” (l’elefante), ci fa le coccole e ci dà tanti baci. Ecchissenefrega degli schiaffi: se ne subiscono ben altri nella vita e quelli fanno male per davvero.

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Italia milionaria

Con la corrosiva ironia che lo contraddistingueva, Leo Longanesi metteva a nudo l’endemico familismo italico sostenendo che sul tricolore andrebbe stampato il motto “tengo famiglia”. Eppure, un limite alla sfrontatezza non guasterebbe. Quando Fabrizio Cicchitto indica nel Pdl l’estremo baluardo della democrazia italiana contro l’ingerenza e lo strapotere della magistratura politicizzata, che “vuole sovvertire il voto popolare”, calpesta Montesquieu e oltre 250 anni di civiltà giuridica fondata sul principio della separazione dei poteri, non sul consenso elettorale inteso come diritto all’impunità. Da questo punto di vista, anche l’ultima uscita di Berlusconi sulla necessità di riformare la Corte costituzionale perché “boccia leggi giuste” rappresenta l’ennesimo affondo contro un organo dello Stato, oltre che il sintomo dell’allergia per quel sistema istituzionale di checks and balances che sta alla base delle democrazie contemporanee. Sull’incoerenza logorroica di Daniele Capezzone esiste ormai una sconfinata letteratura: il confronto tra le dichiarazioni rese dall’ex pupillo di Marco Pannella prima che diventasse portavoce del Pdl e quelle oltranziste a difesa del premier è davvero sconcertante (per usare un aggettivo molto gradito dall’ex enfant prodige radicale). Per non dire dell’acqua che deve essere passata sotto i ponti da quando Daniela Santanchè affermava che il Cavaliere “non ha rispetto per le donne” e le concepisce “solo orizzontali, mai verticali”. È passata molta acqua e pure qualche poltrona visto che, da sottosegretario con delega all’attuazione del programma di governo, la signora più glamour della politica italiana è diventata la più devota e ascoltata consigliera del premier, una specie di Giuliano Ferrara in gonnella e randello. Dopo la battaglia condotta contro Fini per la vicenda della casa di Montecarlo e la promessa di un posticino al governo per il suo partito (e, si intuisce, un paio di candidature alle prossime elezioni), persino Francesco Storace, di recente, si è prodotto in una difesa del premier imbarazzante, che lascia intendere come neanche la destra dura e pura trovi scandaloso derogare ai suoi tanto decantati valori.
Non penso che l’indignazione sia un sentimento snob e radical-chic. Non credo neanche che ci troviamo di fronte a due mondi antropologicamente diversi. La triste parabola dei parlamentari di Futuro e libertà che con la coda tra le gambe stanno facendo rientro all’ovile, dopo essersi accorti che la spallata di Fini non ha avuto l’effetto immaginato, dimostra proprio quanto l’opportunismo prevalga su ogni altra considerazione.
Ha ragione Roberto Vecchioni, fresco vincitore del festival di Sanremo: “questa notte dovrà pur finire”. Che poi è il convincimento (“ha da passa’ ’a nuttata”) di Gennaro Jovine/Eduardo De Filippo in “Napoli milionaria”, di fronte allo sfascio etico dell’umanità sopravvissuta agli orrori e alla miseria della seconda guerra mondiale. Aspettando che passi la nottata, teniamoci stretta e difendiamo la Costituzione repubblicana: se in tutti questi anni l’Italia ha retto e non è diventata una repubblica sudamericana o la Russia putiniana, grande merito va alla Carta scritta dai nostri Padri costituenti.

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Buon compleanno, Italia

La controversia sull’opportunità di concedere un giorno di vacanza il 17 marzo (150° anniversario della proclamazione del Regno d’Italia) è questione pelosissima. In un Paese celebre per la copiosità delle ricorrenze e primatista nella disciplina olimpica del bigiare appare decisamente improbabile il senso del dovere richiamato da Lega, Marcegaglia e Gelmini. Bene ha fatto il presidente emerito Carlo Azeglio Ciampi a denunciare il “cuore freddo” con cui la nazione si sta avvicinando alla ricorrenza e a dichiararsi avvilito per l’infimo livello di un dibattito avvitato sull’argomentazione economica. Non sarà certo un giorno di lavoro in meno ogni cinquanta anni a mettere in ginocchio l’economia italiana.
Contrariamente a quel che si può pensare (“colpa della Lega che detta la linea del governo”), le cause di questa freddezza sono remote e vanno rintracciate nelle due culture dominanti nel Novecento, la cattolica e quella marxista. L’unificazione fu realizzata contro il volere e gli interessi del Vaticano che, con l’approvazione unilaterale della “legge delle guarentigie” (1871), patì la fine del potere temporale del Papa. Lo scontro sfociò nella scomunica dei protagonisti del Risorgimento, nel mancato riconoscimento dello Stato italiano da parte del Pontefice (per la composizione della “questione romana” si dovranno attendere i Patti lateranensi del 1929) e nel celebre non expedit con cui Pio IX, nel 1868, proibì ai cattolici di prendere parte alla vita politica del Paese, divieto che ufficialmente rimase in vigore fino alla nascita, nel 1919, del partito popolare di Sturzo (in realtà, l’Unione elettorale cattolica già nel 1904 diede ai fedeli indicazioni di voto, mentre è del 1913 il “patto Gentiloni” che assicurava il sostegno dei cattolici a quei candidati che si impegnavano a difendere le questioni care alla Chiesa). Per la cultura marxista, il Risorgimento si era rivelato un’occasione persa e il tradimento delle aspettative del popolo, attratto dal miraggio della “terra ai contadini” e ferocemente represso dall’esercito piemontese e dagli stessi garibaldini. Basti ricordare l’eccidio di Bronte, denunciato da Giovanni Verga nella novella Libertà, dalla quale il regista Florestano Vancini trasse, nel 1972, il bellissimo Bronte. Cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato.
Certo, in passato è a lungo prevalso un eccesso di retorica, in particolare sulla partecipazione popolare, modesta tra i ceti più poveri e meno acculturati, privi di coscienza politica e poco interessati alla lotta per la libertà e per l’indipendenza dell’Italia, oltre che completamente all’oscuro di quanto avveniva a distanza di pochi chilometri dal proprio tugurio, stanti la scarsa circolazione delle notizie e l’analfabetismo dilagante (80-90% della popolazione nelle regioni meridionali). Così come si è minimizzato sulla brutalità della lotta al brigantaggio, che poco aveva di politico e molto di economico e sociale (messo peraltro in luce dall’inchiesta Massari nel 1863), ridimensionando le cifre spaventose di un massacro reso possibile grazie alla copertura legislativa autoritaria e illiberale della legge Pica. Eppure, la sensazione è che oggi si stia compiendo un’esagerazione contraria per sostenere subdolamente la tesi che l’unificazione del Paese non sia stato un buon affare per nessuno. Non si possono però difendere le ragioni del Sud sostenendo che prima dell’Unità il Mezzogiorno era il regno del progresso e che il divario economico con il Nord è un lascito del Risorgimento.
L’arretratezza è tanto l’esito di politiche governative nord-centriche, quanto la conseguenza di una classe dirigente meridionale che ha sempre fatto dell’ascarismo il solo orizzonte politico. La subalternità del Sud è anche il prodotto di una classe dirigente piagnona e sorda, incapace di ribellarsi e tuttavia convinta, come il principe di Salina, che “Gattopardi, sciacalli e pecore continueremo a crederci il sale della terra”. Di fronte allo scippo perpetrato (e certificato) a danno del Sud nell’ormai nota vicenda dei fondi Fas, i nostri rappresentanti avrebbero dovuto alzare in Parlamento le barricate, coalizzandosi al di là degli schieramenti politici di appartenenza per “fare squadra” a difesa degli interessi del Meridione. Niente di tutto ciò. Per gli ascari, un posto da sottosegretario o qualche incarico di rilievo da potere esibire nel curriculum hanno lo stesso effetto dello zucchero consigliato da Mary Poppins. Anche se invece della pillola occorre mandare giù un rospo.

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Un destino cinico e baro

Per esprimere il disincanto con cui spesso si accoglie una notizia che si sa per certo non veritiera, dalle nostre parti si suole ricorrere ad un efficacissimo adagio: “Tu ’u dici ed eu cchiù sceccu criju ca prima veni giugnu e dopu maju”.
Il fatto nuovo, ormai di dominio pubblico, è che anche Eufemia Surace, consigliere e da pochi mesi presidente del consiglio comunale, si è dimessa, andando a infoltire la schiera di coloro che hanno abbandonato Saccà e la sua maggioranza. Ora siamo a tre, dopo il vicesindaco Pippo Ascrizzi e l’ex presidente del consiglio Tonino Alati. E anche questo è un record. Non penso che ci siano altre amministrazioni che abbiano perso per strada due presidenti del consiglio consecutivamente, subito dopo l’istituzione della carica. Diciamo che quella poltrona porta un po’ sfiga, per cui sarebbe forse il caso di tornare ai tempi in cui il sindaco presiedeva l’assemblea.
Al di là delle facili ironie e delle statistiche da consegnare agli archivi, va invece considerato che tre indizi fanno una prova, la dimostrazione cioè del fallimento politico dell’amministrazione comunale uscita vittoriosa dalle urne il 27 maggio 2007. I tre indizi, grossi quanto macigni, hanno volti e nomi ben precisi, e ognuno di essi porta con sé una storia politicamente significativa.
Andiamo con ordine. Il primo smottamento si registra questa estate, quando Tonino Alati saluta la compagnia tra il finto stupore della maggioranza e i sorrisi maliziosi dei cittadini, per nulla persuasi dalla motivazione ufficiale. La seconda spia rossa si accende di lì a qualche mese, a fine ottobre: anche Pippo Ascrizzi, vicesindaco di nomina esterna, dichiara l’impossibilità di proseguire l’esperienza amministrativa. Due giorni fa il terzo allarme con Eufemia Surace, anche lei (coincidenza?) dimessasi, come Alati e Ascrizzi, per “motivi personali”. Alati è stato per tre lustri, nella buona come nella cattiva sorte, tra i più fedeli e leali pretoriani di Saccà, a conferma di un sodalizio che andava ben oltre il rapporto politico. Il sorprendente accordo stretto con Ascrizzi ha costituito invece la più eclatante novità politica delle ultime consultazioni amministrative, tanto da diventare l’unico vero argomento della campagna elettorale. Un’altra sostanziale novità è stata infine Eufemia Surace, alla prima esperienza amministrativa ed espressione di un mondo, quello delle giovani donne, che rare volte riesce ad avere una rappresentanza istituzionale.
Fino ad ora il sindaco, barricato dentro il bunker del palazzo municipale, ha proseguito come se nulla fosse, supportato dai consiglieri che gli sono rimasti fedeli. L’indifferenza ai segnali inequivocabili della fine di un ciclo potrebbe ripetersi anche questa volta. Non ci sarebbe da stupirsi più di tanto. D’altronde, un politico navigato come Giuseppe Saragat, di fronte al fallimento della legge truffa fece una considerazione che di politico aveva ben poco: “la colpa è del destino cinico e baro”. Evidentemente, in questo momento la malasorte deve avere un conto aperto con il nostro Comune.

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