Quel vecchio tanfo di fascismo

Il grande giurista Piero Calamandrei amava ripetere che “la libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare”. Ma c’è di più: all’inizio uno neanche se ne accorge, perché continua a respirare lo stesso, pur con sempre maggiore difficoltà. Fino a quando non soffoca.
Stanno tentando di fare questo: asfissiarci poco alla volta, sopprimendo i diritti conquistati con anni di lotte, di esilio e di galera. Lo stanno facendo scientificamente. Un diritto in meno oggi, un altro ancora domani. Quando, finalmente, il popolo si sveglierà dal torpore in cui è sprofondato, si ritroverà con la catena al collo.
È un’esagerazione? Siamo i soliti comunisti catastrofisti? Non sono mai stato comunista. E comunque, non credo sia neanche questo ormai il problema, a meno che non si voglia considerare pure Gianfranco Fini (distante anni luce dalle mie convinzioni politiche) un pericoloso e sovversivo trinariciuto.
Il disegno di legge sulle intercettazioni, che il Parlamento si sta affrettando ad approvare con una lena inusuale (e sospetta), va esattamente in quella direzione. Tra i primi provvedimenti (1923) adottati dal fascismo prima ancora che diventasse regime, ci fu proprio la limitazione della libertà di stampa. Ora vogliono fare passare come dettato dalla necessità di difendere la privacy dei cittadini (un’esigenza sacrosanta) un ddl che in realtà punta a mettere il bavaglio all’informazione non allineata e scomoda, quella che – tanto per essere chiari – ha consentito di scoperchiare i tanti pentoloni dell’affarismo di cricche e consorterie varie.
Ancora: in pochi si sono accorti che, con la motivazione della lotta all’immigrazione clandestina, si stanno introducendo delle vere e proprie leggi razziali, come quella che prevedeva l’aggravante per i reati commessi dai clandestini e che la Consulta di recente ha cassato. Per chi l’avesse dimenticato, l’articolo 3 della Costituzione recita: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Strano che proprio il presidente della Repubblica, che dovrebbe essere il custode della nostra Carta fondamentale, se ne fosse scordato e avesse dato il via libera.
Quando le camicie nere furono alle porte di Roma, il presidente del consiglio Luigi Facta e il ministro dell’Interno Paolino Taddei sottoposero al re Vittorio Emanuele III il decreto di stato d’assedio approvato in piena notte dal consiglio dei ministri. Dapprima d’accordo, il re si rifiutò di firmare e le cose andarono come sappiamo. Ora, il presidente non è soltanto un notaio che firma qualsiasi foglio gli mettano davanti. Ha anche un potere rilevantissimo, quello di rinviare alle Camere le leggi in cui ravvisa profili di incostituzionalità. Lo eserciti.
E l’uso vergognoso e strumentale delle cariche pubbliche? Quale altra finalità potrebbe avere la nomina di Aldo Brancher a ministro (non si sa bene neanche di cosa, visto che Bossi si è infuriato quando ha sentito di un ministero per il federalismo, che è roba sua) se non quella di eludere – grazie al legittimo impedimento – il filone collaterale del processo sulla scalata all’Antonveneta che lo vede coinvolto? Difatti, un quarto d’ora dopo l’accettazione dell’incarico si era subito avvalso di questa facoltà (che sarebbe più corretto definire artificio) per evitare il processo. D’altronde, il maestro (guarda caso, suo capo sin dai tempi di Pubblitalia) l’ha avuto di prima scelta. Fortunatamente, in questo caso Napolitano ha mostrato segnali di resipiscenza: non c’è niente da organizzare in un ministero senza portafoglio. Resta comunque il disinvolto, strumentale e inverecondo uso delle cariche pubbliche per fini personali, la strafottenza e l’arroganza di chi si sente al di sopra della legge.
Da ultimo, l’accordo di Pomigliano, che la Fiat ha potuto imporre anche in virtù del sostegno governativo. Certo, come si fa a dire a più di 5.000 operai con famiglie da mantenere che quell’accordo non andava firmato perché non si possono barattare i diritti dei lavoratori con il posto di lavoro? La libertà però è un bene indisponibile e ciò che è avvenuto nello stabilimento Fiat rappresenta un pericoloso campanello d’allarme.
Non sono per niente d’accordo sul fatto che – come si dice da più parti – occorra “abbassare i toni”. A furia di abbassare i toni, ci siamo abituati a sopportare qualsiasi porcata. Occorre invece alzare i toni, fare sentire la voce di chi considera la libertà il bene più prezioso.

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Il burattinaio di parole

Francesco Guccini è entrato a casa mia e nella mia vita ai tempi del liceo, saltando fuori dallo zaino di mio fratello – lui al terzo anno, io al secondo – “copiato” (preistoria, a ripensarci) in tre musicassette: Radici; L’isola non trovata; Quasi come Dumas.
Il 14 giugno l’eterno studente e burattinaio di parole (come si è autodefinito, rispettivamente in Addio e in Samantha) ha compiuto settanta anni e, come si conviene per un artista che ha segnato la storia della musica italiana, le rievocazioni da giorni occupano le pagine dei giornali.
Guccini è un cantautore coltissimo, paragonato da Umberto Eco a Walt Whitman, capace di rime e assonanze ricercatissime, di citazioni dotte e riferimenti letterari eruditi (dal profeta Isaia a Borges), ma anche di temi “bassi”, di sberleffo puro, come sa chiunque abbia ascoltato l’album Opera buffa o la canzone I fichi nel disco non a caso intitolato D’amore, di morte e di altre sciocchezze. Un anarchico “perso dietro le nuvole e la poesia”, attaccato alle proprie radici, ad un mondo in via di estinzione riproposto sotto forma di mito (l’infanzia, la saggezza dei montanari dell’Appennino). E poi i temi del tempo che passa e l’intimismo di certe situazioni raccontate come con una cinepresa, della rivolta e della lotta contro le ingiustizie, dei miti della sua gioventù (l’America, Hemingway, Bob Dylan, la Beat generation), dei vinti e dei “piccoli eroi delle occasioni perse”, del rimpianto per ciò che poteva essere e non è stato (per dirlo con le parole di Gozzano, cui Guccini spesso rimanda).
Per me Guccini è un caldo giugno di tanti anni fa. È il profumo di una ragazza, due corpi sudati sotto un sole cocente alle tre del pomeriggio. Sono tanti viaggi, i finestrini della macchina abbassati e l’aria che entra scompigliando i capelli, Eskimo cantata a squarciagola, quando ancora il futuro era una mela acerba e non c’era tempo per farla maturare. È un concerto al Palapentimele, tutti seduti a terra, un rito inderogabile nei concerti di Guccini: una via di mezzo tra un’assemblea del sessantotto o i collettivi degli anni Settanta e una scampagnata fuori porta, con il più bravo della compagnia che tira fuori la chitarra e suona e canta per tutti. Sono di nuovo due corpi stretti stretti, mentre la scaletta delle canzoni scorre via, iniziando (Canzone per un’amica) e finendo (La locomotiva) con le stesse due canzoni da sempre.
E poi quel dialogare con il pubblico, la sua “r” che si arrota, l’esclamazione “non sono mica un juke-box” rivolta ad un gruppo di ragazzi che chiede insistentemente Incontro, i rimproveri a quelli che ogni tanto provano ad alzarsi da terra. Non si può. Bisogna attendere le ultime tre canzoni: quando attacca Dio è morto scattiamo tutti in piedi e non smettiamo di saltare e di urlare fino ai saluti finali. Dopo è soltanto nostalgia struggente e Farewell che ronza nella testa.

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La Santa Alleanza

Il rapporto Mezzogiorno-Governo centrale rischia di scivolare verso una china molto pericolosa, ma c’è una generale sottovalutazione di questa emergenza. Fino a quando, infatti, le popolazioni meridionali potranno sopportare di essere defraudate da un governo sfacciatamente sbilanciato sopra la linea Gustav?
Basta mettere in fila i provvedimenti adottati o comunque proposti per farsi un quadro del grado di attenzione riservato alle regioni meridionali e, in particolare, alla Calabria.
La vicenda dei fondi FAS (fondi per le aree sottosviluppate) è emblematica. Istituiti per sostenere lo sviluppo e l’occupazione al Sud, negli ultimi due anni sono stati platealmente saccheggiati (circa 31 miliardi di euro su un totale di quasi 54) dal governo con una logica da Robin Hood alla rovescia che ha consentito la redistribuzione alle regioni del Nord di fondi destinati a quelle meridionali.
Come se si trattasse di un bancomat, sono stati prelevati soldi per ripianare il debito pubblico, per l’emergenza rifiuti di Napoli, per la riqualificazione energetica degli immobili, per il taglio dell’Ici, per ripianare i buchi di bilancio dei comuni di Roma e Catania, per finanziare il Servizio sanitario nazionale, per mettere a posto i conti dell’Alitalia e delle Ferrovie dello Stato e per tanti altri provvedimenti (uno su tutti: la realizzazione, mai avvenuta, del G8 della Maddalena).
L’utilizzo improprio ha provocato la condanna della Corte dei Conti, che ha stigmatizzato l’andazzo di considerare i fondi FAS veri e propri “fondi di riserva” ai quali “si è fatto ricorso in modo massiccio” e in settori “non direttamente connessi con la missione concernente il riequilibrio territoriale”. Che tradotto vuol dire che soldi assegnati per risollevare l’economia del Sud sono stati invece utilizzati per coprire spese di diversa natura al Nord. Per essere più chiari: lodevole quanto si vuole (ci mancherebbe altro) l’iniziativa di alleviare con la cassa integrazione le pene degli operai rimasti senza lavoro, ma i soldi prelevati dai fondi FAS per finanziare l’operazione andavano destinati ad altri interventi, al Sud (mentre gli operai beneficiati risiedono prevalentemente al Nord).
Per non parlare degli imprenditori senza scrupolo scesi dal Nord – secondo la denuncia della senatrice UDC Dorina Bianchi – per fare della Calabria “terra di conquista”, approfittando dei finanziamenti della legge 488 e del Contratto d’area che hanno consentito loro di aprire le aziende “giusto il tempo necessario per avvalersi degli incentivi. Poi hanno chiuso le imprese, lasciando a spasso i lavoratori e tornandosene al Nord”.
E che dire della proposta, contenuta nella bozza originaria della manovra correttiva, poi scartata (ma ora riapparsa in un emendamento al disegno di legge sulla Carta delle autonomie all’esame della commissione Affari costituzionali della Camera), di sopprimere le province con popolazione inferiore a 220.000 abitanti? È un esempio classico di come un progetto in linea di principio condivisibile – l’abolizione degli enti provinciali per tagliare un po’ di spese inutili, anche se, personalmente, preferirei tornare all’impianto originario del nostro Stato, abolendo le Regioni e conservando le province – diventi indigesto per la Calabria, visto che la scure governativa avrebbe risparmiato le province delle Regioni a statuto speciale e quelle direttamente confinanti con Stati esteri. Facevano prima a scrivere “si aboliscono le province di Vibo e Crotone”.
Non è antimeridionalista un provvedimento che, pur necessario, diventa punitivo soltanto per una parte d’Italia?
E la proposta di introdurre il pagamento del pedaggio sull’A3 Salerno-Reggio Calabria e sul raccordo reggino tra A3 e statale 106? O è uno scherzo, per cui chi l’ha proposto è inadeguato a governare, o è una vera e propria dichiarazione di guerra contro la Calabria. Vogliamo almeno sperare che il provvedimento riguardi qualche tratto già concluso e non il rischiosissimo budello-mulattiera che quotidianamente molti lavoratori sono costretti a percorrere facendosi il segno della croce prima di mettersi in viaggio.
Il ceto dirigente meridionale è chiamato ad un atto di grande responsabilità, pena il suo rovinoso naufragio. È necessaria una Santa Alleanza che superi le divisioni partitiche e realizzi un fronte comune (principalmente in Parlamento, dove non dovrebbe essere complicato bloccare i lavori affossando sistematicamente le iniziative della maggioranza) per ribaltare la logica del “divide et impera” che ha caratterizzato l’azione di tutti i governi post-unitari.
O la classe politica riuscirà ad incanalare su binari istituzionali il magma che si agita nella pancia della società, o verrà travolta dagli eventi.

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Il colore della felicità

Il tifoso non è scaramantico. Semplicemente, “sa” che non bisogna turbare l’ordine naturale dell’Universo. Se lascia la macchina parcheggiata sempre nello stesso posto quando va a vedere la partita a casa dell’amico (e c’è un motivo se la guardano sempre assieme, con la stessa disposizione sul divano e il solito caffè tra primo e secondo tempo) e la volta che non lo fa la squadra perde, beh, vuol dire che ha provocato un’alterazione nel normale divenire della Storia. È così naturale come ragionamento!
Per chi tifa Inter la coppa dalle grandi orecchie era soltanto un ricordo sempre più sbiadito, qualche fotogramma traballante, la foto di un Mazzola giovanissimo e la cantilena che tutti coloro che sono stati iniziati alla fede nerazzurra conoscono: Sarti, Burnich, Facchetti… L’epopea di “seconda mano” della Grande Inter, tramandata da genitori che hanno avuto la fortuna di esserci in quelle stagioni memorabili.
Per noi, figli di un dio minore, invece, la fedeltà alla bandiera sembrava un esercizio di autolesionismo, delusione dopo delusione, quasi una nemesi storica. In campionato, a parte la cavalcata trionfale dell’Inter dei record del Trap, solo amarezze fino a cinque anni fa.
Ci canzonavano col coro “non vincete mai”, irridendo le campagne acquisti sontuose di Moratti che non portavano a nulla, soltanto giocatori di cui neanche ricordiamo il volto (l’elenco sarebbe infinito: Gilberto, Caio, Rambert, Vampeta, Fadiga… e continuate voi…). Poi abbiamo scoperto il motivo per cui eravamo predestinati alla sconfitta.
In campo internazionale, un disastro. Lacrime su lacrime. Come quelle, vere, che sento ancora scendere caldissime sulle guance del bambino che fui, dopo due “remuntade” subite proprio al Bernabeu dal Real di Butragueno e Hugo Sanchez. La prima, 3-0 dopo il 2-0 per l’Inter a San Siro, nella notte della biglia a Bergomi. La seconda, un 3-1 ribaltato 5-1 ai supplementari, un’agonia vissuta attaccato alla radiolina.
Quando si raggiunge la vetta, non bisogna dimenticare da dove si è partiti, né la fatica che è costata. Ha fatto bene capitan Zanetti a ricordarlo, ora che l’Universo si è colorato di nerazzurro.

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L’aperitivo

Dopo due anni di invettive contro la sinistra catastrofista e porta sfiga, anche Silvio Berlusconi si è accorto che non è più sufficiente sfoggiare il sorriso d’ordinanza e spargere ottimismo davanti alle telecamere per nascondere la gravità della crisi economica.
Spalleggiato dal “creativo” Tremonti – al quale va dato atto di essere tra i più responsabili nell’esecutivo, se non altro perché riesce a respingere i pervicaci assalti alla diligenza dei suoi colleghi ministri – ci aveva assicurato che non ci sarebbe stata alcuna manovra finanziaria aggiuntiva. Beh, era una battuta da avanspettacolo.
Occorre trovare 28 miliardi. E farlo in fretta, prima che salti tutto.
Per questo motivo, Tremonti ha preparato e servito “l’aperitivo”: taglio del 10% degli stipendi dei top manager che percepiscono più di 100.000 euro l’anno e riduzione (da quantificare) degli stipendi di ministri e parlamentari. A queste misure andrebbe aggiunta la lotta all’evasione fiscale, ma annunciata dal governo artefice dello scudo fiscale sa davvero di gag comica. Quasi meglio di Tremonti-Guzzanti intento a recuperare soldi giocando alla slot-machine.
Il rischio che i tagli annunciati contro la casta rappresentino un’arma di distrazione di massa dalla notevole carica demagogica, in un periodo in cui ai cittadini viene chiesto di fare l’ennesimo buco alla cinghia, è purtroppo concreto. Tanto più che al momento l’accerchiamento di cui sembra soffrire il governo si fa di giorno in giorno più pesante.
Le vicende che hanno interessato negli ultimi mesi i vari Scajola, Verdini, Matteoli e Bertolaso fanno venire in mente la battuta di Giovanni Giolitti sui politici fascisti al governo: “Anche i miei mangiavano, però almeno sapevano stare a tavola”.
Il timore è che ancora dell’altro debba emergere e che la cricca non nasconda un’invenzione giornalistica di Sergio Rizzo, bensì un metodo scientifico di arricchimento personale attraverso la gestione del denaro pubblico. In una fase in cui le famiglie stanno progressivamente impoverendosi, gli “affari” realizzati da politici spregiudicati e immorali rischiano di creare una saldatura molto pericolosa tra crisi economica, crisi sociale e crisi del sistema politico, con effetti imprevedibili.
Anche Scopelliti, finita la campagna elettorale, appena insediatosi alla Regione ha dovuto cambiare registro: ci toccherà versare “lacrime e sangue”.
Il problema è che in realtà il sangue l’abbiamo finito già da un bel po’. E forse anche le lacrime.

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Cercasi becchino

Come quei personaggi delle fiabe che si svegliano dall’incantesimo, Guccione sembra essere uscito dal torpore invernale. Ha preso così coscienza di una verità sensazionale, l’ha messa per iscritto, sigillata, affrancata e fatta recapitare a Bersani: il PD in Calabria non è mai nato. In pratica, la confessione di una crisi d’identità in pieno svolgimento. Perché se il partito non esiste, il segretario regionale è un avatar.
Troppo approssimativa come spiegazione. Oltre che auto assolutoria. Il PD invece è nato, ma è stato immediatamente soffocato in fasce da troppe faide e giochi di potere (o di prestigio: il nuovissimo “gioco delle tre poltrone” inventato e a lungo esercitato da Bova, Loiero e Adamo). Da questo punto di vista, Pirillo ha ragione da vendere: “Non è affatto vero che il PD in Calabria non è mai nato. Semmai è vero il contrario e cioè che si sta tentando in tutti i modi di soffocarlo sotto il peso di personalismi, guerre intestine e, cosa ancora più grave, senza l’autorevolezza di qualsiasi guida politica”.
Sulla bocca di chi, subito dopo essere stato eletto al Parlamento europeo grazie al contributo decisivo di Loiero, ha preso le distanze dal proprio sponsor principale e ha cominciato ingenerosamente ad avversarlo in tutti i modi, parole di questo tono sono ovviamente poco attendibili. Il dato politico però è un altro. La richiesta di azzeramento e commissariamento dei vertici del partito non rispecchia più soltanto una posizione minoritaria (Gigliotti).
Franceschini, nel corso della convention nazionale di “Area democratica”, ha proposto di affidare il PD calabrese ad una “personalità di grande autorevolezza, capace di ricostruire investendo su nuove energie”. “Na chiacchiera”, direbbero a Roma. Perché un rinnovamento radicale è impossibile in un contesto in cui le “nuove energie” sono sempre emerse col metodo della cooptazione e con operazioni di maquillage eseguite dal gruppo dirigente col solo fine di conservare una rendita politica.
Lo scenario di “tutti contro tutti” autorizza a pensare che la lettera del segretario regionale sia una richiesta d’aiuto, un modo per dire a Roma: “per favore, intervenite voi altrimenti rischio di essere sbranato”. Ma Guccione non può pensare di farla franca scaricando sugli altri responsabilità che sono anche sue. Le primarie fasulle che hanno portato alla sua elezione sono state il frutto dell’accordo Bova-Loiero, non un evento accidentale.
Certo, i panni sporchi andrebbero lavati in casa. Se, come sostiene Caminiti, “si sceglie non di discutere e decidere in Calabria, ma a Roma, per poi magari tornare in Calabria solo a decisione presa, per farla digerire al partito-colonia, allora non c’è da stupirsi se tutto diventerà sempre più ingestibile e sempre più inaccettabile”.
Ecco perché serve un becchino. Occorre fare tabula rasa del passato, di politici autoreferenziali che hanno come obiettivo esclusivo la propria sopravvivenza. Se tutto si risolverà con la solita soluzione pasticciata, per cui ognuno conserverà il proprio strapuntino, vorrà dire che a nulla è valsa la sonora batosta delle regionali.

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Il significato di una data

Siamo un popolo senza gradazioni, o bianco o nero, e ci perdiamo il bello delle sfumature. Derivano da questa attitudine il facile entusiasmo con cui si salta sul carro del vincitore e la condanna senza appello dopo le rovinose cadute di personaggi idolatrati fino al giorno precedente. Eppure ci deve essere una via di mezzo.
Non si può passare dalla bolsa retorica dell’antifascismo che per anni ha prodotto un profluvio di parole spesso vuote o al massimo strumentali, al becero revisionismo di questi ultimi anni. Le celebrazioni per il 25 aprile ripropongono ogni anno la questione, con giustificata preoccupazione negli ultimi tempi a causa dei tentativi di offuscare la grandezza e la generosità di tanti partigiani sulla scorta delle accertate violenze, vendette e sopraffazioni perpetrate da una minoranza.
La Resistenza ha avuto luci (tante) ed ombre. Per diversi decenni il partito comunista ha esercitato una sorta di monopolio e prodotto l’interpretazione “autentica”, magnificando il proprio ruolo anche al di là di innegabili meriti e sminuendo il contributo delle altre forze. Basti pensare all’oblio che ha circondato una figura di primissimo piano come Alfredo Pizzoni, comandante del Comitato di Liberazione Nazionale in Alta Italia, un monarchico liberale (banchiere per giunta, quindi estraneo al proletariato) non schierato politicamente e per questo emarginato subito dopo il 25 aprile. O al silenzio calato sulle vicende del triangolo rosso e del confine orientale, giustamente scoperchiate a partire dalla metà degli anni ’90.
Questo però non giustifica la negazione di verità e principi fondamentali. È vero che spesso i repubblichini di Salò erano giovanissimi cresciuti con il mito della Patria ed alle loro scelte è possibile concedere l’attenuante della buona fede. Ma oltre non si può andare.
Una cosa è la pietà per i morti, che va riconosciuta a tutti, senza alcuna distinzione per il colore politico delle vittime. Altra cosa è ribadire con forza che c’era una parte giusta e una parte sbagliata.
Non si possono mettere sullo stesso piano coloro che lottavano per la libertà e i seguaci del nazifascismo. La vittoria dei partigiani ha portato la democrazia; quella di Hitler e Mussolini avrebbe fatto dell’Europa un enorme campo di concentramento. Chi sostiene il contrario compie un’operazione storicamente disonesta e moralmente indecente.
“È triste dovere difendere la Resistenza” (Claudio Magris): dovrebbe essere naturale in un Paese normale. Ma questo non è un Paese normale. È un Paese che ha la memoria corta. Per questo è bene rinfrescarla.
Il 25 aprile non segna soltanto la fine di una sanguinosa e fratricida guerra civile, ma costituisce l’atto fondante della Repubblica italiana e la rinascita della nazione dopo la seconda guerra mondiale, la riconquista di quell’onore che il fascismo aveva oltraggiato con la dittatura, la soppressione di tutte le libertà, le leggi razziali e l’ingresso in guerra al fianco della Germania nazista. Nessun revisionismo potrà mai ribaltare la verità storica.

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Dalla parte di Gino

“Non sono colpevoli”: con questa motivazione sono stati rilasciati Matteo Pagani, Marco Garatti e Matteo Dell’Aira, i tre volontari di Emergency che erano stati arrestati dalle autorità afghane il 10 aprile a Lashkar-gah (dove sorge un ospedale dell’organizzazione fondata da Gino Strada), con l’accusa gravissima di essere tra gli organizzatori di un attentato contro il governatore della provincia di Helmand.
Per il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, la liberazione dei tre volontari è “un sollievo per tutti”. Forse lo è di meno per quelli che sin dal primo momento avevano gettato benzina sul fuoco, avallando acriticamente un’accusa inverosimile e infamante sulla base di un pregiudizio ideologico molto diffuso a destra: Strada è un irregolare, dogmatico nel suo ripudio della guerra “senza se e senza ma”; Emergency non fa distinzione nel prestare soccorso ai feriti, siano essi civili, militari o terroristi. Per questi motivi, ha abbastanza credito in certi ambienti la deduzione di relazioni pericolose con i fondamentalisti islamici.
I primi ad avvalorare la tesi di “Strada terrorista” erano stati i giornali del Gran Capo, con il ritratto a tutta pagina del fondatore di Emergency vestito da talebano o con alcuni titoli (“Terroristi, vittime o pirla”) che insinuavano il dubbio di una complicità quasi necessaria, a meno che i volontari non fossero davvero degli sprovveduti.
Anche qualche politico con responsabilità di primo piano ha sentito il bisogno di esternare e non ha fatto di certo una figura leggendaria.
Alfredo Mantica, sottosegretario agli Esteri: “Il governo italiano deve accertare la verità, mi auguro che la verità dia ragione a Gino Strada, ma ho delle perplessità”. Parole non esattamente improntate alla cautela, tanto per usare un eufemismo, condite dalla stoccata finale: l’accusa a Strada e ad Emergency di fare “un po’ troppa politica” a dispetto della vocazione umanitaria. Anche le dichiarazioni di Larussa e Capezzone sono apparse quasi compiaciute per l’imbarazzo e la difficoltà in cui si è trovata Emergency. Segno che non deve essere la simpatia il sentimento più diffuso negli ambienti governativi e che a qualcuno non sarebbe affatto dispiaciuto approfittare dell’incidente per screditare e distruggere mediaticamente il detestato Strada. D’altronde, ONG e cooperanti, ma anche giornalisti e freelance (come Enzo Baldoni o Giuliana Sgrena) sono spesso dipinti come quelli che, in fondo “se la cercano”, alla stregua degli incoscienti che vanno in vacanza in Yemen nonostante le raccomandazioni contrarie del governo.
Su cosa possa celarsi dietro la scoperta dell’arsenale trovato all’interno dell’ospedale (due cinture da kamikaze, cinque pistole, nove bombe a mano) non ci sono molte certezze. È stato rievocato il rapimento di Daniele Mastrogiacomo (2007), una vicenda che lasciò strascichi a causa del ruolo decisivo svolto da Emergency nella trattativa per la liberazione del giornalista di Repubblica. In particolare, i fratelli dell’autista di Mastrogiacomo, che fu barbaramente sgozzato dai talebani, hanno accusato l’ospedale di essere una “centrale” del terrorismo.
Per Strada si tratta invece di un complotto ordito dai servizi di sicurezza afghani e dalle stesse truppe britanniche Isaf per togliere da quell’area un testimone scomodo (Emergency) nel momento in cui si profila l’offensiva di primavera contro i talebani di quella provincia, che presumibilmente verrà condotta senza tanti riguardi per la popolazione civile. Gli arcinoti “effetti collaterali” delle guerre, ma anche di quell’ossimoro che è la missione di pace condotta da soldati armati fino ai denti.
Se fosse davvero questo l’obiettivo, purtroppo è stato raggiunto, dato che l’ospedale è stato momentaneamente chiuso e tutto il personale trasferito a Kabul.

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Un silenzio assordante

Sono trascorse due settimane dalla cocentissima sconfitta subita dal centrosinistra in Calabria, eppure quasi nessuno, tra gli esponenti del PD, ha sentito il dovere di fare sentire la propria voce. È sintomatico che gli unici a spendere qualche parola siano stati coloro che nel PD vivono quasi da stranieri, perché provengono da esperienze differenti rispetto alle due correnti prevalenti (post-comunista e post-democristiana) e hanno sempre mantenuto una propria autonomia, come il socialista Sandro Principe, o perché minoritari e assolutamente emarginati, come Fernanda Gigliotti, esponente della corrente che a livello nazionale fa riferimento ad Ignazio Marino, la quale ha caricato a pallettoni contro l’attuale gruppo dirigente regionale: “Perché lasciare un partito nella mani di chi lo ha condotto ad una sconfitta senza precedenti? Perderemo di nuovo e peggio se non avremo il coraggio di operare scelte, di avanzare proposte riformiste, di intervenire laddove ci sono fenomeni di microfeudalizzazione da eliminare, impresentabili da rimuovere, millantatori da screditare. Sono quasi tre anni, complice una segreteria regionale “assente” e prigioniera di un finto unanimismo, che in Calabria ci fanno vedere un partito che non c’è. Lo dimostrano i dati elettorali che, in molti comuni, vedono il PD prendere meno voti di quanti sono stati i presunti partecipanti alle ultime primarie”.
Una denuncia gravissima, alla quale non è seguita alcuna risposta, che svela uno dei tanti segreti di Pulcinella: le primarie per la scelta del governatore sono state fasulle, un tarocco come le precedenti elezioni per gli organismi regionali e provinciali del partito.
Per la verità, non abbiamo l’esclusiva. La fiction delle primarie va di scena a tutte le italiche latitudini sin da quando questo meccanismo di selezione è stato deciso a livello nazionale. Ciò avviene per un semplice motivo: le primarie hanno un senso laddove (come accade negli USA) nascono dal basso, non dove sono imposte dall’alto come strumento di legittimazione di decisioni prese dai “soliti noti”, quattro-cinque maggiorenti seduti attorno al tavolo di un ristorante. Tant’è vero che in Puglia, dove non c’era un accordo preordinato, si è tentato in tutti i modi di farle saltare. Un’operazione che, se fosse andata in porto, con tutta probabilità avrebbe fatto perdere le elezioni al centrosinistra anche là. Autolesionismo puro, di quello al quale la sinistra ci ha ormai da tempo abituati. Ma che è scontato in un paese in cui ciò che conta è mantenere la propria poltrona, continuare a coltivare il proprio orticello a dispetto di ogni interesse generale.
Sulla stessa lunghezza d’onda della Gigliotti l’unico esponente democrat reggino che dopo la debacle elettorale ha tentato un’analisi onesta su quanto accaduto, Demetrio Battaglia, parecchio a “disagio” per l’atteggiamento dei vertici del partito: “Nessuno che dice: ho sbagliato. Tutti si affaticano a elencare gli errori degli altri. Per chi volontariamente ha dato l’anima per passione e convincimento, e sono tantissimi, è intollerabile questo agitarsi da ultimi giorni dell’impero. Non è difendibile l’arraffa arraffa di quel che è stato risparmiato dal disastro elettorale. Credo, soprattutto spero, sia l’ultima ingloriosa pagina di una storia vecchia, quella di un partito mai nato”.
Un partito mai nato: ecco un’altra scomoda verità, che bisognerà smettere di ignorare, se si vuole ripartire da qualche certezza, pur negativa.
E che presuppone una premessa irrinunciabile: i vertici (sia regionali che provinciali) vanno azzerati, dato che non rappresentano quasi nessuno, a parte i pochi protagonisti del patto scellerato tra un gruppo di consiglieri regionali (tenaci oppositori della candidatura di Loiero a governatore) non più ricandidabili a norma di statuto, con lo stesso Loiero, il quale, in cambio del loro sostegno, ha favorito la deroga per farli ricandidare. Nel silenzio generale, senza che nessuno abbia davvero fatto qualcosa per opporsi a questo sconcio. Tanto meno il segretario regionale. Anzi, per dirla con le parole di Battaglia: “Ha strillato? S’è opposto? Ha fatto la mossa di dimettersi per far saltare l’ignobile compromesso? No, zitto in cambio della sua candidatura al Consiglio. L’ha afferrata e soddisfatto ha mollato per tutta la campagna elettorale il Pd a se stesso”.
Un gesto di responsabilità e di dignità come quello delle dimissioni sarebbe davvero auspicabile, ma dubito che questa classe dirigente sia capace di tanto slancio.
Un punto di partenza potrebbe pertanto essere la proposta di Romano Prodi: un partito federale, ancorato al territorio, con venti segretari regionali che eleggono il segretario nazionale, e dove non contano le tessere (in tanti paesi della nostra provincia il PD è stato votato da meno di un terzo dei propri iscritti) ma i voti effettivamente riportati nelle elezioni. Solo così, forse, si potrebbero mettere nell’angolo i caciccchi e i notabili locali, quelli che da trent’anni fanno il bello e il cattivo tempo, incollati alle proprie poltrone senza dare conto a nessuno del proprio operato.

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Minita

Più o meno 35 anni fa, quando ho cominciato ad articolare qualche frase, a chi mi chiedeva quale fosse il mio nome rispondevo “Minita”. Di quell’età ho conservato, negli anni, soprattutto la curiosità, il piacere della ricerca e la capacità di stupirmi per le scoperte che la vita riserva a ciascuno di noi. Ma ogni scoperta, ogni pensiero, per avere vita hanno bisogno di essere condivisi, altrimenti si rivelano soltanto un esercizio sterile. È quello che mi auguro di poter fare grazie a questo blog con coloro che troveranno interessanti e degni di discussione gli argomenti che di volta in volta proporrò o verranno da altri suggeriti.
Devo ammettere che non provo molta simpatia per chi, bardato da una solidissima e inattaccabile armatura concettuale, ha sempre pronta la risposta per ogni interrogativo. Non credo che esista una verità valida sempre e ovunque, ma infinite verità. A volte è difficile riuscire a sostenere con sicurezza cosa sia giusto e cosa sia sbagliato: oggi riteniamo esecrabili comportamenti e convinzioni che i nostri avi consideravano legittimi ed eticamente corretti. Dipende tutto dal contesto storico, culturale e sociale cui facciamo riferimento. Per questi motivi mi trovo più a mio agio con chi è ben disposto al confronto e a rivedere, se necessario, le proprie certezze per trovare, nel rapporto dialettico, le risposte alle tante domande che chiunque abbia un minimo di sensibilità quotidianamente si pone.
“Quante strade deve percorrere un uomo prima di poterlo chiamare uomo?”. È la domanda con cui Bob Dylan, quasi cinquant’anni fa, cambiò non solo il modo di fare musica, ma anche la vita di milioni e milioni di giovani, consegnando alla storia un interrogativo che rimane di straordinaria attualità.
Quando il senso di vuoto e la solitudine del pensiero diventano insopportabili, in una società in cui sembra paradossale l’isolamento, può risultare utile anche affidare alle onde virtuali della rete un messaggio dentro la bottiglia. A futura memoria.

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