Il ballo del candidato

Sembra di assistere a quel filmato Rai in bianco e nero nel quale un giovane Enzo Jannacci, interpretando Vengo anch’io. No, tu no, si produce in esilaranti piroette, mentre va avanti e indietro sul palcoscenico. Al momento, si intuiscono molti ballerini, tutti animati da buone e legittime dosi di ambizione. Il balletto però è quello. Non si balla da soli, ma quasi. Ogni aspirante sindaco raccoglie attorno a sé tre-quattro fedelissimi, apre la ruota del pavone e aspetta di vedere “l’effetto che fa”. Se la reazione non è incoraggiante, fa un passo indietro e si ripropone a distanza di tempo.
Uno degli effetti più disastrosi della politica senza partiti è l’improvvisazione. A livello locale, è ancora più evidente che tutto si è ridotto alla capacità del singolo di compattare gruppi di supporto alle proprie velleità. Leaderismo in sedicesimo. Per i programmi sulle prospettive future della comunità e per la visione d’insieme su quel che si intende fare, meglio ripassare. D’altronde, interessano a qualcuno, in elezioni che si riducono a scontro tra le solite famiglie o gruppi di potere, per cui si vota il fratello, il cugino, lo zio, il compare, il datore di lavoro, indipendentemente da ogni altra considerazione?
Nonostante lo scoppiettio di fuochi di paglia più o meno duraturi e credibili, l’attesa maggiore è per le mosse dei due big della politica eufemiese, il consigliere regionale Luigi Fedele e il sindaco Enzo Saccà, entrambi fino ad ora abbottonatissimi e ostentatamente distaccati. Un po’ troppo per non alimentare i sospetti di tatticismo. I tempi stanno stringendo, le elezioni della prossima primavera sono alle porte e chi ha fiato deve cominciare a correre. L’inciucio immaginato da alcuni settori dell’opinione pubblica appare altamente improbabile, dopo il siluro agostano scagliato contro Saccà da Scopelliti – del cui “cerchio magico” fa parte Fedele – sulla gestione allegra e impropria dei fondi Asi. Chi vivrà, vedrà.
Il bilancio dell’amministrazione Saccà, a meno di un anno dalla sua naturale scadenza, è sufficiente soltanto se non si tiene conto delle promesse fatte in campagna elettorale. Che sono state tante. Probabilmente troppe. Nulla da eccepire sull’ordinaria amministrazione, sulla gestione finanziaria dell’Ente (che non è poca cosa) e sui finanziamenti per opere pubbliche e progetti che pure hanno impinguato le casse comunali. Le aspettative però erano altre, gli interventi strutturali in grado di promuovere lo sviluppo economico e migliorare la qualità della vita dei cittadini non si sono visti. Dei centodieci posti di lavoro, settanta dalla realizzazione di un impianto per la produzione di energia con combustione di biomassa, quaranta dallo sviluppo di un grande mercato ortofrutticolo, neanche l’ombra: “su questo impegno, io scommetto la credibilità della mia storia politica”. Scommessa persa. Sono rimasti chiusi nel libro dei sogni anche il riconoscimento di origine protetta dei prodotti ortofrutticoli locali, il piano di promozione turistica e artigianale, la casa della cultura, il centro di aggregazione giovanile e quello per anziani.
Quando ogni cosa, anche la più insignificante, deve passare dalle mani del sindaco, diventa tutto molto complicato. Per questo motivo esistono le deleghe. Un nuovo modo di fare politica non può prescindere da un processo di responsabilizzazione generale. Perché costituisce anche un comodo alibi quello di nascondere l’inerzia dello staff dietro il protagonismo del capo. Gioco di squadra. Ognuno ha un compito preciso da svolgere e, in caso di inadempienza, va sostituito senza esitazione. Non è necessariamente questione di persone, quanto di una mentalità nuova, di un differente modo di rapportarsi con il cittadino, più sincero, meno propagandistico e meno arrogante. Diventa un problema di nomi se si persevera nell’autoreferenzialità e nella strafottenza, sordi e ciechi di fronte ai segnali di malcontento e alle richieste di un rinnovato approccio nella gestione della cosa pubblica.

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Liberate Francesco!

Francesco Azzarà è un operatore di Emergency, logista nell’ospedale pediatrico che l’Organizzazione di Gino Strada ha aperto a Nyala, Darfur. Dal 14 agosto è prigioniero di un gruppo di terroristi, o forse di una banda di criminali, come ce ne sono tante nei luoghi di guerra, che si autofinanziano attraverso i rapimenti degli occidentali, preferibilmente volontari di Organizzazioni Non Governative. Sulla questione, i punti oscuri sono ancora maggiori rispetto alle certezze. La Farnesina sta facendo il suo lavoro, ma non lascia trapelare nulla, probabilmente per non compromettere la riuscita della trattativa. Insieme ai reporter, i volontari sono, incredibilmente, gli obiettivi più facili di una guerra: in genere non sono armati e sono sempre sovraesposti rispetto a chi assiste comodamente seduto nei divani degli alberghi, in attesa delle veline dei governi. Emergency, poi, ha fatto della presenza sul campo la propria ragione di vita. Ed è davvero vigliacco attaccare chi dedica la propria vita per curare persone che altrimenti non avrebbero alcuna assistenza sanitaria, nei teatri di guerra più difficili.
Nell’ultima settimana, la mobilitazione per chiederne la liberazione, iniziata quattro giorni dopo il rapimento con la fiaccolata svolta a Motta San Giovanni (RC), paese natale di Azzarà, è cresciuta e ha coinvolto anche le istituzioni politiche. Diversi Comuni (per primo quello Firenze), la Provincia di Reggio Calabria e la Regione Calabria, hanno srotolato dalle finestre l’immagine di Francesco, le iniziative si susseguono una dopo l’altra e il tam tam, approdato sul web, si sta diffondendo velocemente.
Francesco Azzarà è un calabrese che fa onore alla nostra regione. Speriamo che la sua vicenda si possa risolvere al più presto. Nel frattempo, teniamo accesa la fiammella della speranza.

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I gattini di Totò e l’Ordine dei giornalisti

Il paragone con il Padreterno, capace in soli sei giorni di “scrivere” il libro dell’Universo e di guadagnarsi, così, ventiquattro ore di meritato riposo, è improponibile e vagamente blasfemo. Però deve esistere un termine ragionevole per il rilascio di un semplice tesserino, pena l’arruolamento automatico per il festival della lentezza.
Sono iscritto all’albo dei giornalisti della regione Calabria dal 4 giugno 2003 (prot. n. 2136 del 25 agosto 2003), ma non ho ancora il tesserino. Ho sempre pensato che per fare valere un diritto acquisito non debbano servire raccomandazioni speciali. A Dio quel che è di Dio, a Cesare quel che è di Cesare, a me quel che è mio. Ritenevo che, nonostante le lungaggini burocratiche nostrane, in un tempo accettabile avrei potuto sventolare l’agognato pezzo di plastica. Inizialmente, ho anche tentato di mettermi in contatto telefonico con gli uffici regionali dell’Ordine. Invano. Ho in seguito scoperto che l’apertura al pubblico è limitata al lunedì, dalle 9.00 alle 11.00. Quando sono finalmente riuscito a parlare con qualcuno, mi è stata data una risposta che – per usare un eufemismo – non è stata il massimo della cortesia. Di perdere una giornata per recarmi di persona a Catanzaro, non mi sembrava il caso. Non era un problema urgentissimo e per un po’ non ci ho proprio pensato. Me ne sono ricordato a giugno 2010, senza alcun motivo, visto che da anni ho deciso di non farmi più sfruttare da alcun giornale come corrispondente locale.
Ora è una questione di principio. Voglio il mio tesserino. Mi sono rivolto al sindacato dei giornalisti di Reggio Calabria, dove mi è stato spiegato che probabilmente la mia pratica è andata dispersa nel passaggio dalla fase gestita dal commissario Antonio Cembran al regime ordinario (come dopo il crollo di una dittatura!), per cui ho rifatto tutto daccapo. Nuova domanda, nuova foto e versamento delle quote annuali non corrisposte. Mi è stato però anche detto che per il tesserino avrei dovuto attendere l’autunno. Si sa, le ferie estive bloccano tutto. Passa luglio, passa agosto e, purtroppo, passano anche i mesi successivi. Nel frattempo, pago la quota per il 2011 e, di tanto in tanto, rinfresco la memoria al sindacato. Il 26 marzo scorso, il segretario del sindacato dei giornalisti, Carlo Parisi, risponde alla mia ennesima lamentela comunicandomi che avrebbe diffidato l’Ordine. Non succede niente lo stesso. Si approssima la seconda estate e comincio a pensare che “se ne parla dopo le ferie”, nonostante l’ottimismo del sindacato. Purtroppo, avevo ragione io. Provo a fare da solo, collegandomi al sito dell’Ordine (www.odgcalabria.it), ma il link “contattaci” non è attivo.
Nel suo irresistibile “latinorum”, il grande Totò sosteneva che gattibus frettolosibus fecit gattini guerces, ma qua si sta decisamente esagerando. Otto anni sono quasi tremila giorni. Per scrivere il Paradiso, una roba più impegnativa della compilazione di un minuscolo rettangolo, Dante impiegò molto meno. E non aveva il computer, né la macchina da scrivere, né uno straccio di biro.

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Che marcia nuziale!

Mio fratello mi aveva anticipato che al suo matrimonio ci sarebbe stata una sorpresa, ma non pensavo che al momento di fare ingresso nella sala invece della marcia nuziale sarebbe partito, a tutto volume, un assolo di chitarra del genere! Ho colto sul viso degli invitati più stagionati un po’ di disorientamento, sui nostri amici molta simpatia per quel personaggio sui generis che Luis è sempre stato…

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Storia di un seme che si è fatto pianta

Erano tutte occupate le poltroncine del teatro della scuola media “Vittorio Visalli”, che ha ospitato il convegno celebrativo per i venti anni dell’Associazione di volontariato cristiano “Agape”. Una celebrazione sobria, senza alcun intento apologetico, ma – come ho avuto modo di considerare nel mio intervento – “con l’umiltà e l’orgoglio di chi è consapevole di svolgere un ruolo prezioso all’interno della comunità eufemiese”. Il tema del convegno (“Le nuove frontiere della solidarietà”) avrebbe dovuto essere svolto da due personalità di primo piano dell’associazionismo provinciale, Giuseppe Pericone e Mario Nasone, rispettivamente direttore e presidente del Centro servizi al volontariato “dei due mari” di Reggio Calabria, struttura prevista dalla legge quadro del volontariato (266/1991) per “promuovere, sostenere e sviluppare le organizzazioni di volontariato e l’associazionismo”.
Gravi problemi familiari hanno purtroppo costretto al forfait Nasone, che è anche presidente del Centro comunitario Agape di Reggio Calabria, fondato nel 1968 da don Italo Calabrò (“Amatevi tra di voi di un amore forte, di autentica condivisione di vita; amate tutti coloro che incontrate sulla vostra strada. Nessuno escluso, mai!”), e che da decenni conduce importanti battaglie per contrastare situazioni di abbandoni, abusi, devianze ed emarginazione sociale.
Il consigliere del Csv Bruno Furfari ha rivolto un breve saluto, quindi il presidente dell’Agape, Pasquale Condello, ha ripercorso i venti anni di servizio dell’associazione in favore dei soggetti più deboli ed emarginati: anziani, minori, disabili. Ha inoltre letto il saluto del fondatore don Benito Rugolino (“avete riempito il mio vecchio cuore di esultanza e vitalità”), che prima di partire per Torino (dove vive) aveva visitato la sede e si era dichiarato felice perché “il seme piantato venti anni fa è diventato una pianta robusta”.
Pericone ha raccontato una favola dei nostri giorni, protagonista un extracomunitario della rivolta di Rosarno, che si conclude con un messaggio di pace universale, da raggiungere smettendola di alzare muri e cominciando a costruire ponti.
La proiezione di un emozionante videoclip realizzato da Iole Luppino e Gina Bagnato (“Vent’anni d’amore”) che ripercorre con le immagini la storia dell’Agape, fino al recente pellegrinaggio a Lourdes, ha preceduto gli interventi del pubblico e il buffet di dolci finale. I volontari rimasti per rimettere in ordine la sala hanno poi concluso la serata con una spaghettata e una grigliata al ristorante preferito dall’associazione, “da Teresa e Vince”.

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Il vocabolario “femijotu” di Giuseppe Pentimalli

Si è tenuta ieri, presso la sala consiliare del comune di Sant’Eufemia d’Aspromonte, la presentazione del Vocabolario ragionato del dialetto femijotu, di Giuseppe Pentimalli. Positiva la risposta del pubblico, sia in termini numerici che sotto il profilo dell’interesse e dell’attenzione dimostrati per un’iniziativa partecipata da una confortante percentuale di giovani. In qualità di moderatore, ho svolto un breve intervento iniziale, al quale sono seguiti i saluti del sindaco Vincenzo Saccà, che si è soffermato sulle qualità umane e professionali dell’autore, apprezzate in anni di comune impegno politico e amministrativo. La relazione del professore Filippo Ascrizzi ha messo in rilievo la funzione e il significato di ribellione dell’uso del dialetto nei confronti della cultura dominante, mentre il professore Rosario Monterosso ha sottolineato l’importanza e l’attualità di un vocabolario dialettale nell’epoca di internet e del linguaggio sgrammaticato degli sms. Il glottologo e linguista Paolo Martino, della Lumsa di Roma, ha quindi confermato il valore scientifico e innovativo dell’opera, che “sarebbe più corretto definire dizionario etimologico”. In chiusura, l’appassionato intervento dell’autore: un’accorata difesa della cultura “bassa” nei confronti di una presunta cultura “alta”, tale per definizione, convenzione e imposizione dall’esterno. Quel che segue riproduce, più o meno, il mio intervento.

Ringrazio il professore Pentimalli per avermi coinvolto in un’iniziativa dall’elevato contenuto culturale. Relatori più competenti di me affronteranno gli aspetti tecnici e specialistici del volume. Il mio compito sarà invece quello del vigile. Quello cioè di dirigere il traffico e dare la parola ai relatori che si succederanno, provvedendo a tenere in caldo il microfono tra un intervento e l’altro.
Non essendo io un esperto della materia, credo che il professore Pentimalli abbia voluto la mia presenza per una questione di stima e di affetto, che sono reciproci. D’altronde, negli anni abbiamo avuto spesso modo di confrontarci su alcune questioni e ogni volta che ho pubblicato qualcosa, Pentimalli è stato tra i primi ad averne copia.
Ciò che penso di potere anche io sottolineare, da profano, è la caratteristica principale del vocabolario che, come dice il titolo stesso, è “ragionato”. Ciò ha comportato per l’autore, evidentemente, uno sforzo supplementare: per ogni lemma (quasi 10.000), viene spiegata l’etimologia, ma anche le trasformazioni che esso ha subito nel tempo e nella parlata comune, fino alla versione definitiva. Per questo motivo, consiglio ai fruitori del vocabolario di leggere attentamente la nota introduttiva, laddove sono contenute indicazioni preziose e fondamentali per districarsi in questa complessa materia, e rimandare ad un secondo momento la ricerca dei termini che la curiosità certamente alimenterà. Un’altra peculiarità di rilievo è la corposa Appendice, che non costituisce un riempitivo, bensì il tentativo di rinverdire una tradizione fatta di modi di dire, proverbi, locuzioni e frasi a doppio senso che vogliono contrastare il “lento e progressivo spegnimento dei dialetti” preconizzato da più parti.
Prima di cedere il microfono per il primo intervento, vorrei rubare qualche minuto per dire, fondamentalmente, due cose. La prima, sull’intellettuale “eufemiese” Giuseppe Pentimalli, quarant’anni di insegnamento, trentatré dei quali presso l’Istituto superiore “Nicola Pizi” di Palmi, come docente di latino e greco. Cultore raffinato dei classici latini e greci e della loro interpretazione, come si può apprezzare nella raccolta Le muse discinte (2006), ma anche attento studioso degli aspetti storico-sociali della storia calabrese, che hanno avuto una sistemazione organica nel libro La Calabria antica (2003), riguardante l’arco temporale che va dall’età della pietra al 1060 dopo Cristo.
Cito volutamente per ultimo il saggio La ricostruzione del paese dopo il terremoto del 1908, contenuto nel volume edito da Rubbettino nel 1997 che raccoglie gli Atti del convegno di studi per il bicentenario dell’autonomia, organizzato dall’Associazione culturale Sant’Ambrogio nel 1990. E mi accosto a questo lavoro con profondo rispetto, perché ha avuto su di me un’influenza particolare, come spunto e termine di paragone e confronto per il mio libro sulla storia politica e amministrativa di Sant’Eufemia d’Aspromonte.
Ma c’è ancora un altro aspetto della figura di Pentimalli che va messo in evidenza: l’impegno di un intellettuale calato nella sua realtà e nel suo tempo, protagonista di primo piano negli ambienti culturali eufemiesi, ma non solo, se si pensa agli anni in cui il professore ha avuto responsabilità politiche e amministrative, come sindaco del paese a più riprese (1976-79; 1985-90; 1990-92) e, più in generale, come esponente di punta della sezione locale del partito comunista italiano. In questo quadro d’insieme, va inoltre ricordato il decennio di direzione della rivista “Incontri” (1995-2005), edita dall’Associazione culturale Sant’Ambrogio, sulla quale per la prima volta, ai tempi ormai lontani del liceo, io stesso vidi pubblicato il mio primo articolo e della quale, personalmente, avverto parecchio la mancanza.
Questo è per me “Peppino” Pentimalli, uno dei migliori figli della comunità eufemiese. Riporto – vox populi, vox dei – quanto dichiarato da un mio amico quando ha saputo della pubblicazione del vocabolario: “Solo Pentimalli poteva scriverlo”. Io non lo so se poteva scriverlo solo lui. Di certo, però, l’ha fatto e credo tanto basti per tributargli un doveroso ringraziamento.

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Non sono proprio ferie, ma bisogna dire così…

Non vado in ferie. Non ci sono mai andato. Almeno, non secondo i parametri riconosciuti internazionalmente. Per chi vive in Calabria, è abbastanza consueto… In genere, se non si ha la fortuna di possedere una casa al mare (e io appartengo a questa categoria), ci si organizza per delle sfacchinate, andata e ritorno dal mare sotto il sole cocente della Salerno-Reggio Calabria. Oppure ci si dà al piccolo cabotaggio (Tropea, Eolie, ecc.), da realizzare in uno-due giorni di fuoco. Da qualche anno mi sono stancato di questa vita da pendolare, ma qualcosa da fare la si trova sempre. Tra parenti che non rinunciano a qualche settimana (o mese, per i pensionati) nella propria terra di origine, impegni nelle associazioni, incontri più o meno culturali, di intrattenimento o soltanto culinari, incremento delle attività sportive, escursioni in provincia, a caccia del cantante buono “a gratis”, tempo per occuparsi del blog ne rimane poco. Credo pure che, per chi lo fa durante l’anno, ne rimanga poco per leggerlo.
E comunque farà bene anche soltanto staccare la spina, al di là della vacanza che non ci sarà! Il blog dà soddisfazioni, ma richiede anche una dedizione tanto piacevole quanto impegnativa.
Per cui, buone vacanze a tutti. A meno di qualche imprevedibile incursione, speriamo di ritrovarci a settembre con ancora la voglia di dire qualcosa.

Ho preso in prestito l’immagine che vedete dal sito “Alessia scrap & craft…”
http://www.4blog.info/school/2011/nuovo-cartello-per-i-blog-in-ferie/

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La lotteria

Il numero estratto sulla ruota della disperazione è il 26. Numeri invece delle persone e dei loro volti, anche questa è una tragedia. Se vedessimo le facce di questi sventurati, non soltanto il telo azzurro come il mare dei loro sogni a coprire corpi asfissiati, sarebbe diverso. Saremmo tutti più umani. Riusciremmo a comprendere cosa vuol dire stare dalla parte dei “sommersi” e quanto possa essere casuale ritrovarsi tra i “salvati”, proprio come nell’universo concentrazionario descritto da Primo Levi.
Capiremmo che ritrovarsi in sessanta stipati nel vano motore di una carretta del mare stracolma di migranti, piuttosto che sulla tolda, all’aria, è una questione legata esclusivamente alla cesoia di Atropo. Basta che qualcuno dica: “sotto si sta meglio, senza sole di giorno e senza freddo la notte” e si scende, forse contenti per avere avuto la soffiata giusta prima degli altri. Ma si muore, dopo tre giorni passati incollati uno sull’altro, per i miasmi dei motori e per le bastonate degli scafisti che risospingono sotto chi tenta di uscire da una vera e propria camera a gas.
“Ma non era così/ che mi credevo di andare/ no non era così/ come un ladro, di notte/ in mano a un ladro di mare”, canta Gianmaria Testa in Rrock. No, non è così per nessuno dei disperati che tenta di sfuggire a un destino di miseria affidando la propria vita ai trafficanti di carne, in molti casi anche indebitandosi per un punto interrogativo. Come altro definire un viaggio rischiosissimo, su pescherecci traballanti che si inabissano alla prima onda alta? È ancora vivo il ricordo del naufragio dell’aprile scorso nel canale di Sicilia, costato la vita a 250 migranti partiti dalla Libia su un barcone, probabilmente dopo un interminabile ed estenuante viaggio attraverso il deserto, in fuga dai Paesi più poveri e insanguinati dell’Africa.
Corpi gonfi d’acqua, quando si riesce a recuperarli, o asfissiati, come nella tragedia accaduta al largo di Lampedusa. Corpi – a volte portati a destinazione, a volte gettati a mare – dei più deboli o di coloro che si ammalano e non ce la fanno. Corpi che vengono risucchiati dal deserto, volti anonimi sui quali, più di un anno fa, ha fatto luce un reportage di Fabrizio Gatti sulle stragi che possono comportare i rimpatri previsti dagli accordi bilaterali tra Italia e Libia.
Sulla vita dei migranti si giocano spesso partite strumentali, alimentate dalla paura di una consistente parte di opinione pubblica. Un po’ quello che avveniva nei nostri confronti “quando gli albanesi eravamo noi”, per dirla con il titolo di un libro di Gian Antonio Stella. Anche allora i “vascelli della morte” non sempre arrivavano a destinazione, come accadde nel 1891 al largo di Gibilterra, quando il naufragio dell’Utopia provocò la morte di 576 Italiani.
Proprio il rispetto che dobbiamo alla nostra storia e ai drammi dolorosissimi vissuti dall’emigrazione italiana ci impone di non scadere nella polemica politica del “foera di ball”, ogni volta che lo straniero fornisce il pretesto per affidarsi alla pancia e all’istinto, in una questione che è principalmente di civiltà e di umanità. Con protagonisti uomini, donne e bambini, non numeri.

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Anni come giorni volati via

In una canzone di successo Raf si domandava cosa sarebbe rimasto degli anni ’80, il decennio che ha portato la mia generazione alla soglia della maggiore età e che, come tutto ciò che il trascorrere del tempo rende romantico e “mitico”, appartiene alla sfera dei ricordi più piacevoli.
Innanzitutto gli odori. Quello della casa di mia nonna e delle rose bianche del suo piccolo giardino. A ripensarci adesso, l’orzata che ci preparava era imbevibile. Troppo dolce. Eppure andavamo al fondo del bicchiere d’un fiato, come con la gassosa al limone Marra, di gran lunga superiore alla Romanella. Era quello il rifugio dei nipoti per un break tra un gioco e l’altro: pane con olio e sale, oppure i gelati che eravamo autorizzati a prendere a credenza da Micuzzu ’u Grugnu o da Grazia ’a Rofalazza, tanto poi la nonna saldava tutto. Di nascosto dal nonno, però, che aveva una concezione del denaro molto genovese. La pipa della Gelca gusto vaniglia ci faceva assumere pose da adulti, nonostante i sandali color cuoio con fibbia allacciata sulla caviglia e i pantaloncini extra corti da maratoneta.
A mano a mano, gli spazi da conquistare aumentarono. Il campo da gioco della “tola” – una variante del nascondino – non aveva alcun limite. Anzi, quando il ruolo di cacciatore toccava al meno sveglio del gruppo, alcuni si rifugiavano in una lontanissima sala giochi o se ne andavano addirittura a casa. Con le biciclette si girava il paese, attaccata al manubrio o sotto la sella la targhetta con il numero personalizzato: ne avevamo recuperate a decine quando distrussero – verbo quanto mai calzante – il vecchio palazzo municipale. I più audaci si spingevano fino alla ferrovia e attraversavano il ponte e la galleria, correndo all’impazzata per nascondersi nelle “nicchie” quando la littorina annunciava il suo arrivo. Era la linea (dismessa dal 1997) che da Sinopoli portava a Gioia Tauro, utilizzata dai lavoratori, da coloro che frequentavano le scuole superiori fuori paese e da chi si concedeva un colpo di vita al cinema “Sciarrone” di Palmi.
Lo sport più praticato era il calcio. In qualsiasi posto. Per strada, in pineta, al municipio, ma soprattutto in piazza, dove con Micuzzu du’ café e suo fratello si combatteva una quotidiana guerra di logoramento: noi compravamo i palloni, loro li sequestravano. Anche se potevamo contare sulla quinta colonna dei loro nipoti che spesso e volentieri riuscivano a recupere quanto ci veniva sottratto. Quando non ci era consentito utilizzare un pallone “normale” – raramente il tango, in effetti troppo pesante per giocarci in piazza: solitamente il super santos, che era migliore del super tele – ci si arrangiava con quello di spugna. Nei momenti di maggiore tensione e di divieto assoluto, andava bene anche la pallina da tennis di spugna o – incredibile, ma vero! – la lattina di una bibita schiacciata.
Il mito era Shingo Tamai, l’antenato di Oliver Hutton capace di tiri impossibili, con il pallone che si deformava per la potenza del calcio e si impennava altissimo, prima di ricadere in terra e schizzare verso la porta, imparabile, dopo un lungo vorticare. I cartoni animati erano una costante dei nostri pomeriggi: il pugile Rocky Joe; le lotte titaniche dei robot dotati di armi potentissime (l’alabarda spaziale di Goldrake, i raggi fotonici di Mazinga Z e quello protonico di Jeeg Robot d’acciaio); il fascino della cicatrice sullo zigomo di Capitan Harlock; le peripezie dello sfortunatissimo Remì; Dick Dastardly e il suo assistente sghignazzante, il cane Muttley, alle prese ora con la cattura del piccione viaggiatore, ora con le “corse pazze” contro il Diabolico Coupé, Penelope Pitstop, l’Insetto Scoppiettante e tanti altri.
Sul finire del decennio, inaspettatamente, arrivò a casa mia il motorino, un Califfo dotato di pedali che in salita non ne voleva proprio sapere di andare. Un’esperienza brevissima, conclusasi senza alcun rimpianto. Anni dopo ne ho rivisto uno simile in una televendita: lo davano in omaggio, insieme ad altri articoli, a chi acquistava una batteria di pentole e un servizio completo da tavola.

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