Questione di quorum

Da lunedì sera assistiamo al consueto balletto delle cifre e dei commenti sull’esito della consultazione referendaria. Legittimo che ognuno cerchi di tirare acqua al proprio mulino, ma va subito fatto notare che è finita come nelle precedenti volte dal 2000 ad oggi, fatta eccezione per il referendum del 2011 (acqua, nucleare, legittimo impedimento): mancato raggiungimento del quorum. E non per una percentuale infinitesimale: sette italiani su dieci hanno preferito fare altro piuttosto che recarsi al seggio.
Da destra si è subito gridato al trionfo, interpretando la scarsa affluenza come una rinnovata fiducia per Meloni e soci. Anche perché l’indicazione della coalizione al governo era stata proprio quella di disertare le urne, tranne la pattuglia di “Noi moderati” schierata per il no. Pur senza averne la controprova, con un pronostico in bilico è molto probabile che il distinguo non ci sarebbe stato. Ad ogni modo, anche il cittadino più sprovveduto è in grado di comprendere che intestarsi il 70% di astenuti è una forzatura priva di qualsiasi fondamento.
A sinistra non si è potuta nascondere la delusione. Tuttavia si è presa in mano la calcolatrice per verificare come l’affluenza sia stata superiore di quasi due milioni rispetto ai voti avuti dal centrodestra nelle ultime elezioni politiche. Ma anche in questo caso la forzatura è di facile lettura, posto che non tutti i votanti sono ascrivibili al centrosinistra: senza contare il dato deludente del quesito sulla cittadinanza, che semmai evidenzia ulteriormente quanto sia complicato fare convergere su una posizione unitaria le diverse anime dell’opposizione (Ucraina docet).
A perderci, ancora una volta, è la fiducia degli elettori. Svogliati, rassegnati di fronte ad uno spettacolo che puntualmente si ripete. E nel quale i referendum diventano armi di lotta interna, a prescindere dai contenuti. Non proprio un bel vedere, se pensiamo all’importanza di un istituto che ha rilevanza costituzionale e che invece si ritrova svilito della funzione di espressione della volontà popolare. Uno strumento che ha contribuito notevolmente alla crescita democratica dell’Italia, ridotto a parametro improbabile per valutare la configurazione di un avviso di sfratto al governo o lo stato di salute del “campo largo”.
Può darsi che l’istituto referendario abbia bisogno di un tagliando. In molti hanno sottolineato come oggi, con la possibilità di raccogliere digitalmente le firme, sia abbastanza facile raggiungere 500.000 sottoscrizioni. Ma per modificare il numero di firme necessarie (portandole a 800.000 o a un milione) occorre una legge costituzionale, così come per abbassare il quorum necessario per dichiarare valida la consultazione, che è l’altra proposta suggerita da più parti: magari abbassandolo al 40% o calcolando il 50% più uno sul dato dei votanti delle ultime politiche. Ciò per ovviare alla furbata che consente di fare saltare la validità del voto semplicemente unendo all’astensione regolare di ormai quasi metà dell’elettorato quella interessata di chi si oppone ai quesiti referendari. Un escamotage che ovviamente non può essere considerato deprecabile a seconda di chi lo applica. Così fan tutti.
Si tratta di proposte degne di attenzione, ma non va dimenticato che la ratio del quorum ha una sua nobiltà: impedire che una minoranza attiva abroghi le leggi approvate dal Parlamento, il quale rappresenta tutto il popolo italiano. Insomma, sfuggire alla logica della piattaforma Rousseau. Un complicato rompicapo per l’equilibrio dei poteri sancito dalla costituzione.
Certo è che la percentuale dei votanti ha subito negli ultimi decenni un crollo verticale, indipendentemente dal tipo di consultazione elettorale, le cui cause vanno principalmente rintracciate nel sentimento di antipolitica che investe ogni aspetto della vita pubblica.
Ci sarebbe in realtà bisogno di più politica, che è l’arte di trovare risposte efficaci ai problemi della collettività, senza arroccarsi su posizioni settarie e cercando un punto di caduta tra posizioni divergenti. L’arte del compromesso, il giusto mezzo. Vale anche per i referendum, destinati sempre a fallire se si riducono a battaglie identitarie che non riescono a coinvolgere trasversalmente il corpo elettorale, se riguardano questioni tecniche poco comprensibili dal cittadino comune, se si ha la sensazione che il fine sia principalmente quello di misurare la solidità di un governo o contrastarne l’attività cercando una convergenza estemporanea mentre si è praticamente divisi su molte altre questioni, basilari per dare un’idea convincente del perché si sta insieme.

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