Quando Montalto in Aspromonte diventò un vulcano

Non è il racconto di un folle, né la bizzarra ipotesi di quei programmi televisivi che campano sulla credulità umana e spacciano per verità panzane clamorose, “ovviamente” occultate per ragioni oscure che solo la Cia conosce. Non è neppure uno scoop giornalistico pompato da farci prime pagine per giorni e giorni. È scritto nero su bianco; anzi nero su ocra, il colore dei telegrammi di fine Ottocento: in quel tempo, l’Aspromonte era un vulcano in attività.

Sono trascorsi appena due mesi dal terremoto che il 16 novembre 1894 sconquassò il circondario di Palmi, provocando rovine e morti. La Madonna del Carmine aveva fatto il miracolo, in seguito riconosciuto dalla Chiesa, e aveva limitato a otto le vittime (circa 300 i feriti) nel capoluogo del circondario, epicentro del sisma per sedici interminabili secondi alle 18.55. Tutt’attorno macerie e desolazione: abitazioni rase al suolo o rese inabitabili, 98 morti (48 soltanto a San Procopio), il terrore negli occhi dei sopravvissuti, molti dei quali avrebbero perso la vita quattordici anni più tardi. A Sant’Eufemia, tra le sette vittime la più anziana è la novantacinquenne Carmina Zagari; la più giovane Maria Antonia Cutrì, un fiore reciso a soli tre anni. Oltre 200 feriti, 212 abitazioni crollate, 326 pericolanti, 432 gravemente danneggiate e 188 lesionate in modo lieve. E la paura che potesse accadere nuovamente alimentata da scosse continue, per giorni, settimane, mesi.

I terremotati, alloggiati in baracche tirate su con il contributo dei comitati sorti in tutta Italia, hanno ormai orecchie sensibili. A ogni scossa si riversano sulla strada e, affidata l’anima a Dio, alla Madonna e ai Santi, si accalcano pericolosamente all’interno delle chiese, incuranti della tragedia che potrebbe provocare il crollo di strutture già danneggiate. A nulla valgono le raccomandazioni del prefetto, veicolate dal commissario per la gestione dell’emergenza Michele Fimmanò, dal prosindaco Luigi Bagnato e dal presidente della commissione per le cucine economiche, l’arciprete Rocco Cutrì.

Ancora un anno dopo il disastro, il maggiore del genio civile Angelo Chiarle, sulla scorta del parere espresso dal direttore dei lavori di ricostruzione, l’ingegnere Gaetano De Blasi, suggerisce al prefetto di mantenere l’ordine di chiusura delle chiese, perché forti scosse avrebbero potuto causare una “catastrofe mai vista”: “meglio affrontare impopolarità che accusa imprevidenza ed imprudenza”, la saggia conclusione del graduato.

Tensione, suggestione e ignoranza sono gli ingredienti perfetti per sfornare la bufala dell’anno. Che puntualmente arriva, per quanto inconsapevolmente, all’inizio del 1895. Il 24 gennaio tale Greco, da Sant’Eufemia, telegrafa al prefetto: “Contadini, reduci monti, esterrefatti riferiscono apertura cratere Montalto eruttante colonna fumo rosseggiante. Procederemo ispezione, riferirovvi. Avvisate Comitato”.

Il giorno dopo lo stesso Michele Fimmanò, non un cafone analfabeta bensì il colto borghese con tanto di laurea conseguita presso il prestigioso ateneo partenopeo, prende in considerazione l’ipotesi assurda che l’Aspromonte nascondesse nel proprio ventre un vulcano: “Seppi stamane via Delianuova che tre contadini colà arrivati narravano delle cime di monti prospettanti Montalto aver osservato che dalla sommità di esso monte veniva fuori un enorme colonna fumo rosseggiante simile ad un pino piegantesi a terra col vento, e che poi si raddrizzava. I tre contadini tornavano Delianuova esterrefatti. Non le ho telegrafato perché fenomeno fumo simile ad un pino, forma osservata Plinio anno 79 Cristo, Vesuvio, mi ha sorpreso ed ho disposto esplorazione domani facendola intesa risultati”.

Una voce incontrollata che innesca un tam-tam inarrestabile. Il rischio di una nuova Pompei tutt’altro che remoto. Esploratori vengono mandati a Montalto, ma la quantità di neve caduta è tale da rendere impraticabile un sopralluogo.

I fenomeni di psicosi collettiva svaniscono però con la stessa rapidità con la quale si manifestano. E così noi non sapremo mai cosa fosse il “rombo enorme mugghiante accompagnato vivo bagliore” annotato dai volontari inerpicatisi fino a Montalto, nel lontano gennaio del 1895.

*Articolo pubblicato su ZoomSud il 14 febbraio 2014: http://www.zoomsud.it/index.php/cultura/63898-quando-l-aspromonte-divento-un-vulcano.html

Condividi

A cento anni dalla Grande Guerra: un’idea… se siete d’accordo

Ho assistito ieri pomeriggio alla conferenza “Il dovere della memoria. Fonti per la storia della Grande Guerra”, organizzata dall’Archivio di Stato di Reggio Calabria, che segna l’avvio di una serie di attività didattiche e formative promosse dalla Direzione generale per la valorizzazione del patrimonio culturale e dal Sed (Centro per i servizi educativi del museo e del territorio) – Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo.

Obiettivo del progetto è la scoperta e la valorizzazione di materiale di interesse storico (documenti, reperti, testimonianze sugli aspetti culturali, sociali, economici della prima guerra mondiale), utile per aggiungere tasselli di conoscenza alla “inutile strage”, secondo la celebre definizione di Benedetto XV.

All’esaustiva presentazione del progetto da parte del direttore dell’archivio, Mirella Marra, è seguito l’intervento di Giovanna Manganella, discendente del generale Aurelio Bondi, comandante del XVI Corpo d’Armata Artiglieria e Primo aiutante di Campo del Duca D’Aosta, che ha messo a disposizione dell’archivio e della collettività reperti di grande interesse: stampe, fotografie, frammenti di proiettili e bombe, il cannocchiale da campo e il bastone dell’avo, una mazza ferrata utilizzata dagli austriaci per finire i soldati italiani agonizzanti.

Subito dopo, lo storico reggino Agazio Trombetta ha espresso le sue prime considerazioni sullo studio del fondo documentario che qualche anno addietro i Vigili del Fuoco di Reggio Calabria versarono all’archivio di Stato.
Alla fine della conferenza ho scambiato qualche impressione con la dottoressa Marra e con il professore Franco Arillotta, presente e a al solito molto garbato e prodigo di consigli.

Che dire? Un pensierino mi è sorto e anche l’idea di come procedere. Tornerò nei prossimi giorni per capire meglio come articolare uno studio su ciò che potrebbe essere interessante per Sant’Eufemia d’Aspromonte. Sarebbe però molto bello se chi è in possesso di materiale storico relativo alla prima guerra mondiale (testimonianze, documenti o reperti) lo mettesse a disposizione della collettività e, ovviamente, a disposizione anche dello studio che ho in testa.

Insomma, io l’ho detto…

Condividi

Peppe, un buono

È morta una persona buona. Non servono giri di parole. Bastava leggere la commozione negli occhi di chi neanche respirava mentre il carro funebre faceva il suo ingresso nel camposanto.
Si fanno filosofie, sulla vita e sulla morte. E poi scopriamo, sempre, che è tutto molto più semplice dei nostri ragionamenti. Perché i sentimenti hanno una vita propria, erompono con la forza della verità. E la verità è che Peppe Panuccio era una persona semplice, che amava e che per questo era amata. La morte è una rivelazione, mette in chiaro tutto.

Non doveva finire così. Ma forse ha ragione uno dei suoi cinque figli quando dice che la montagna, che Peppe adorava, l’ha chiamato a sé. Incidente sul lavoro, ennesima “morte bianca” di questa guerra che quotidianamente miete vittime innocenti nei cantieri. E proviamo dolore autentico, amarezza per questa vita spezzata a 56 anni. Per questo lavoratore onesto e instancabile.
Non è una frase di circostanza: “era un grande lavoratore”. Non è retorica perché la sua vita “era” il lavoro. Madre natura aveva donato a Peppe la forza di un toro, due braccia possenti e un cuore d’oro. La sua lotta quotidiana e dignitosa per un pezzo di pane è il riscatto di chi non ha niente, ma non per questo si piange addosso. È l’esempio davanti al quale inchinarsi, riverenti.

Tra di noi abbiamo ricordato quando, prima dell’arrivo del muletto, scaricava i tir della concime portando sulle spalle fino a tre sacchi da mezzo quintale; quella volta che sollevò una Fiat 127 e la spinse in avanti come una carriola; quell’altra che sfondò il tavolino nello sforzo finale e vincente di un braccio di ferro; tutte le serate in piazza, alla fine della festa della Madonna del Carmine o di qualche manifestazione dell’associazione Sant’Ambrogio: attorno a una panchina, lui con l’organetto e Mimmo Comandè con il tamburello, e via di tarantella, la sua grande passione.

Ma Peppe non era solo questo. Peppe era la sensibilità di chi si commuove fino alle lacrime di fronte all’ingiustizia e alla sopraffazione, era la consapevolezza di chi sa che il rancore e la vendetta non portano da nessuna parte, anche se ti ammazzano il padre per un bicchiere di vino quando sei ancora in fasce, costringendoti a un’infanzia di stenti.
Era quella frase che ripeteva spesso e che ora, nella sua disarmante semplicità, diventa insegnamento: “ndamu a voliri beni”, dobbiamo volerci bene.

*Un ringraziamento a Filippo Lombardo per la gentile concessione della fotografia

Condividi

Le colpe dei figli ricadano sui padri

Vergogna, indignazione, amarezza. Sentimenti che esprimono rabbia per l’ennesimo atto di barbarie inferto, da noi stessi, alla nostra terra. Perché è comodo attribuire sempre al prossimo la responsabilità dei disservizi che quotidianamente tutti siamo in grado di constatare, con conseguente e sacrosanta irritazione. Dalle guerre puniche in poi, è sempre colpa degli altri. Sarebbe ora di smetterla con i piagnistei e cominciare a chiedere cosa facciamo noi per rendere migliore la terra in cui viviamo. Cosa fanno i nostri figli. E quanta responsabilità hanno famiglie e collettività per i comportamenti sbagliati di questi ragazzi.

Abbiamo trasporti da terzo mondo, su strada e su linea ferrata. D’accordissimo. Posti raggiungibili solo mettendo a rischio l’incolumità personale e con tempi biblici. Un’economia asfissiata dalla lentezza delle comunicazioni. Ci lamentiamo per le corse soppresse, per quelle che non ci sono e che andrebbero invece introdotte, per gli autobus che non funzionano. Giustamente.

Poi però, sempre a casa nostra, periodicamente i pullman vengono devastati: vetri sfondati, sedili divelti o, addirittura, qualche mezzo avvolto dalle fiamme, a rischiarare il cielo stellato. Ogni tanto, qualche conducente intimidito da chi non vuole pagare il biglietto o si è sentito offeso da un rimprovero “inopportuno”. Sempre omini sono, anche a quattordici o quindici anni: non è che il conducente può alzare la voce per cercare di ristabilire l’ordine, anche se quelli stanno smontando l’autobus o si divertono ad importunare i compagni di viaggio.

Non bisogna minimizzare quello che accade da troppo tempo su molti autobus di linea. Derubricare un atto vandalico a bravata commessa da ragazzini vivaci è intellettualmente disonesto. Bisogna chiamare le cose con il loro nome: delinquenti, inciviltà.
Ieri qualcuno ha pensato bene di tentare di incendiare l’auto di Antonio Melara, autista sugli autobus delle Ferrovie della Calabria nella tratta San Procopio-Sinopoli-Sant’Eufemia. Stamattina i pullman non sono partiti: servizio interrotto. La “colpa” dell’autista? Avere “preteso” che alcuni ragazzi pagassero il biglietto.

Altri studenti sono stati costretti a saltare le lezioni, i più fortunati sono stati accompagnati dai genitori. D’altronde, quando viene a mancare un servizio, a farne le spese è sempre chi non può ovviare a disfunzioni e inefficienze del settore pubblico. Si tratti di scuole, ospedali, trasporti. Se un giorno l’azienda dovesse malauguratamente decidere di sospendere la corsa, il danno maggiore lo patirebbe chi non ha altro modo per raggiungere Reggio.

In una società in cui nessuno è mai responsabile di niente (entrate in un qualsiasi ufficio pubblico e preparatevi al ping-pong da una stanza all’altra), sarebbe già una mezza rivoluzione inchiodare le famiglie alla responsabilità sull’educazione dei figli. Se un ragazzo allaga una scuola, taglia le gomme all’auto di un insegnante che gli ha dato un brutto voto, sfonda il vetro di un autobus, logica vuole che tocchi ai genitori risarcire materialmente il danno. E così deve essere.

Condividi

Le parole che non ho detto

Avrei voluto dire che è grande quella comunità che riesce ad essere solidale e generosa, che si stringe con affetto attorno a chi ha bisogno. Esprimere profonda gratitudine agli oltre duecento partecipanti alla piccola grande iniziativa dell’Agape, la tombolata di solidarietà per raccogliere fondi da utilizzare per consentire a una famiglia di Sant’Eufemia di accompagnare periodicamente al “Gaslini” di Genova un bimbo affetto da disabilità.

Avrei voluto dire che il sogno delle associazioni di volontariato è quello di scomparire, perché ciò significherebbe che lo Stato riesce a soddisfare i bisogni di tutti. Ma purtroppo non è così: ecco perché occorre incoraggiare e sostenere chi fa volontariato. Sono povere, molto povere, quelle società che non possono contare su questo straordinario patrimonio di umanità.

Avrei voluto dire, soprattutto ai giovani, di avvicinarsi a queste realtà, perché ne trarrebbero certamente un arricchimento e la convinzione di dare un senso profondo alle proprie vite.

Avrei voluto dire che, a volerlo, il tempo per fare del bene lo si può sempre trovare. Perché nessuno ha mai preteso un impegno totalizzante, che tra l’altro contrasterebbe con le ragioni stesse del volontariato. Per restare all’Agape, è sufficiente dare un contributo anche una volta all’anno, per una qualsiasi delle iniziative che l’associazione svolge. Può sembrare poco, ma è soltanto sommando i tanti “poco” che si ottiene il “molto”.

Avrei voluto dire che sulla disabilità c’è ancora molto da lavorare e che nessuno dovrebbe tirarsi indietro. Negli ultimi anni si comincia ad avvertire un approccio diverso, in positivo. Ma non dimentico la prima volta che Peppe Napoli mi portò in una abitazione e vi trovai un ragazzo seduto su una sedia, in un angolo buio.
Avrei voluto dire che a queste famiglie bisogna stare vicino, con gesti concreti e quotidiani: si tratti di lasciare libero il parcheggio riservato ai disabili o di costruire scivoli e pedane d’ingresso ovunque, affinché nessun posto sia inaccessibile per chi si muove su di una sedia a rotelle.

Avrei voluto dire che sogno un mondo senza barriere architettoniche. Un mondo in cui tutti riescano a rivolgersi a un soggetto diversamente abile senza assumere un tono pietoso. Un mondo in cui tutti abbiano pari dignità non perché lo impone la Costituzione, ma perché così è. Un mondo in cui a tutti sia consentito di correre per realizzare le proprie aspirazioni, anche quando le gambe non vanno.
Avrei voluto dire tutto questo, ma so che un conto è scrivere, altra cosa è parlare con la tempesta dentro.
E quindi ho preferito affidarmi alle parole di Giuseppe Pontiggia, tratte dall’autobiografico Nati due volte (2000), al quale nel 2004 Gianni Amelio si ispirò per girare il commovente Le chiavi di casa:

Voi dovete vivere giorno per giorno, non dovete pensare ossessivamente al futuro. Sarà un’esperienza durissima, eppure non la deprecherete. Ne uscirete migliorati. Questi bambini nascono due volte. Devono imparare a muoversi in un mondo che la prima nascita ha reso difficile. La seconda dipende da voi, da quello che saprete dare. Sono nati due volte e il percorso sarà più tormentato. Ma alla fine anche per voi sarà una rinascita.

Condividi

Libertà è… offrire un caffè!

In principio fu Giovanni Giolitti: “un mezzo toscano e una croce da cavaliere non si negano a nessuno”. Poi qualcuno aggiunse la stretta di mano, che il fascismo scoprì poco virile e antigienica; infine, toccò al caffè. In un celebre spot degli anni Ottanta, Pino Caruso rischiò di pagare caro un suo vezzo (“al signor Caruso, cuannu si l’arrimina, ci piaci sentiri u scrusciu d’a tazzina”): “mi sono rovinato, ora ci vuole il caffè per tutto il vicinato!”.

Niente a che fare, comunque, con le conseguenze nefaste che la passione per la miscela arabica procurò a Gaspare Pisciotta, il braccio destro di Salvatore Giuliano ucciso da un caffè dell’Ucciardone corretto con la stricnina, e al banchiere Michele Sindona, al quale nel carcere di Voghera fu servito un “lungo” al cianuro.

Ed è proprio per scongiurare rovesci economici che in alcuni bar ai clienti, da diversi anni, è vietato offrire. Si legge proprio così sugli avvisi esposti: “vietato”. Ma può esistere niente di più arrogante e offensivo? Perché levare anche il piacere di offrire a un amico un caffè o una bibita qualsiasi? Ogni volta che si invade il terreno della discrezionalità altrui, imponendo o vietando un comportamento, si compie una violazione della libertà. E violare la libertà, anche quella di offrire un caffè, è cosa molto grave.

Conosco l’obiezione: si tratta di un provvedimento necessario per contrastare gli scrocconi seriali. Quelli sempre in agguato nelle vicinanze del bar, pronti a lanciarsi dentro appena vi fa ingresso la vittima di turno. Quelli che ci rimettono due euro di benzina e un set di gomme dell’auto nell’attesa del momento propizio. Quelli che si spingono addirittura nella sala gioco, sperando che qualcuno alzi lo sguardo dalla biglia del biliardo o da una mano di carte strepitosa: “hai preso il caffè?”.

L’introduzione del divieto ha quindi fondate ragioni. Economiche, perché entri per un caffè e alla fine scopri che ti è costato dieci euro, dato che in certi posti offrire è quasi un obbligo (anche molto ipocrita, certo; ma tant’è). Morali, perché ti evita di pagare per qualcuno anche quando l’unico tuo desiderio sarebbe che la bevanda si trasformasse in un potentissimo lassativo.

E qui si arriva al nocciolo della questione. A pensarci bene, il divieto ha la stessa ratio dell’obbligo di utilizzare la cintura di sicurezza, non perché può salvarci la vita, ma perché altrimenti ci becchiamo la multa. Di indossare il casco sulla moto; utilizzare paletta e sacchetto per raccogliere gli escrementi dei nostri amici a quattro zampe (ma dalle nostre parti ancora ce n’è strada da fare); non lasciare per ore il tubo dell’acqua aperto ad allagare i balconi delle case; compiere o non compiere azioni per le quali basterebbe regolarsi seguendo elementari norme di educazione o di buon senso, senza ricorrere alla minaccia della sanzione o dell’imposizione arbitraria. È, in fondo, la stessa filosofia del “ce lo chiede l’Europa”. Ché se certe cose le decidessero “i nostri” gliela faremmo vedere. Ma l’Europa è l’Europa. E quindi, forse, non ci resta che confidare in una moratoria di Bruxelles, per avere di nuovo il piacere di pronunciare: “trasiti cumpari, u cafè l’aviti pagatu”.

Condividi

Natale eufemiese 2013

Calendario delle manifestazioni:

22 dicembre: “A Natale puoi…”
Canti, balli, crespellata e… l’arrivo di Babbo Natale!

A cura dell’Associazione “Terzo Millennio”
– Piazza Municipio, ore 16.00

28 dicembre: “Pagine d’Avvento tra musiche e parole”

Concerto dell’Orchestra Giovanile di fiati “Paolo Ragone” di Laureana di Borrello – Lettura di poesie natalizie e di tradizione popolare

A cura dell’Amministrazione Comunale e della Residenza Sanitaria per Anziani “Mons. Prof. Antonino Messina” – Sala del Consiglio Comunale, ore 18.00

29 dicembre: “Una donna per le donne e per la vita”

Sala del Consiglio Comunale, ore 17.30

30 dicembre: “Tombolata di solidarietà”

Raccolta fondi per sostenere le spese mediche di una famiglia in difficoltà

A cura dell’Associazione di Volontariato Cristiano “Agape”
– Ristorante “Le Macine”, ore 21.00

04 gennaio: “Cuntandu e Cantandu u Natali”

Concerto del Coro Polifonico Parrocchiale “Cosma Passalacqua”

Chiesa Parrocchiale di Sant’Eufemia V.M., ore 18.30

06 gennaio: “Befana in piazza”
Musica, giochi, divertimento e… l’arrivo della Befana!

A cura dell’Amministrazione Comunale

Piazza Municipio, ore 16.30

Queste le manifestazioni di cui si ha notizia “ufficiale”. Però è molto probabile che vi sia anche altro.

Ad esempio, è certo che sabato 21 dicembre alle 9.30 i volontari dell’Agape effettueranno le visite domiciliari agli anziani per fare gli auguri e consegnare un ricordino, mentre nel pomeriggio (ore 16.00) si recheranno presso la Residenza Sanitaria per Anziani “Mons. Prof. Antonino Messina”.
Il blog è a disposizione di tutti per eventuali integrazioni.

Condividi

E Renzi sia

Prima di ogni analisi, consentitemi di esprimere un ringraziamento particolare. Anzi, 102 volte grazie. Che poi sarebbero di più, perché ai 102 votanti bisogna aggiungere chi ha espresso simpatia per quello che stiamo facendo, pur non potendo o non volendo ancora aderire. Va bene anche l’appoggio morale, il riconoscimento che si è fatto qualcosa di diverso rispetto al passato.

Ci eravamo posti come obiettivo 100 partecipanti alle primarie. La risposta c’è stata e ci induce all’ottimismo. È un punto di partenza, attorno al quale speriamo di riuscire a creare ulteriore consenso. Il seme piantato che, se annaffiato con cura, diventerà pianta.
Era importante ripartire, dato che da anni a Sant’Eufemia – di fatto – non ci sono più partiti, ma soltanto comitati elettorali a sostegno di questo o quel candidato che scompaiono il giorno dopo le votazioni. Nel farlo, circa un mese fa, avevamo fatto riferimento proprio alla gestione delle primarie per spiegare quella che è la nostra idea di partito e di politica: “Noi sentiamo il dovere di testimoniare la possibilità di un’altra strada: forse non ci sarà un’affluenza di 300, 400 o 500 elettori. Ma chi verrà, l’avrà fatto consapevolmente. E se nessuno dei candidati dovesse prendere il 100% dei voti, per noi sarà un motivo di soddisfazione” (qui l’articolo completo). Questo ci premeva maggiormente, ancor più dell’esito delle primarie.

Personalmente, non ho votato Renzi, che è stato il primatista anche a Sant’Eufemia con 79 preferenze. Ho scelto Civati, che considero più vicino alla mia idea di sinistra, al quale sono andati 15 voti (insomma, come segretario sono già in minoranza!). Ultimo classificato Cuperlo (8).

La chiave di lettura è molto semplice. L’uomo d’apparato (Cuperlo) per quanto persona seria e credibile aveva poche possibilità di affermazione. Per ciò che rappresenta, più che per quello che è. Intuisco facilmente che tra i sostenitori di Renzi c’è gente che forse non ha mai votato Pd e una buona fetta di vecchia nomenclatura saltata tempestivamente sul carro del vincitore, nel momento in cui si è capito da che parte tirava il vento. Ma non credo sia un buon esercizio per la democrazia snobbare i circa tre milioni di elettori che si sono recati ai seggi.

Il tiro al Pd è uno sport nazionale, anche perché i suoi dirigenti posseggono una notoria propensione alla rissa e al tafazzismo spinto. Però, nel panorama nazionale, è il partito con il più alto grado di democrazia interna. Per cui, non si affannino i facili e interessati censori di destra e di sinistra: quelli per cui prima il Pd era un partito di comunisti e ora è diventato un convento di democristiani; quelli che parlano di democrazia dei partiti e da due decenni stanno al guinzaglio del padrone di Arcore; quelli che non trovano nulla da eccepire nelle “purghe” di Grillo.

Non ho votato Renzi, ma da ieri sera Renzi è il mio segretario, la guida di un partito che mi auguro faccia della pluralità il suo punto di forza. Senza lacerazioni, né scissioni. Un partito inclusivo, nel quale vi sia spazio per Cuperlo, Civati e per la sinistra dei movimenti. Poiché sarebbe esiziale disperdere questo patrimonio, non posso che sottoscrivere l’appello di Romano Prodi, il quale con generosità e senso di responsabilità ha rivisto la decisione di non partecipare alle primarie (e ne avrebbe avuto tutto il diritto, dopo le 101 coltellate dell’aprile scorso): “Le primarie sono il momento dello scontro democratico, ma dopo lo scontro un partito deve mettersi insieme. Quello che io raccomando è che sia il vincitore sia quelli che perderanno abbiano l’obiettivo di fare una squadra, ovviamente diretta da chi ha vinto, ma con gli equilibri e le mediazioni che rendono forte un partito politico”.

Condividi

Le primarie del partito democratico a Sant’Eufemia d’Aspromonte

Domenica 8 dicembre, dalle ore 8.00 alle ore 20.00, si vota per scegliere il segretario e i componenti dell’Assemblea nazionale del Partito Democratico.

Il circolo “Sandro Pertini” di Sant’Eufemia d’Aspromonte allestirà il seggio elettorale all’interno del Palazzo Municipale.

Per partecipare al voto occorre presentarsi al seggio muniti di un documento d’identità valido e della tessera elettorale.
Votano sia gli iscritti che i non iscritti al partito: ai secondi, come partecipazione alle spese organizzative, verrà chiesto un contributo di 2 euro.

Previa registrazione, da effettuare online entro le ore 12.00 del 6 dicembre, possono inoltre votare: cittadini/e di età compresa tra 16 e 18 anni, cittadini/e fuori sede per motivi di lavoro o di studio, immigrati/e in possesso del permesso di soggiorno.

Condividi