Il calore di un aggettivo

Quattro anni e trecentoquarantacinque messaggi nella bottiglia dopo. Il 24 marzo 2010 aprivo il blog e pubblicavo il primo articolo: Minita, il nome che io stesso mi ero dato da bambino. Perché in un certo senso ripartivo, se non da zero (secondo l’insegnamento del grande Massimo Troisi), dalla consapevolezza che molto era cambiato nella mia vita. O almeno in ciò che mi ero prefigurato sarebbe stata, dieci anni prima.
Minita, quindi. Ripartivo dalla curiosità per ciò che mi accade attorno, dal desiderio di interpretare gli avvenimenti e di capire le persone al di là di ciò che appare a una prima, sommaria, osservazione. Ma anche dal bisogno di condividere con chi legge impressioni, considerazioni, emozioni. Con il maggiore tatto possibile, almeno nelle intenzioni.
Il nome di questo diario virtuale è Messaggi nella bottiglia proprio perché alle onde virtuali della rete affido periodicamente bigliettini che forse verranno letti, forse no. Oggi, domani o chissà quando. Giusto ieri ho ricevuto il commento alla recensione di un libro scritta quasi due anni fa!

Il blog è figlio di un esperimento fallito: quello di creare con il sito santeufemiaonline uno spazio di confronto che offrisse agli eufemiesi la possibilità di esprimersi liberamente, seguendo gli impulsi dati dalla sensibilità e dagli interessi culturali, sociali, politici. Nel momento in cui gli articoli finirono per essere firmati quasi tutti da me, quello spazio non aveva più senso. Era più corretto “sgravare” gli altri collaboratori dalla responsabilità delle cose che proponevo e guadagnare, se non una maggiore libertà (che era totale), certamente un rapporto più diretto e franco con i lettori. Questo per dire da dove si è partiti, da poche visualizzazioni che nel tempo sono cresciute e danno oggi un senso più compiuto a questa attività, ma inducono anche alla riflessione. Perché aumentano le responsabilità di chi scrive nei confronti di coloro che leggono.

Sono affezionato a questa mia creatura. Perché da qui sono partite proposte che la politica e le associazioni eufemiesi hanno spesso colto: su tutte, la riscoperta di Nino Zucco, un grande eufemiese dimenticato fino all’anno scorso.
Il blog mi ha fatto conoscere da gente che non immaginavo e mi ha dato l’opportunità di intrecciare rapporti e avere occasioni di confronto con persone altrimenti per me irraggiungibili.
E poi c’è l’aspetto “medico”: gli voglio bene perché mi ha aiutato a superare situazioni personali anche dolorose. Non mi stancherò mai di ripetere che scrivere è una terapia, ghiaccio a lenire i lividi lasciati sull’anima dai colpi bassi che la vita spesso riserva.
C’è anche molto di me qua dentro. In maniera esplicita o tra le righe, per ritrosia. Ma anche perché conforta il calore di un aggettivo messo lì, quasi per caso. Con la certezza che molti capiranno.

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Minita

Più o meno 35 anni fa, quando ho cominciato ad articolare qualche frase, a chi mi chiedeva quale fosse il mio nome rispondevo “Minita”. Di quell’età ho conservato, negli anni, soprattutto la curiosità, il piacere della ricerca e la capacità di stupirmi per le scoperte che la vita riserva a ciascuno di noi. Ma ogni scoperta, ogni pensiero, per avere vita hanno bisogno di essere condivisi, altrimenti si rivelano soltanto un esercizio sterile. È quello che mi auguro di poter fare grazie a questo blog con coloro che troveranno interessanti e degni di discussione gli argomenti che di volta in volta proporrò o verranno da altri suggeriti.
Devo ammettere che non provo molta simpatia per chi, bardato da una solidissima e inattaccabile armatura concettuale, ha sempre pronta la risposta per ogni interrogativo. Non credo che esista una verità valida sempre e ovunque, ma infinite verità. A volte è difficile riuscire a sostenere con sicurezza cosa sia giusto e cosa sia sbagliato: oggi riteniamo esecrabili comportamenti e convinzioni che i nostri avi consideravano legittimi ed eticamente corretti. Dipende tutto dal contesto storico, culturale e sociale cui facciamo riferimento. Per questi motivi mi trovo più a mio agio con chi è ben disposto al confronto e a rivedere, se necessario, le proprie certezze per trovare, nel rapporto dialettico, le risposte alle tante domande che chiunque abbia un minimo di sensibilità quotidianamente si pone.
“Quante strade deve percorrere un uomo prima di poterlo chiamare uomo?”. È la domanda con cui Bob Dylan, quasi cinquant’anni fa, cambiò non solo il modo di fare musica, ma anche la vita di milioni e milioni di giovani, consegnando alla storia un interrogativo che rimane di straordinaria attualità.
Quando il senso di vuoto e la solitudine del pensiero diventano insopportabili, in una società in cui sembra paradossale l’isolamento, può risultare utile anche affidare alle onde virtuali della rete un messaggio dentro la bottiglia. A futura memoria.

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