Nel centenario della nascita di don Luigi Forgione

Sant’Eufemia, Sinopoli e Sant’Onofrio: sono i “luoghi” di don Luigi Forgione e la fonte di ispirazione del sacerdote definito da Mimmo Pezzo “il poeta della bellezza delle cose del creato”.
Nato a Sant’Eufemia il 29 maggio 1913 e ordinato sacerdote nel 1938, don Forgione svolse quasi tutto il suo ministero a Sinopoli e a Sant’Onofrio, dove arrivò all’inizio degli anni Settanta e morì il 14 gennaio 1992.
La prima pubblicazione, Sinopoli e il suo Santuario, risale al 1955, mentre è dell’anno successivo Le care figure, una raccolta di racconti in cui il dolore provocato dalla morte di familiari, amici e conoscenti si scioglie nel soccorso provvidenziale del ricordo di quelle vite e del loro messaggio: “Dalle ombre dei sepolcri non può forse scaturire la luce per il nostro pensiero, additando proprio nella lacrime la promessa d’un confortevole, ineffabile sorriso?”.
Canti di Fede, libro di poesie edito nel 1956 e ristampato nel 1984 in un’edizione “riveduta e ampliata”, è ispirato al genere manzoniano degli “inni sacri” (tra i titoli: “L’immacolata”; “La passione di Gesù”; “Resurrezione”; “L’ascensione”; “Pentecoste”; “Corpus Domini”). Per l’ispettore didattico Giuseppe Cutrì, autore della prefazione del volume, don Forgione ha “saputo trasfondere nei versi tutta la genuinità della sua fede, tutta la purezza della sua vita civica e sacerdotale, nonché tutta la forza della sua fervente spiritualità, additante la via del superamento e dell’ascensus”.
L’anno dopo (1957) esce La vera gloria, raccolta di versi dedicata a papa Pio XII, in cui il genere degli inni sacri (“Il Protomartire”; “Il pescatore di Galilea”; “Paolo di Tarso”; “Fiore di Calcedonia”) si alterna con liriche autobiografiche e introspettive (“La mia penna”; “Contrasto”; “La mia porta”; “Il mio letto”; “Al paese natio”; “Lo specchio”; “Che cosa sono?”), cariche di nostalgia e commozione, come nei versi finali di “A mamma mia”:

Vorrei ridarti quello che m’hai dato,
vorrei donarti i miei capelli neri, 
intrecciare i miei sogni ai tuoi pensieri,
lasciar la vita, mamma, in questo stato.

La vera gloria ebbe la segnalazione di onore al concorso di poesia “Alfredo Baccelli” di Milano e la segnalazione di primo grado al concorso di poesia del Convivio letterario di Bergamo.
La bellezza del creato irradia dai componimenti di Armonie divine (1958), che affronta “i temi a lui cari”, ispirati dalla quotidianità della vita agreste e “dalla innocente contemplazione di un piccolo mondo antico e nuovo, [dilatandosi] in sensazioni e in immagini di portata universale: il sole, la luna, le stelle, il vento, la pioggia, il mare, gli alberi in fiore, le rondini, il ruscello, le viole, le rose, l’olivo, la spiga, la vite” (dalla prefazione da Gino D’Angelo, direttore del settimanale romano “Realtà politica”). All’opera furono assegnati il “Diploma d’encomio” al concorso “Gastaldi” e la “Penna d’oro” al concorso “Convivio letterario e conviviale”, con la seguente motivazione : “Gli inni in essa contenuti sono modelli d’arte austera, controllata, antica e nuova, e formano una sinfonia unitaria, un poema di grazie al Creatore”.
Nastro magnetico (1964) segna il ritorno di don Forgione alla prosa e consiste in una serie di racconti autobiografici, che compongono il romanzo della vita del protagonista, don Ubaldo, “ab incunabulis ad sepulcrum”.
Le poesie di Tempo che fugge (1967), che ottenne il “premio alla cultura” del Consiglio dei ministri, riassumono i temi della produzione di una vita: fede, natura, famiglia, amicizia. Nella prefazione, Gino D’Angelo osserva: “Tutto per te è argomento di poesia: la solitudine agreste, il variare delle stagioni, le antiche usanze, le nuove voci, i cari affetti, i dolci ricordi, la maternità della terra, la maestà dei tuoi monti, la sconfinata altezza del cielo, le voci della natura, la sorte degli umili, la meta di tutti”.
La silloge Sulla Cetra (1980) ripropone infine “ai benevoli lettori [i versi] superstiti ad una accurata e severa selezione”, operata dall’autore sulle raccolte pubblicate in precedenza: oltre alle citate, Verso l’Alto, regola di vita dell’Azione cattolica, ispirata alle parole scritte da Pier Giorgio Frassati (proclamato beato da Giovanni Paolo II nel 1990) sull’ultima fotografia che lo ritrae impegnato a scalare la parete di una montagna.
Collaboratore di diverse riviste (“Omnia”; “L’Informatore”; “La Voce del Pastore”; “Calabria letteraria”), don Luigi Forgione ebbe anche l’onore dell’adattamento musicale di alcune sue poesie: “ Il monumento ai caduti”, ad opera del maestro Domenico Luppino; “Al Santo protettore”, dedicata a Sant’Onofrio e i cui versi, musicati dal maestro Luigi Occhiuto, furono cantati al Metropolitan di New York e trasmessi alla radio il Venerdì Santo del 1960; “Inno al Vescovo”, dedicata a monsignore Domenico Cortese, vescovo di Mileto, Nicotera e Tropea, che fu messa in note dal professore Vincenzo Lattari.
Tra le tante, segnalo la poesia “Che cosa sono?”

Fisso lo sguardo sul libro, ma scruto 
e leggo, attentamente, fra misteri 
nel più profondo dell’anima mia. 
‹‹Che cosa sono?›› domando a me stesso. 
‹‹Polvere, forse, fragrante di vita? 
Un pensiero che sprezza 
la terra e cerca le altezze supreme? ›› 
Atomo, sperso in un mare di luce, 
 l’infinito t’accoglie, anima mia, 
quasi sospesa fra cieli ed abissi, 
arbitra e preda di forze in contrasto. 
Vivi in pena, in letizia; 
piangi, poi, canti e, se lotti, tu speri. 
Che dunque, anima, sono? 
Forse son nulla, ma in cerca… del Tutto.

* Dedico questo articolo alla memoria di Rosina Forgione, umile e devota collaboratrice di don Forgione, che ci ha lasciati il 13 maggio.

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Zucco scrittore e il suo tempo

Testo del mio intervento al convegno “Nino Zucco: pittore, scultore, scrittore, cantore della memoria eufemiese”, svoltosi l’8 aprile presso la Sala del consiglio comunale di Sant’Eufemia d’Aspromonte.

Qualche mese fa avevo sollevato la questione dell’oblio ingiustamente caduto su Nino Zucco (Nessuno è profeta in patria: Nino Zucco), proprio mentre nella vicina Palmi l’artista eufemiese veniva celebrato con i dovuti onori. Non ho difficoltà ad ammettere che fino a non molti anni fa ignoravo l’esistenza di questo artista poliedrico: pittore, scultore e scrittore, come recita il titolo del convegno. Nessuno me ne aveva parlato e reperire i suoi libri è un’impresa non da poco. Nella biblioteca comunale di Sant’Eufemia se ne trova soltanto uno; per gli altri, occorre rivolgersi altrove: Palmi, Polistena, Reggio Calabria.

Il mio primo “incontro” con Nino Zucco è avvenuto sulle colonne di un quotidiano locale, grazie alla lettura di un articolo che segnalava l’organizzazione del convegno “Nel centenario della nascita: Nino Zucco, una vita per l’arte” (2010), a cura dell’associazione culturale “Le Muse” di Reggio Calabria, presieduta dal professore e critico d’arte Giuseppe Livoti. Risale invece a qualche mese fa la notizia che il figlio, Antonello, aveva consegnato all’amministrazione comunale di Palmi una ventina di opere del padre (taccuini, oggetti personali, acquarelli, grafiche, sculture).

A Sant’Eufemia, prima di oggi, il silenzio più assoluto. Riflettendo su questo, consideravo quanto fosse triste constatare come il paese d’origine di una personalità così significativa nel panorama culturale nazionale non avesse mai pensato di perpetuarne in qualche modo il ricordo. Anche soltanto procurando i libri scritti da Zucco, per custodirli presso la biblioteca comunale e metterli a disposizione della collettività. L’articolo registrò le immediate repliche di Antonello Zucco e di monsignore Giorgio Costantino (nipote dell’artista eufemiese), alle quali fece seguito l’azione dell’amministrazione comunale, che ha tempestivamente accettato la donazione di sette opere d’arte proposta da Antonello Zucco e che, in breve tempo, ha organizzato il convegno odierno.

Molto è stato detto sul valore artistico di Zucco pittore e scultore. Meno note, invece, sono le sue qualità letterarie, anch’esse di livello e apprezzate da fior di critici.

I suoi racconti, in genere ispirati dai luoghi della memoria (Diambra, Mistra, Muraglio), possono essere accostati ad alcuni bozzetti di Giovanni Verga o di Luigi Capuana, i maestri del verismo italiano. Già a una prima lettura appare evidente un tratto inconfondibile, che svela l’influenza esercitata dall’arte pittorica sullo stile narrativo. La parola si fa pennello; così come la tela diventa un foglio bianco sul quale scrivere storie vissute o ascoltate. Nino Zucco è questo: uno scrittore che dipinge e un pittore che racconta.
Il suo primo libro è Fuoco a Diambra (1956), raccolta di racconti con protagonisti alcuni “personaggi” del paese natio. Il titolo rievoca uno dei tanti incendi verificatisi nella storia di Sant’Eufemia e fornisce all’autore lo spunto per soffermarsi sulla storica rivalità tra gli abitanti del “Vecchio Abitato” e quelli della “Pezzagrande”. Una vicenda che rimanda a quanto accaduto dopo il terremoto del 1908, quando – al termine di una polemica molto aspra – fu deciso di ricostruire il paese nel nuovo rione della “Pezzagrande”, mantenendo però anche il precedente sito (da allora, “Paese Vecchio” o “Vecchio Abitato”), che la fazione più “tradizionalista” si rifiutava di abbandonare.

Il volume è impreziosito dall’autorevole recensione di Arrigo Benedetti, noto giornalista che si era formato alla scuola di Leo Longanesi, sulle pagine della rivista “Omnibus”. Proprio insieme a Longanesi e a Mario Pannunzio, altro nome di primo piano del giornalismo italiano, Benedetti aveva firmato, su “Il Messaggero” del 26-27 luglio 1943, l’editoriale che annunciava la fine del Ventennio fascista, dopo l’approvazione dell’ordine del giorno “Grandi” e l’incarico per la formazione del nuovo governo affidato da Vittorio Emanuele III al generale Pietro Badoglio. Fondatore e direttore di alcune tra le riviste italiane di maggiore successo (“Oggi”, “L’Europeo”, “L’Espresso”), Benedetti diresse inoltre “Il Mondo” e “Paese Sera”.

A proposito di Fuoco a Diambra, Benedetti scrive:

In questi racconti, tutti pervasi da una calda umanità, l’Autore, da acuto osservatore, delinea aspetti della vita del nostro tempo. Sia che rappresenti con crudo realismo personaggi della sua Calabria, sia che, portato a scrutare in profondità gli aspetti deteriori della società, ne scopra il volto più ignorato, egli raggiunge, attraverso una felice creazione di caratteri, un’efficacia descrittiva che fa dei suoi racconti un tipico e genuino esempio di narrativa moderna.
Lo stile dei RACCONTI DI DIAMBRA, scarno e privo di inutili orpelli, non sconfina mai – come forse gli argomenti trattati potrebbero suggerire – nella facile retorica, ma si mantiene costantemente su un tono elevato che contribuisce a mantenere desto l’interesse del lettore
.

Nel 1977 Zucco dà alle stampe I racconti di Mistra, volume che ebbe una vicenda editoriale singolare. Nello stesso anno vede infatti la luce Viaggio all’alba (sottotitolo: I racconti di Mistra), che contiene gli stessi racconti, con identiche impaginazione e numerazione delle pagine. Di fatto, lo stesso libro, pubblicato nel medesimo anno, con una copertina diversa (il dipinto dell’autore dal titolo “Tramonto”). Altra differenza, la presenza, nel risvolto di copertina, di un precedente giudizio critico dello scultore Michele Guerrisi (deceduto nel 1963), la cui bottega romana Zucco frequentò e con il quale ebbe un rapporto di profonda amicizia. Proprio al 1977 risale il lungo articolo scritto da Zucco per la rivista reggina “La Procellaria”: Michele Guerrisi: scrittore, scultore, filosofo.
Il suggestivo toponimo “Mistra” trae origine dall’omonima città del Peloponneso, dalla quale provenivano i fondatori di Sant’Eufemia, greci al seguito dei monaci basiliani che intorno al IX secolo emigrarono per sfuggire alle persecuzioni degli imperatori iconoclasti. Una delle strade più antiche di Sant’Eufemia è appunto “via Mistra”; pertanto, si legge “Mistra” (come, altrove, “Diambra” o “Muraglio”), ma deve intendersi “Sant’Eufemia”. L’autore, introducendo i racconti, osserva:

Mistra pare abbia mille anni di vita: lo si desume da alcuni atti custoditi nell’Archivio di Stato di Napoli. Mistra è un nome greco. Si vuole che i primi ad arrivare lassù e a fondare il borgo siano stati i basiliani, gli stessi monaci che pare abbiano piantato i grandi boschi di uliveti che dalle falde dell’Aspromonte degradano per colline e piani fino al mare di Medma e Locri. Mistra è situata in una di queste colline, ai piedi del monte. A nord e a sud è delimitata da orti rigogliosi e fertili che producono frutta succosa e ortaggi saporiti e teneri. L’acqua scende dalle gole dell’Aspromonte limpida e fresca. Verso l’alto, i viottoli degli orti sono coperti da fitti pergolati di uva “olivella” e “ruggia”, così chiamata perché i chicchi, grossi come noci, hanno il colore della ruggine.

Nel 1983 esce il romanzo Il Muraglio. Cronaca di ieri. Prefatore del libro è Mario De Gaudio, giornalista originario di Cosenza che fu capo del servizio esteri e redattore capo del quotidiano romano “Il Messaggero”. Esperto di questioni sudamericane, seguì le vicende del colpo di Stato di Augusto Pinochet in Cile (1973) e fu il primo giornalista occidentale a raccogliere la testimonianza della moglie di Salvador Allende, fuoruscita dal Cile subito dopo la morte del marito. Poeta e scrittore, per diversi anni presidente del Centro studi “Corrado Alvaro” di Roma, nel presentare Il Muraglio, De Gaudio annota:

Nelle sue narrazioni, Nino Zucco, con l’una e con l’altra qualità di scrittore e di pittore, ha reinterpretato i protagonisti di una umanità meridionale cruda e pertinace. Figure d’altri tempi, ma moderne per il male di vivere che li circonda, per le angosce inespresse, ma presenti nella filosofia segnata da bibliche dannazioni. Figure che sembrano uscite da una tela, dove il nero incornicia volti di donne straziate da logoranti attese di morte [e qui la mente corre, necessariamente, al quadro “Donne di Mistra”, riprodotto nella copertina dei “Racconti di Mistra” e che fa da sfondo alla locandina della manifestazione odierna]. Ma innanzi questa morte c’è lo splendore di una natura percepita in lontananza e ferma davanti ad un destino ostinatamente chiuso alla gioia.

La sintesi del profilo biografico dei critici che hanno recensito i libri di Zucco avvalora la tesi di una collocazione tutt’altro che marginale dell’artista eufemiese negli ambienti intellettuali della Capitale. Per averne maggiore consapevolezza occorre però leggere il libro Incontri, pubblicato nel 1978.

Gli incontri in questione non si riferiscono ai rapporti di amicizia più significativi e intimi che Zucco coltivò con “la meglio gioventù” calabrese trasferitasi a Roma nella prima metà del Novecento: il compositore palmese Francesco Cilea, il pittore e scultore Michele Guerrisi (nato a Cittanova), lo scultore Alessandro Monteleone (originario di Taurianova), gli scrittori Corrado Alvaro (San Luca) e Leonida Repaci (Palmi).
Incontri presenta tutta una serie di protagonisti di rilevo del circuito artistico regionale, nazionale, ma anche internazionale (si pensi agli “incontri” con il direttore d’orchestra Leonard Bernstein e con il pittore Salvador Dalì) con i quali Zucco si relazionava, restituendo così al lettore l’atmosfera culturale che Zucco respirò.

Tra i corregionali, Raoul Maria De Angelis apprezzò molto Fuoco a Diambra. Giornalista, pittore e scultore, il romanzo più famoso dello scrittore nato a Terranova da Sibari è La peste a Urana (1943), che fu al centro di una querelle per le accuse di plagio rivolte ad Albert Camus, autore qualche anno dopo del capolavoro La peste. Significativo anche l’incontro con Antonio Piromalli (originario di Maropati), uno dei maggiori storici della letteratura italiana, autore dell’opera in due volumi La letteratura calabrese.

Zucco frequentò inoltre assiduamente lo scrittore, saggista e critico letterario Italo Borzi, uno dei massimi studiosi di Dante e Pirandello (presiedette l’Istituto di studi Pirandelliani), dei quali curò l’opera omnia per la casa editrice Newton Compton. L’artista eufemiese si recava a trovarlo presso la Fondazione Besso, dove Borzi leggeva e commentava magistralmente i canti della Divina Commedia.

Altra frequentazione capitolina, il critico letterario Giovanni Orioli, profondo conoscitore del poeta Giuseppe Gioacchino Belli, del quale curò la pubblicazione dello “Zibaldone”. Orioli presentò Fuoco a Diambra all’interno dello storico “Caffè Greco” di via Condotti e nella recensione redatta per la rivista “Nuova Antologia” inserì Nino Zucco tra gli eredi della scuola verista dell’Ottocento.
E poi Mario Dell’Arco (pseudonimo di Mario Fagiolo), architetto e poeta romano, con Pier Paolo Pasolini curatore per la casa editrice Guanda dell’antologia Poesia dialettale del Novecento (1952). In Incontri Zucco ricorda che Dell’Arco si affidava spesso alla sua “consulenza” per tradurre in lingua italiani i vocaboli più ostici del dialetto calabrese.

Infine, l’attore reggino Leopoldo Trieste, che collaborò con i più grandi registi cinematografici (Federico Fellini, Roberto Rossellini, Steno, Mario Monicelli, Dino Risi, Pietro Germi); il popolarissimo Mino Maccari, giornalista e scrittore, oltre che pittore e scultore; e tanti altri personaggi del mondo della cultura e dello spettacolo.

L’incontro più importante fu però quello con Francesco Cilea, nelle cui vene scorreva un po’ di sangue eufemiese, dato che la nonna materna Rachele Parisi era nata a Sant’Eufemia, dove aveva contratto matrimonio, nel 1822, con il nonno del compositore (suo omonimo), un medico originario di Pentidattilo.

Zucco fu ospite assiduo della casa del compositore palmese, sia a Roma che a Varazze, in provincia di Savona, dove Cilea trascorse gli ultimi anni di vita. Un suo celebre quadro raffigura l’insigne musicista seduto al pianoforte della propria abitazione; un disegno a carboncino ne ritrae invece il volto sofferente, a pochi giorni dalla morte. Fu grazie alla sua opera di convincimento che la moglie di Cilea, inizialmente contraria, acconsentì di rilevare il calco del viso del marito, per realizzarne la maschera.

Nel 1981, a trent’anni dalla morte del maestro, Zucco diede alle stampe un devoto e affettuoso ricordo: Francesco Cilea. Ricordi e confidenze.

Queste brevi note bio-bibliografiche evidenziano lo spessore culturale di Nino Zucco. Con la realizzazione del convegno e con la collocazione di alcune sue opere nella pinacoteca comunale, Sant’Eufemia oggi rimedia agli errori del passato, anche se – purtroppo – è andata persa la possibilità di ricevere, a costo zero, una parte consistente del patrimonio pittorico di Zucco, che è finito a Palmi e che invece avrebbe potuto dare prestigio e bellezza a questo Palazzo municipale.
Per una comunità, è colpa grave non valorizzare i talenti dei propri figli. Spesso si discute su cosa fare per rendere migliore l’ambiente in cui si vive e ci si perde in discussioni sterili sui massimi sistemi. In realtà, non ci vuole molto. È sufficiente, ad esempio, una manifestazione come quella di oggi. Un’iniziativa che io considero il modo in cui Sant’Eufemia si riconcilia con la propria storia e una forma di risarcimento nei confronti di Nino Zucco.

Pertanto, mi auguro che in futuro si possano realizzare altre iniziative analoghe. Occorre incoraggiare tutti i tentativi di fare memoria, per soddisfare quel bisogno naturale di identificarsi in una storia collettiva e di sentirsi parte di un destino comune.

Sono convinto che sarà la bellezza della cultura a salvarci. Perché la capacità di fare, divulgare e apprezzare la cultura rende gli individui migliori e più vivibile la società nella quale essi operano.
Ringrazio quindi il sindaco Creazzo e l’amministrazione comunale e li esorto a continuare su questa strada: la strada della cultura; la strada della riscoperta delle nostre radici; la strada delle nostre piccole e grandi storie; la strada che ci è stata indicata da concittadini illustri come Nino Zucco.

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Il cavallo di Chiuminatto

Finalmente siamo in stampa: in anteprima per gli amici del blog prima e quarta di copertina. Il cavallo di Chiuminatto (Nuove Edizioni Barbaro, pp. 192; con prefazione di Francesco Arillotta).
In libreria dopo Pasqua

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Contrada Peras

A Domenico Cutrì, prolifico poeta eufemiese trapiantato ad Ala di Trento, l’amministrazione comunale guidata da Giovanni Fedele ha dedicato, circa dieci anni fa, la biblioteca comunale.
Tra i versi ispirati a Sant’Eufemia d’Aspromonte, la poesia Contrada Peras del mio paese natio a mio avviso è tra le più significative della sua produzione, non a caso contenuta anche nella “prima parte” (Poesie della memoria) della raccolta L’ultimo volo, pubblicata postuma a cura della figlia Franca, nel 1985:

In questa contrada

il gallo batteva le ore


ed i contadini del tempo

– zappa a spalla –

si recavano al lavoro.

La sera,
seduti scalzi sull’acciottolato


davanti alla porta di casa,

farfugliavano nel vuoto,

aspettando pensierosi il domani,

per chi riusciva a vederlo.

La semplicità e la circolarità della quotidianità campestre, scandita dal canto del gallo; la “fatica” della vita, fatta di lavoro, lavoro e poi… ancora lavoro; la precarietà di esistenze condannate alla solitudine della sera, prive di sogni perché il sognare presuppone la capacità di guardare oltre il traguardo più immediato e urgente, alzarsi l’indomani per continuare a lasciare nei campi, giorno dopo giorno, vigore, gioventù, anima.

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Il gran rifiuto

Il pensiero è corso istintivamente a Pietro Angelerio da Morrone, passato alla storia con il nome di Celestino V, il Papa scovato da Dante tra la massa delle anime degli ignavi in uno dei passaggi più celebri della Divina Commedia: “Poscia ch’io vebbi alcun riconosciuto,/ vidi e conobbi l’ombra di colui/ che fece per viltade il gran rifiuto”. Ma, ora come allora, si tratta di viltà o la rinuncia al Soglio di Pietro, proprio perché quasi inconcepibile (“dalla croce non si scende”, l’esempio recente di Giovanni Paolo II, che la croce abbracciò fino all’ultima stazione del suo personalissimo calvario), è un atto rivoluzionario, finanche eroico?

Già Petrarca era stato più indulgente e, nel De vita solitaria, aveva sottolineato come il gesto di Pietro da Morrone fosse stato “utile a se stesso e al mondo”, epilogo quasi naturale per uno spirito libero, refrattario a imposizioni e giochi di potere: un asceta dedito allo studio e alla solitudine della preghiera, gli unici veri strumenti per arrivare a Dio.

Quasi settecento anni dopo (Celestino fu Papa per sei mesi, nel 1294), sarebbe toccato a Ignazio Silone fare giustizia con L’avventura d’un povero cristiano (1968), ultimo libro pubblicato dallo scrittore marsicano prima di morire. Pietro da Morrone appare nella sua dimensione storica, quella di un eremita di origini contadine con fama di guaritore e santo, eletto Papa per una questione politica: la necessità della ratifica pontificia sull’accordo che prevedeva il passaggio della Sicilia da Giacomo II d’Aragona a Carlo II d’Angiò, a fronte della perdurante incapacità, da parte del Conclave, di eleggere il nuovo pontefice, nonostante fossero trascorsi più di due anni dalla morte di Niccolò IV. Una soluzione di compromesso, considerata vantaggiosa per l’età (ottantacinque anni), ma soprattutto per l’estraneità di Pietro da Morrone agli ambienti della Curia, circostanza che avrebbe consentito agli alti prelati di continuare a coltivare i rispettivi orticelli e ad accrescere potere e ricchezza. Calcoli sbagliati, evidentemente. Quando infatti si accorse che i cardinali utilizzavano in maniera illegittima il suo nome e le pergamene papali in bianco, Celestino V abdicò per “non offendere la propria coscienza”. Dopo di che fu fatto rinchiudere dal suo successore (Bonifacio VIII) in un castello a Fumone, nei pressi di Anagni, e lì morì nel 1296.

In Celestino, ci dice Silone, la coscienza viene prima del potere. Considerazione che probabilmente oggi vale anche per Benedetto XVI, travolto da una delle più grandi crisi abbattutesi sul cattolicesimo in duemila anni di storia. Il carattere rivoluzionario del gesto pone il paradosso della “relativizzazione” della Chiesa per mano di colui che più di tutti si è scagliato contro la “dittatura del relativismo” (Missa pro eligendo romano Pontefice, 18 aprile 2005), ma non sorprende. Nella Via Crucis del 2005 l’allora cardinale Ratzinger aveva infatti denunciato con forza la “sporcizia” che c’è nella Chiesa, “una barca che sta per affondare, una barca che fa acqua da tutte le parti”.
La superficialità con cui ci si esercita nel confronto tra Benedetto XVI e Giovanni Paolo II non meriterebbe alcun commento. Senza volere qui esprimere giudizi di valore, si consideri soltanto quanto il corpus teologico del pontificato di Wojtyla debba alla riflessione del cardinale Ratzinger, sin dal 1981 prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede: un dato che aiuta a comprendere come tale contrapposizione sia illogica e banale.
Spesso la realtà è più semplice di quanto si creda. Vatileaks, scandali finanziari, vicenda dello Ior, corvi nel Vaticano, pedofilia nel clero: la barca è davvero sballottata dalle onde e solo un gesto dirompente poteva richiamare l’attenzione sulla drammaticità del momento che sta vivendo la Chiesa.
“Nascosto al mondo” Benedetto XVI dedicherà gli ultimi anni della sua esistenza alla preghiera e agli amatissimi studi che era stato costretto ad accantonare, con dichiarato rammarico, in un silenzio che fuori dal suo rifugio potrebbe risultare assordante.

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Le parole di don Italo

Sorprende l’attualità delle parole di don Italo Calabrò (26 settembre 1925 – 16 giugno 1990) nel video che riprende un incontro tenuto dal parroco di San Giovanni di Sambatello con gli studenti del liceo scientifico “Vinci”, più di venti anni fa.

Don Italo è stato tante cose: collaboratore dell’arcivescovo di Reggio Calabria Giovanni Ferro e del successore Aurelio Sorrentino, presidente della Caritas Diocesana, vicepresidente della Caritas Italiana, fondatore della Piccola Opera Papa Giovanni e del Centro Comunitario Agape. Prete antimafia, ma non “professionista” dell’antimafia, secondo la calzante definizione di Mimmo Nasone nella presentazione del saggio biografico edito da Rubbettino nel 2007 (Don Italo Calabrò. Un prete di fronte alla ’ndrangheta, a cura di Domenico Nasone e Mario Nasone, con una prefazione di don Luigi Ciotti).

Una vita dedicata alla lotta alla povertà e all’emarginazione: “i poveri sono i nostri padroni”, la stella polare del suo cammino; “amate tutti coloro che incontrate sulla vostra strada, nessuno escluso, mai!”, la raccomandazione finale contenuta nel suo testamento spirituale.

Don Italo è stato grande educatore e punto di riferimento dell’associazionismo cattolico reggino per diverse generazioni. Potrebbe suscitare stupore l’invito alla lotta rivolto agli studenti (L’obbedienza non è più una virtù, aveva scritto don Lorenzo Milani anni prima, suscitando scalpore prima di diventare autore di riferimento per il movimento del ’68 con Lettera a una professoressa), ma lotta e responsabilità dovrebbero rappresentare i cardini dell’impegno dei giovani (e non solo dei giovani) nella società.
Lotta non violenta, la più difficile da praticare perché comporta la formazione di una coscienza politica. E assunzione di responsabilità, fondata sul protagonismo di chi si espone in prima persona, senza attendere l’iniziativa altrui: “si può dare la delega per tutto… non esiste ancora l’istituto della delega perché un altro viva al posto tuo”.

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Blocco 52

Il cadavere di Utopia riposa dietro una lapide del “blocco 52” del cimitero di Catanzaro, sipario della vicenda umana e politica del comunista Luigi Silipo che Lou Palanca ha recuperato negli anfratti della storia, soffiando sulla polvere accumulatasi in quasi cinquant’anni di oblio. Lo pseudonimo dell’autore collettivo (ispirato a Massimo “O Rey” Palanca, idolo giallorosso specialista del gol su calcio d’angolo negli anni Settanta-Ottanta) si rifà all’esperienza avviata negli anni Novanta in Italia da Luther Blissett e proseguita da Wu Ming, culminata con l’esperienza del New Italian Epic, genere di romanzo che mescola realtà storica e finzione letteraria.
Blocco 52. Una storia scomparsa, una città perduta, edito da Rubbettino e scritto a dieci mani (Fabio Cuzzola, Valerio De Nardo, Nicola Fiorita, Maura Ranieri e Danilo Colabraro), si snoda su più piani e offre diverse chiavi di lettura. Personaggi reali, chiamati per nome e cognome, che incastrano le proprie esistenze con la trama del romanzo (“un delitto che dalla Calabria degli anni Sessanta arriva fino a Praga”), fotografie in bianco e nero di vicende da narrare perché, “se non c’è nessuno che fa memoria, è come se le storie non fossero mai esistite”.
L’assassinio dell’eretico Luigi Silipo (1 aprile 1965), dirigente di primo piano del partito comunista in Calabria che vede progressivamente incrinarsi le certezze granitiche sulla bontà del centralismo democratico e sulla prassi del comunismo internazionale, da “omicidio impunito, dimenticato o da dimenticare” assurge a metafora del bilancio amaro di una stagione politica e di una generazione costretta a tapparsi le orecchie per non sentire “il rumore che fanno i sogni che abortiscono”.

Il passato ha l’odore dell’aria ammorbata dal fumo delle sigarette nelle sezioni di partito e nelle sale cinematografiche, il colore delle palline usate come tappo per le bottigliette della gazzosa, le inquadrature della cinepresa di Pasolini in “Comizi d’amore”, la lezione sempre attuale di don Milani, le canzoni di una generazione che avrebbe voluto scalare il cielo e sognava di portare la fantasia al potere. Blocco 52 è la Catanzaro dei “bassi” invivibili e della speculazione edilizia, delle carte di Piazza Fontana incredibilmente sepolte in uno scantinato; è la Reggio degli anni Settanta, la controcultura e le bombe, l’intreccio inquietante di fascismo, ’ndrangheta, massoneria e servizi segreti. Ma è anche la crisi materiale e morale della società attuale, sulla quale si posa lo sguardo ora amaro, ora ironico, di Vincenzo Dattilo, alter ego del “pendolare fisso” Fabio Cuzzola, dal quale prende in prestito anche il blog Terra è libertà.

Storia grande e piccole storie si intrecciano e si tengono assieme, seguendo il filo conduttore di un omicidio i cui possibili moventi (politico, passionale, affaristico-criminale) conducono a una lapide spoglia, abbandonata e dimenticata da tutti. Sullo sfondo, una serie di “vinti” (Nina, che mantiene i contatti con i futuri protagonisti della Primavera di Praga; Maria Grazia, che perde la verginità sotto lo sguardo corrucciato di Marx, Engels e Lenin; Caterina, vittima rassegnata di una società patriarcale) e il più “vinto” di tutti: Gavino Piras, funzionario del partito comunista mandato da Roma per gestire, all’indomani della morte del “Migliore”, lo scontro tra amendoliani e ingraiani e che sull’altare dell’ideale politico sacrifica amore e felicità personale.

La rivoluzione soffoca in tasca, come i pugni del celebre film di Marco Bellocchio, ed è amara consolazione rifugiarsi nell’illusione “che il cielo sia così vicino che lo puoi toccare con un dito”, parallelismo irriverente tra l’utopia comunista e l’esistenza della prostituta Assunta. Impegno politico e ricerca della verità si rivelano una battaglia persa, “ma le battaglie perse – ci ricorda Dattilo – sono le uniche che vanno combattute. O, perlomeno, le uniche che meritano il bacio sulle labbra che le trasforma in un libro”.

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Strade, storia e storie di Sant’Eufemia

Ora ne posso parlare. Dalla primavera scorsa la tentazione c’è stata più volte, ma mi ha sempre frenato il timore di sbilanciarmi troppo quando ancora, in effetti, non sapevo come sarebbe andata a finire. Il progetto aveva cominciato a frullarmi in testa dopo il convegno organizzato dal Terzo Millennio e dal liceo scientifico per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia (marzo 2011). In quella circostanza, mi resi conto che, per la maggior parte degli eufemiesi, i protagonisti della storia locale non sono nient’altro che un nome stampato agli incroci delle strade. Pensai che sarebbe stato utile saperne di più.

Certo, perché un progetto diventi realtà, occorre una buona molla, che è arrivata un anno dopo. Fino ad ora avevo scritto libri per passione, per “dovere”, per lenire un dolore. Questo l’ho scritto per rabbia e perché lo scrivere, per me, ha sempre rappresentato una formidabile valvola di sfogo.

Mi sono divertito tantissimo. Dal 1861 ad oggi i nomi di alcune strade sono cambiati, nuove vie si sono aggiunte, di altre denominazioni addirittura non si ha più notizia. Scomparsi i nomi, cancellate – fisicamente – anche le vie. Allarga di qua, allarga di là, un corpo avanzato, una recinzione e addio strada.

In tutto, ho redatto 106 voci. Ovviamente, su personaggi come Dante o Cavour c’era poco da aggiungere a quanto già non sia noto. Un buon ripasso, comunque, dà sempre giovamento.
Recuperare le notizie riguardanti i personaggi eufemiesi è stata invece una caccia al tesoro, a volte spassosissima, altre irritante. Ho chiesto delle informazioni all’anagrafe di Genova e all’archivio storico della banca commerciale italiana e mi sono state fornite dopo ventiquattro ore. Mi sono rivolto allo stato civile del comune di Palmi e ho fatto prima a girarmi tutto il cimitero alla ricerca di una tomba (soprattutto, di una data che in nessun archivio avevo trovato) che sospettavo si trovasse là e che alla fine è saltata fuori: eureka!

A distanza di venti anni, mi sono cimentato nuovamente con il latino per decifrare un registro di battezzati del Settecento e ho esultato (in italiano) quando, finalmente, ho scovato l’informazione che cercavo da mesi. E poi le risate, che non ce l’ho fatta a non condividere con qualcuno, davanti alla scoperta degli strafalcioni che campeggiano in bella vista su alcune tabelle toponomastiche.

Strade, storie e storia di Sant’Eufemia, dato che il libro è anche il pretesto per scrivere di storia locale e per portare alla luce aneddoti legati ai personaggi o a alle strade che a quei personaggi sono dedicate.

* Per la pubblicazione se ne parlerà nel 2013. No, il titolo non lo rivelo neanche sotto tortura.

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