Boni cunti

Peppuzzo conosceva molte storie di povertà e non perdeva occasione di narrarle a noi ragazzi che trascorrevamo con lui qualche ora del pomeriggio sulle panchine della vecchia piazza Matteotti, attenti ai dettagli dei suoi affascinanti e incredibili racconti. La sua infanzia era stata segnata dalla guerra. “Entravano da là” – ci diceva, indicando un punto all’orizzonte, tra la cresta della montagna e il cielo. Immaginavamo tutto il paese, sguardo in alto e gambe svelte, dirigersi nei rifugi per scampare ai bombardamenti degli Alleati che braccavano l’esercito tedesco e lo costringevano a risalire la Penisola, nella primavera-estate del 1943. Famiglie intere riparavano nella galleria del ponte sulla ferrovia o in caverne naturali lungo la strada che porta sull’Aspromonte. Ci passavano davanti l’ansia e la paura vissute dai nostri nonni, ma anche la festosità di un parto avvenuto proprio dentro la galleria, tra lo stupore e la gioia generale.

La guerra è dura, sempre e ovunque, ma il dopoguerra, spesso, è ancora peggio. Fame, sporcizia, pidocchi, abbrutimento. Miseria, fascismo e guerra combaciavano nei racconti di Peppuzzo, che biasimava in eguale misura chi in quegli anni si era arricchito e chi, a distanza di decenni, esprimeva ancora simpatia per il duce e per i ducetti in sedicesimo locali. Gira e rigira, il discorso tornava sempre alla pancia. Apprendevamo di gente che si nutriva di bucce di patate, ortiche, cardi e “coschi i vecchia”; che non aveva mai conosciuto il sapore della carne; che camminava scalza, lacera e sporca. “Addunca” (dunque), il suo inconfondibile incipit; “boni cunti” (in definitiva, in fin dei conti), l’introduzione alla “morale della favola”, il suo personale commento finale. “Questi eravamo” – sembrava ammonirci, affinché lo tenessimo bene in mente, noi che avevamo avuto la fortuna di nascere in tempi più felici. Piccole storie della storia grande, a volte anche aneddoti simpatici, a dispetto della drammaticità del contesto. Il nostro – e credo anche il suo – preferito aveva come protagonista un poveraccio che, approfittando della precoce oscurità delle serate invernali, si era intrufolato in una baracca per cercare qualcosa da mangiare, ma era stato colto in flagrante – mentre rovistava nei cassetti della credenza – dal padrone di casa, un altro poveraccio che però, evidentemente, possedeva uno spiccato senso dell’ironia, tanto da porre il memorabile quesito: “ma se non trovo niente io di giorno, cosa vuoi trovare tu, con questo buio?”.

Altro argomento di conversazione era il calcio. Tifosissimo del Napoli (in quanto squadra del Sud) e della Reggina, storpiava tutti i nomi dei calciatori, da “Natalistefano” (Notaristefano) a “Diloiggi” (Dionigi), a “Bonaccioli” (Bonazzoli) e nutriva un odio viscerale per quella squadra di “scecchi zoppi” della Juventus (“a cani”: la cagna), sentimento che, per ovvi motivi, lo rendeva ai miei occhi ancora più amabile.

Si dilettava inoltre a lavorare il legno, un hobby che praticava nel suo piccolo regno, un laboratorio ricavato in un garage, all’interno del quale realizzava bastoni, “stante” (pali con diversi rami sui quali i pastori appendevano gli attrezzi), “juvi” (gioghi) per i buoi, collari per i “campani” (grossi campanelli per il bestiame). Il pezzo forte della sua collezione di oggetti era però l’enorme “pipa di Pertini”, ricavata dalla lavorazione di una “crozza”, a ricordo della vittoria azzurra al mondiale di calcio del 1982.

A Peppuzzo devo il segreto di un “posto” di funghi che aveva rivelato a mio fratello Mario ragazzino e che successivamente mi è stato trasmesso. Ogni anno torno in quel bosco di castagni, anche soltanto per il gusto di passeggiare e riandare così, con la mente, a quelle storie e all’immagine del sorriso di Peppuzzo quando si fa dare un bacio sulla guancia dal nipotino, dopo avergli messo in mano un euro.

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