Beati coloro che sanno emozionarsi nell’attesa del miracolo che ogni anno si compie, l’ennesima ri-nascita. Con un inizio testardo da attaccare ad ogni fine con la colla, come la coda colorata del disegno del bambino. Tra bilanci più o meno impietosi e buoni propositi, contiamo le sedie vuote di chi non c’è più, di chi non ha voluto esserci, di chi non può esserci. Mentre i ricordi trafiggono l’anima. Mentre i ricordi accarezzano l’anima. Natale è tempo di assenze. Ingombranti nel loro non esserci, assordanti nel loro silenzio. Un tempo sospeso, che svanisce in un giro d’orologio portando con sé addizioni e sottrazioni, successi e fallimenti. Incalzato dall’urgenza di recuperare la coperta che protegga il bambino dal gelo. Perché si è inevitabilmente chiamati a fare i conti con la realtà, non con la sua idea o rappresentazione. Non si può scappare dalla vita, quella cosa che ti travolge proprio quando pensi di avere tutto sotto controllo. Quando il cammino ha l’aspetto ingannevole di una strada lunga e dritta: senza curve, salite, incroci. Tocca andare e vedere le carte, con il bello e con il cattivo tempo. Con in bocca la preghiera cantata da De Gregori a Gesù Bambino: «Fa che piova un po’ di meno, sopra quelli che non hanno l’ombrello». Buon Natale
Ripensavo a Vincenzo Pinneri proprio ieri, nel giorno del suo compleanno. Era infatti nato il 23 ottobre del 1924 ed è morto nel 2012, quasi novantenne. Un’età che forse nemmeno lui si sarebbe aspettato di raggiungere. Anzi, sono quasi certo che gli è dispiaciuto esserci arrivato. Gli sono stato amico, come tanti in paese. Nonostante il suo caratteraccio, Pinneri era capace di gesti affettuosi, addirittura commoventi. Perché rispolvero il ricordo di un uomo che in gioventù commise crimini imperdonabili? La sua storia è nota, io stesso ne scrissi anni fa. Non mi interessava allora e non mi interessa adesso il mito che in qualche modo ne ha accompagnato la vita, trascorsa per 36 anni in prigione. Interessante può essere invece ribadire che l’uomo non è il suo reato. La carriera criminale di Vincenzo Pinneri inizia nel 1942 con l’assassinio del fratello. Caino che uccide Abele. Sangue del proprio sangue. Si può commettere un delitto più grave? No, non si può. Nemmeno se il fratello maggiore era violento nei confronti del minore, sin da quando il ragazzino andava dietro ai muli e agli asini per raccogliere in un secchio gli escrementi da portare agli gnuri del paese, che li utilizzavano come concime per l’orto. Un contesto di degrado e di assoluta povertà, al quale fece da detonatore la fame portata in dote dalla seconda guerra mondiale. La banda Pinneri, che nacque nello sbandamento economico, sociale e politico-istituzionale vissuto dopo l’8 settembre 1943, è finita sui libri di storia: della faida e delle altre poco sue edificanti gesta si sa tutto. Omicidi, assalto alla caserma dei carabinieri di Sant’Eufemia, attentato contro il questore di Reggio Calabria. Io stesso ho raccolto il suo punto di vista sulle vicende di quel lontano 1944, in una lunghissima intervista che non ho mai pubblicato e che doveva essere il canovaccio di un libro mai scritto. Pinneri riacquistò la libertà nel 1978, dopo avere girato tutti gli istituti penitenziari di massima sicurezza: da Pianosa all’Asinara, da Porto Azzurro al carcere di Favignana, con le celle scavate nella roccia sotto il livello del mare: prive di finestre e talmente umide da infracidirgli i polmoni e costringerlo, nei suoi ultimi anni, a portarsi appresso la macchina per l’ossigenoterapia. Libero dopo avere conosciuto il morso delle cinghie dei letti di contenzione, i cui segni gli rimasero per sempre impressi sulla pelle. In ricordo della lunghissima detenzione divenne per tutti “Ceo Galera”, ma del giovane sbandato e violento sopravviveva soltanto un residuo di irascibilità caratteriale. L’ho visto commuoversi per i giovani che non riuscivano a trovare lavoro ed erano costretti ad emigrare; l’ho visto piangere per la morte di una giovane ragazza, alla quale sinceramente avrebbe donato la propria vita, considerata ormai inutile. Ho ammirato la sua imbarazzante generosità. Mi sono emozionato per l’affetto che nutriva nei confronti dei bambini. Non credo sia rilevante sapere se abbia cercato di riscattarsi rispetto a ciò che era stato nel primo mezzo secolo di vita, se abbia così consumato la sua personale espiazione. La storia di Pinneri è invece paradigmatica della natura umana. Racconta che ognuno di noi è un mistero affascinante e terribile, capace di grandi nefandezze così come di sorprendenti atti d’amore. Spiega che non siamo una monade inscindibile e immutabile, bensì un caleidoscopio di sentimenti che, nell’arco di una vita, prevalgono o soccombono. Conferma infine che è sbagliato impiccare l’essere umano ad immagini e fatti cristallizzati. Eraclito ci ha insegnato che se l’acqua del fiume non è mai la stessa, il fiume non è mai lo stesso. E così l’uomo.
«Perché non porti una statuetta di Sant’Eufemia nella parrocchia che frequenti a Londra? Sarà un modo per sentirsi a casa e poi sai che bello, per un eufemiese che dovesse capitare a Londra, sapere che anche là può andare a trovare la sua santa patrona!». È nata così l’idea che, tramite mio fratello Mario, il parroco della chiesa di Ognissanti a New Cross Road ha accolto con molto entusiasmo. Father Grant, le cui omelie sono seguite con attenzione dai fedeli che ne apprezzano l’arte oratoria, è un sacerdote energico, affabile e dotato di un alto senso dell’umorismo, che nei rapporti interpersonali non guasta mai. Di origine giamaicana, ha inoltre una sensibilità particolare per le problematiche delle minoranze che compongono la multietnica comunità di New Cross. La chiesa di Ognissanti, che dista circa trenta minuti da Trafalgar Square, è infatti un crocevia multietnico che rispecchia la vivacità e la varietà culturale del quartiere nel quale è stata edificata nel triennio 1869-1871, tra Southwark e Lewisham (Sud-Est di Londra), su progetto degli architetti Arthur Billing e Arthur Shean Newman, molto attivi nella costruzione e nella restaurazione di chiese a Londra e nel sud dell’Inghilterra. In stile neogotico con ampio rosone, tra i banchi delle tre navate i parrocchiani inglesi siedono accanto ai fedeli di origini africane e caraibiche, in linea con la mission che campeggia sulla pagina ufficiale All Saints Church New Cross: «Siamo una parrocchia anglicana di rito cattolico nel cuore della vibrante comunità di New Cross. Non vediamo l’ora di darti il benvenuto chiunque tu sia, comunque tu possa identificarti. Tutti sono benvenuti!». La reazione di grande accoglienza è tutta nelle parole di una parrocchiana: «È bellissima, ha l’aspetto di una che ascolta. Le porterò dei fiori: tutti meritiamo di essere ascoltati». Sant’Eufemia sarà presentata “ufficialmente” alla comunità religiosa di New Cross nella celebrazione eucaristica di domani mattina. Verrà collocata al centro di una delle finestre della chiesa, con un candelabro e un vaso di fiori, ai quali in un secondo momento sarà affiancata un’iscrizione illustrativa.
*Indirizzo: All Saints New Cross, 105, New Cross Road, New Cross London SE14 5DJ
Più che osservarla cadere, starci in groppa. Accarezzarne la criniera e a strappi di redini disegnare nel buio traiettorie impossibili. Tracciare il profilo di fantastici animali notturni. Senza farla spegnere mai. E che l’alba non sorprenda il bambino, non lo svegli dal sogno.
Il mio prossimo libro è pronto e tra qualche settimana andrà in stampa. Vi anticipo il titolo: Sant’Eufemia d’Aspromonte nell’età contemporanea. Storia, società, biografie (Il Rifugio Editore). Uscirà con un anno di ritardo, ma poco importa. Ci tenevo a dare organicità agli studi che nel tempo ho condotto sulla storia del mio paese: rivedere, approfondire, scavare ancora e trovare, concludere un ciclo di ricerche iniziato circa quindici anni fa. Da un punto di vista prettamente personale, era per me fondamentale portare a termine un lavoro iniziato a settembre 2019. Perché là, in fondo, ero rimasto. Il libro si compone di tre parti e abbraccia un arco temporale che va dalla fine del 1700 ai nostri giorni: eventi rilevanti della storia di Sant’Eufemia, aspetti della società nel XX secolo, quattordici medaglioni biografici delle personalità più eminenti. E ancora: testimonianze orali (ad esempio, quelle significative di due centenari) e il recupero di fonti bibliografiche locali introvabili. Ho dedicato il libro alla memoria di Vincenzino Fedele, per quattro decenni presidente dell’associazione culturale “Sant’Ambrogio” (nella foto, insieme al cardinale di Milano Carlo Maria Martini): “infaticabile animatore sociale e culturale, per la sua preziosa attività di promozione delle tradizioni e della storia eufemiese”.
Non sono il primo e non sarò l’ultimo caso di malagiustizia. Dovrei quasi ritenermi “fortunato”, visto che la mia posizione è stata archiviata e, pertanto, mi è stata almeno risparmiata l’ulteriore umiliazione di dovere affrontare un processo. Sono soddisfatto? No. Arrabbiato? Neanche. Sono deluso. Nessuno dovrebbe essere privato della libertà ed essere scaraventato nel “cimitero dei vivi”, prima dell’accertamento della sua colpevolezza. Non riesco a togliermi dalla testa le immagini di me che scendo per primo le scale della questura di Reggio Calabria il 25 febbraio 2020, giorno dell’operazione “Eyphemos”. Né le sentenze emesse da televisioni, giornali e quotidiani online, locali e nazionali. Sarebbe onesto che gli amanuensi delle procure che si annidano nelle redazioni giornalistiche ammettessero: «Ci siamo sbagliati perché, come sempre, abbiamo considerato dogma l’ipotesi investigativa degli inquirenti; perché, come sempre, abbiamo fatto carne di porco del principio della presunzione d’innocenza». Non riesco a scacciare via la sensazione d’impotenza suscitata dalla constatazione dell’irrilevanza degli strumenti difensivi: rigetto della comparazione fonica di parte; inutilità delle argomentazioni a discolpa presentate, per me coerenti e logiche sin dal principio di questa assurda storia; mortificazione del diritto alla difesa, fino a quando la procura non ha deciso di affidare al RIS di Messina la perizia che a settembre, 205 giorni dopo l’arresto, ha finalmente portato alla mia scarcerazione poiché, essendo stato accertato lo scambio di persona, non sussistevano più i “gravi indizi di colpevolezza”. Comprendo l’errore, ma non accetto l’accanimento. Questa amara sensazione ha accompagnato ogni giorno della mia detenzione, martellante come il sostantivo utilizzato dal pubblico ministero e avallato dal tribunale della libertà nel rigettare il ricorso: secondo l’accusa, contro di me risultava un “coacervo” di indizi. Ma io non dovevo giustificarmi per comportamenti o atti considerati penalmente rilevanti da chi ha condotto l’indagine. C’era una questione preliminare, sostanziale, decisiva che andava affrontata subito perché concerneva l’errata attribuzione alla mia persona dell’identità del soggetto intercettato. E invece ci sono voluti sette mesi per accertare quello che ho sostenuto sin dall’interrogatorio di garanzia, due giorni dopo l’ingresso in carcere, senza la necessità di ascoltare la registrazione: «Non sono io. Fate una perizia fonica, perché quella voce non può essere la mia». Sette mesi che ho trascorso in prigione: non a piede libero, né agli arresti domiciliari. Troppi, ritengo, per uno Stato di diritto appena appena decente. Non ho fiducia nella giustizia italiana. Credo invece nella verità, una forza tenace come la goccia che scava la roccia. Ora inizia il secondo tempo, che intendo come impegno per una battaglia di civiltà minoritaria e impopolare: contro la gogna del giustizialismo mediatico, contro l’aberrazione della carcerazione preventiva, contro la condizione disumana di molte carceri italiane. Scarto il buono dal brutto: la presa di coscienza di questioni mai considerate nella loro complessa rilevanza, diventate ora ragione di studio e per le quali credo valga la pena spendersi. Da libero cittadino e da osservatore purtroppo privilegiato.
Erano vestite tutte uguali le nostre nonne. La stoffa da tagliare e cucire arrivava dalle Americhe, spedita da parenti emigrati che non dimenticavano chi era rimasto in paese. Non sorridono Ciccia, Femia e Mica, in posa nell’unica fotografia dei primi anni Venti che le ritrae insieme ai genitori Rosa e Carmine, al piccolo di casa Ciccio e alla zia Francesca, sorella della madre. Il lampo al magnesio le disorienta. Carmine e Rosa sono sopravvissuti al terremoto del 1908, così come Francesca, che vive con loro e che invece non supererà il secondo parto, a soli 29 anni. Carmine è un reduce della Prima guerra mondiale, ma non sa che farsene dell’encomio solenne ricevuto per la ferita da shrapnel alla mano destra nella Seconda battaglia dell’Isonzo. A quel tempo aveva già una moglie e una figlia di un anno che lo attendevano a casa. Un contadino analfabeta dell’Aspromonte era già un eroe senza bisogno di lanciarsi contro le trincee austriache. Il suo orizzonte abbracciava la famiglia e il lavoro a giornata nei campi e nelle carbonaie; le terre irredente non sapeva neanche cosa fossero. La primogenita Ciccia e la seconda figlia Mica portano i capelli con la riga di lato, Ciccio ha il caratteristico “cannolo” dei maschietti. Femia ha i capelli molto corti: forse ha preso i pidocchi, per cui si è resa necessaria una rasatura. Francesca tiene una mano appoggiata sulla spalla di Ciccia. Quasi un presagio. Anni dopo sposa infatti Mico, lavoratore a giornata e carbonaio anche lui, dal quale ha due figli. Quando muore, un mese dopo la nascita di Ntoni, la nipote ha già 17 anni: tocca a Ciccia allevare la prole mentre i maschi della casa sono a lavoro. A quel punto, il matrimonio con lo zio di undici anni più grande diventa una conseguenza naturale, necessaria: amore o non amore, funziona così nelle famiglie strette dal bisogno. Senza troppe domande. Arrivano cinque figli, ma tre se li porta via il destino dopo pochi mesi di vita, negli anni a cavallo della Seconda guerra mondiale, vissuta da Mico in Libia. Sono tempi in cui la morte si respira e in fondo si accetta. Le piccole bare portate sulla testa dalla “pulicia rizza” sono l’immagine frequente di un dolore silenzioso e rassegnato. Anche Mica e Femia si sposano. Mica non si tira mai indietro quando c’è da lavorare. Vive in simbiosi con Diego le giornate pesanti nelle carbonaie fumanti e nei campi dell’Aspromonte, addolcite dopo il tramonto dal ritmo della tarantella; più tardi nel Nord-est della Francia, dove raccolgono barbabietole insieme ai figlioletti, curano le piantine in una serra, trovano impiego in una fabbrica che produce compensato, alloggiati accanto per mantenere accesa la caldaia giorno e notte. Femia non emigra, il suo regno è a “Crasta”, dove con Nino lavora la terra per tutta la vita: senza un lamento, senza essere mai sfiorata dal pensiero che quella non sia una vita piena. Una concezione sacra del lavoro, che mette in pari perché la dignità ha la nobile ruvidezza dei calli delle proprie mani. Ciccio segue le orme del padre e del cognato. Carbonaio pure lui, prima del trasferimento a Morlupo, dove con il padre e con il cognato trova impiego come operaio. Ma è solo una parentesi. Carmine, nonostante i suoi quasi sessant’anni, decide di partire per l’Argentina. L’idea è quella di fare qualche soldo e poi farsi raggiungere dal resto della famiglia. Lo segue il figlio, quasi subito. La moglie invece si ammala di tracoma e perde la vista, per cui la commissione che valuta lo stato di salute degli emigranti la dichiara inabile. Carmine muore a Buenos Aires qualche anno dopo. Del figlio, il cui matrimonio per procura con Peppina naufraga al momento del ricongiungimento in Argentina, giungono a casa sporadiche notizie finché la madre resta in vita, accudita da Ciccia. Poi più niente. Il filo si spezza e Ciccio scompare, inghiottito dalle fauci di qualche oscuro barrio.
Tra le tante cose scritte nel 2020, oggi mi è capitato di rileggere un pensiero dedicato al mio paese, una comunità composta da gente laboriosa, molto distante dall’etichetta approssimativa e ingiusta che le è stata appiccicata addosso. Mentre scrivevo, pensavo ai sacrifici delle generazioni del secolo scorso e alla validità della loro lezione per i giovani di oggi.
NOVECENTO Non volevamo il cielo ma zolle da dissodare fragranza di pane stanze tiepide. Sui sentieri di spine abbiamo piantato i nostri anni madidi spazzati e germogliati altrove. Parlavamo l’idioma universale del lavoro della dignità, le creature aggrappate a mani intarsiate dalla fatica del futuro. Tenete a mente i nostri volti riarsi portateli a spalla come una reliquia.
Su gambe irrequiete da muro a muro inseguono il volo della rondine tendono l’orecchio al rombo dei motori si incrociano e non riconoscono i volti uguali di girasoli piegati dal vento.
Sapessi, zio Pino, le festività pasquali di quest’anno. Simili a quelle dell’anno scorso, del resto, ma con molta più stanchezza nello spirito per la lucina che non si intravede. Da tempo viviamo le “ultime due settimane di sacrifici”. Come Godot, la fine dell’emergenza forse arriverà domani. Ti ho pensato. Mi sono tornati in mente la colomba e lo champagne a casa tua, dopo la veglia, tutti gli anni per tantissimi anni. E le nostre pasquette di comitive variabili nell’arco della stessa giornata. Perché la pasquetta, come il ferragosto, non è mai stata pratica da risolvere in poche ore. Si iniziava la mattina e si finiva col buio. Chi arrivava, si univa a chi già alle dieci aveva acceso il fuoco. Ricordo la più “affumicata”, quella volta che per la pioggia non potemmo salire in Aspromonte e decidemmo di improvvisare una grigliata nel caminetto di casa tua. Impregnati di fumo di carne arrostita, ad ascoltare i tuoi improbabili racconti sul “saggio” che avevi scritto e la storia fantastica di Morlupo. Ci scendevano le lacrime per quanto ridemmo. Ora non si può più, non solo per il Covid. Negli ultimi due anni ti sei perso parecchio. Forse è meglio così, per te che avevi l’indignazione sempre pronta e che avresti reagito male, con molto dispiacere, nel sapere che qualcuno, tra quelli che mangiavano e bevevano con noi, è stato tirato dentro vicende assurde. Vorrebbero insegnarci chi sono persone che conosciamo da una vita, chiarire cosa fanno o non fanno. Attribuire addirittura nomi e soprannomi diversi da quelli che abbiamo sempre saputo. Sì, sono al corrente della prassi del “politicamente corretto”. Non si può contestare, si deve soltanto subire e attendere il tempo galantuomo. Un espediente ipocrita e vigliacco, a dirla tutta. Insomma, zio, qua si è stanchi e soli. Il giorno di pasquetta, proprio dall’altro lato della strada, se n’è andata “zia Concetta”, che ti voleva bene, così come ne ha voluto a tutti quelli che hanno avuto la fortuna di conoscerla. Nella “ruga” siamo passati in tanti dalle sue mani per le iniezioni, quando ancora la siringa era in vetro e si doveva bollire per la sterilizzazione. Neanche un funerale ha potuto avere, lei che era così religiosa. Penso a quanto sia triste, quando giunge il momento di andare, non potere tenere la mano a questi anziani che a lungo hanno riscaldato le nostre, ci hanno accarezzato la testa, ci hanno raccontato storie della notte dei tempi. È capitata la stessa dolorosa sorte a Sofia, di là dello Stretto, che non ha potuto avere il conforto della figlia. A me tutto questo sembra un grave sconvolgimento nell’ordine dell’universo. Anche questa è una crudele ingiustizia, dura da accettare. Forse ho divagato, zio Pino. È che quando arriva una raffica di nostalgia non la puoi controllare. Come il cucchiaio di vetro del Poeta, che scava nelle nostre storie colpendo a casaccio.
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