La presentazione di “Minita” nella terza giornata di Gerace Libro Aperto, lo scorso 2 maggio, nello scenario incantevole della chiesa di San Francesco. Moderatrice Marisa Larosa, all’incontro sono intervenuti l’editore di Disoblio Salvatore Bellantone e il giornalista di Ciavula.it Giovanni Maiolo. Il servizio per FimminaTV è di Valentina Femia, il montaggio di Simona Schirripa.
Una vita in piega
I ricordi sono anarchici, indisciplinati, irridono le regole del fair play. Colpiscono a tradimento, quando meno te l’aspetti. Stai facendo le tue cose, ti si parano davanti e non si spostano neanche a sgomberarli con gli idranti. Non si scappa dai ricordi, conoscono scorciatoie che li fanno arrivare sempre prima di te al prossimo incrocio. E lì ti aspettano. La fuga è una scelta che non paga. Mai. Perché fuggire dai ricordi è fuggire da se stessi. Impossibile. Meglio rassegnarsi, inspirare forte e affrontarli, anche se il nodo in gola punge nostalgia. Prenderli in braccio e cullarli. Cullarsi con essi. Con quel groppo che forse, alla fine, verrà in qualche modo schiacciato giù.
Sono trascorse quasi due settimane e Pino Condello è ancora all’ingresso del municipio. Si gira e ride dentro il gilet nero di pelle, con il sorriso che ho rivisto – o mi è sembrato di vedere – anche il giorno successivo, su un viso che ormai non era più il suo, eppure in posa per salutarci con il caratteristico riccio delle sue labbra. Un ghigno simpatico. L’espressione di chi sa che alla vita bisogna sempre sorridere, anche se a volte l’allegria è una maschera esibita per tenere lontane le domande indiscrete. Quelle imbarazzanti, capaci di farci mostrare agli altri senza veli e che richiedono in chi ascolta uno sforzo di comprensione. Mentre il suonatore Jones non ha di questi impicci: continua a suonare “per tutta la vita”, perché la gente ha stabilito che è quello che sa fare, e va bene così.
È tra la porta di vetro e la scalinata, il braccio ancora alzato a salutare senza guardare, girato di spalle e in cammino. Mentre va via, come un titolo di coda che sfuma. Come la sua vita, in un pomeriggio che nessuno avrebbe immaginato. Che ha finito per cristallizzare aneddoti e imprese, ai quali ognuno si è aggrappato per farsi forza tra occhi rossi, increduli.
“Pinuccio” era l’amico di tutti. Chiunque l’abbia conosciuto ha almeno un episodio da raccontare, incorniciato dal suo sorriso: “ricordiamolo – ha raccomandato il fratello Natale – nella sua voglia di vivere e condividere la buona compagnia; nella sua leggerezza e nella sua allegria”.
Originale, a volte bizzarro, non certo “pazzo”, anche se a quel soprannome ci teneva perché se l’era guadagnato sul campo. A suon di imprese impossibili su una delle sue numerose moto: scavalcando macchine o domando le due ruote con una gamba ingessata, dritta come la lancia di un soldato medievale in sella a un cavallo; sulla Ducati 998 trasformata ogni mattina in un proiettile rosso per giungere in orario sul posto di lavoro. Con la strafottenza dello studente impenitente. Con gli occhi puri del bimbo della fiaba di Andersen, l’unico in grado di accorgersi che il re è senza vestiti. Perché spesso occorre una buona dose di pazzia per vedere e rivelare la verità, per dipingere la gente con aggettivi azzeccati e locuzioni affilate. Per prenderci sempre. Vivere al di fuori degli schemi imposti dalla società, che costringono gli individui a comportarsi come gli altri vogliono, mortificandone l’autenticità.
A un “pazzo” – che comunque “può avere un attimo di lucidità, mentre lo stupido è senza speranza” – è consentito giocare con la vita e farsi beffe del prossimo, usare la battuta irriverente come la penna di un moderno Cirano: con questa spada vi uccido quando voglio.
Sfrontato, mai volgare o maleducato. Libero. Tra i pochi in paese ad avere il coraggio di dire ciò che pensava di questo “circo” di quattromila anime, un posto in cui “manca soltanto il serial killer”. Un solitario amante della compagnia, perché il tempo della sua vita l’ha sempre scandito lui.
A modo “suo”, avrebbe cantato Frank Sinatra.
Con quel buco nero che forse ogni tanto lo inghiottiva, chissà. Il ricordo della morte al suo fianco durante i lunghissimi giorni del coma, la lotteria della vita che estrae il suo numero, salvandolo, e condanna il compagno in un incidente con la moto, ancora ragazzi.
Di questa storia vissuta di corsa, in piega, rimane l’oro dei capelli di Walter scompigliati dal vento, come nelle pedalate di padre e figlio in mountain bike per le strade del paese. Le note del jazz e del blues della colonna sonora di un film finito troppo presto. Allegria e leggerezza.
*Entrambe le fotografie sono tratte dal profilo Facebook di Pasquale Pellizzeri, nella seconda alla guida del Sidecar
Minita a Calabria d’Autore
Venerdì 3 aprile ho presentato “Minita” all’interno della prestigiosa rassegna “Calabria d’Autore”, organizzata dall’Associazione Incontriamoci Sempre presso la sede della Stazione FS Reggio Calabria “Santa Caterina”. Di seguito, il resoconto della serata, realizzato da Stefania Valente per la testata giornalistica online ZoomSud.
(http://www.zoomsud.it/index.php/cultura/79497-domenico-forgione-a-calabria-d-autore.html)
Di Stefania Valente – Calabria d’autore ospita Domenico Forgione, dottore di ricerca in Storia dell’Europa mediterranea, giornalista pubblicista, scrittore e autore, tra gli altri, del libro “Minita”, edito da Disoblio.
Sul palco Antonio Calabró, che ha curato la prefazione del libro, affiancato da Daniela Mazzeo, agitatrice culturale ormai nota al pubblico affezionato di Calabria d’Autore e Vanessa Schiavone, collaboratrice fissa della rassegna, per colloquiare con lo scrittore e cercare di carpire le armoniche fondamentali della sua scrittura.
Domenico Forgione è un ragazzo di Sant’Eufemia d’Aspromonte nato per caso in Australia che ispira una fiducia immediata. Il suo ingresso sul palco, accompagnato dalle note di Chuck Berry, infonde l’impressione di una persona equilibrata e rassicurante, positiva, che sorride sempre alla vita, nonostante la vita gli abbia chiesto fatica e pazienza, come traspare dietro il suo sorriso e come lui stesso ci confermerà nel corso della serata.
Antonio Calabró apre il colloquio indagando sulle motivazioni che hanno portato alla stesura di questo libro. Forgione risponde che la motivazione alla scrittura è difficilmente circoscrivibile, ma che senz’altro in questo libro c’è la voglia di denunciare atteggiamenti distorti delle piccole società della Calabria che portano ad una omologazione spersonalizzante, che mortifica l’individuo. C’è il conseguente desiderio di dare un volto, un nome ed un posto ad alcuni personaggi del paese meritevoli di nota, che altrimenti sarebbero rimasti in ombra.
Le domande si susseguono numerose e interessanti. Daniela Mazzeo è incuriosita dal rapporto (tenero) che lo scrittore ha con le donne. Vanessa Schiavone invece dal suo pensiero sull’istituzione scolastica e sulle riforme che essa sta subendo. Forgione risponde con la serenità che gli è propria e che gli abbiamo riconosciuto al primo sguardo. Le donne sono per lui “angeli” e la scuola andrebbe riformata ricostruendo il prestigio della classe insegnante col ripristino della passione e soprattutto del rispetto.
“La scrittura è un atto politico?” provoca Calabró quasi a sorpresa. “Sì” risponde lo scrittore “è un atto politico. Esprimere opinioni e assumersi le responsabilità delle proprie affermazioni è sempre un atto politico”.
La discussione si sposta al titolo del libro e alle radici della malavita organizzata in Calabria. Il titolo? Semplicemente il nome “Domenico” distorto da lui stesso bambino. La ’ndrangheta? Poggia le sue radici sul disagio economico e sociale, ma il suo diffondersi e incancrenirsi negli strati sociali è favorito anche dalla solita mentalità “del favore” che innanzitutto andrebbe corretta.
Così, sulla solita questione senza soluzione, la serata volge al termine, con un ultimo pensiero da parte del nostro ospite sulle giovani generazioni. È un pensiero di fiducia più che di speranza, di esortazione a non cadere nelle grinfie e nei meccanismi del nepotismo e della raccomandazione, ma di difendere la cultura e il merito.
Una scelta che lui stesso ha fatto e che, nel tempo, lo ha ripagato dandogli la possibilità di diventare la persona di qualità che abbiamo conosciuto, lo scrittore che abbiamo apprezzato leggendo le sue opere, il ragazzo di Sant’Eufemia che non ha tradito il suo modo di essere.
Domenico Forgione lascia il palco tra gli applausi. Il pubblico ha conciliato gli impegni del venerdì santo per essere presente e tutti sono soddisfatti per l’atmosfera briosa, tra libri, musica, brani di film; la solita miscela che caratterizza ormai la rassegna.
La serata si chiude con la solita freschezza: un piatto di spaghetti, un bicchiere di vino.
Qualcuno va via con “Minita” sotto il braccio, qualcuno con l’uovo di sei chili vinto alla lotteria di beneficenza organizzata dall’Associazione, qualcuno sotto il braccio della moglie e qualcuno da solo, ma tutti accomunati dalla sensazione che qualcosa per questa nostra terra devastata si possa fare, non miracoli, ma qualcosa che funzioni sì.
Alla prossima, venerdì 10 con Mimmo Cavallaro che racconterà la sua storia.
Come a scuola tanti anni fa: le parole del professore Aldo Coloprisco su Minita
Non me l’aspettavo e proprio per questo mi ha fatto ancora più piacere ritrovare tra la posta elettronica l’email del mio professore di Lettere alla scuola media, Aldo Coloprisco. Sono trascorsi quasi trent’anni, ma per me rimane sempre il mio caro professore. E quindi sono contento che mi abbia dato un bel voto. (D. F.)
Carissimo Domenic, sono lento per natura, ma la vista ultimamente mi crea non pochi problemi che grazie alla mia caparbietà cerco di superare. Questo incipit mi serve per spiegare il lungo tempo che ho impiegato per leggere il tuo Minita.
Ti dico subito che mi è piaciuto tantissimo, che mi ha commosso per l’umanità che hai saputo spargere in tutte le tue pagine. I tuoi personaggi balzano vivi e veri, anche se molti hanno fatto il lungo viaggio e ora ti sorridono dall’alto della loro raggiunta serenità.
Minita è il canto di un giovane uomo che ama il suo paese e che sa guardare gli uomini e i fatti che lo riguardano con bonaria ironia e con la consapevolezza che le cose buone e belle esistono e sono accanto a noi.
Sarà perché anch’io ho voluto molto bene a mia nonna, o forse perché anch’io sono nonno, le pagine di “Una regina di nome Ciccia” mi hanno particolarmente preso, non solo per il titolo straordinario che sarebbe bastato da solo a esaltare la figura di questa donna d’altri tempi che tu hai reso immortale, ma anche perché attraverso il ricordo della nonna riporti a vita il passato che balza presente e vero dalle tue pagine. Questo mi conferma, se mai ce ne fosse bisogno, che in realtà non esiste il passato, ma tutto è presente e vive dentro di noi.
Mi piace ciò che descrivi. Parti dal paese ma poi abbracci il mondo. Grazie a te diventano personaggi per sempre anche i poveri cristi. Salvatore, Ceu Galera, mastru Nino, Frank il mongolo, Peppe e tantissimi altri sono tratteggiati con lo spirito di chi, pur sottolineando la particolarità di quelle esistenze, abbia voluto abbassar loro le palpebre e accarezzare con dolcezza le guance.
Minita è una preziosa miniera o, con una immagine più leggera, una pista da ballo dove i danzatori volteggiano su una musica ora allegra ora triste e malinconica che tu scegli con oculato discernimento: vedo personaggi che conosco, altri di cui ho sentito parlare, altri ancora a me ignoti.
Mi commuovono per la delicatezza dei toni e per la sincerità dei sentimenti che esprimono le pagine dedicate alla cara maestra, signora Rina De Leo, mia paesana e amica.
E che dire de “L’ultima lezione” con cui ricordi con l’affetto devoto di un discepolo il maestro divenuto anche un grande amico? Tu, caro Domenic, sei stato fortunato a incontrare sulla tua strada il prof. Rosario Monterosso, ma anche lui lo è stato e sicuramente sorride soddisfatto dall’angolo del suo paradiso nel constatare che i suoi consigli e i suoi insegnamenti continuino a vivere nella tua mente.
Io, purtroppo, non ho avuto il piacere e l’onore di godere della sua amicizia. Era una conoscenza superficiale, un saluto, una stretta di mano e basta. Me ne dolgo nel profondo, perché avrebbe potuto dare anche a me le sue lezioni di vita.
La penna di Minita è come la zappa del contadino, che rivolta la terra per renderla fertile e pronta alla semina. La raccolta alla fine sarà generosa e si chiama “lo stupore di Mico”, l’esempio e il coraggio dei bambini e del campione Lorenzo Genovese, le analisi critiche sempre originali e puntuali delle opere di scrittori contemporanei, i commenti ai testi di canzoni che hanno scandito e accompagnato i momenti dolcissimi e quelli tristi di una giovane e inquieta esistenza.
Finisco questa mia chiacchierata ringraziandoti per aver dato spazio al mio “Libraio di Meladoro “. Lo so, hai usato un occhio di riguardo per questo tuo vecchio professore bizzarro: bellissima definizione, che mi riporta alla mente il favoloso mondo dei miei verdi anni e delle innumerevoli ore trascorse in mezzo agli studenti meladoresi nella speranza o nella illusione di farli partecipi della mia pazzia.
Un forte abbraccio e buona Pasqua.
Mariuzza
Ci aveva aspettati nel letto. Non in cucina, dove anche dalla sedia a rotelle fino all’anno scorso riusciva a cucinare per figli e nipoti. Come le altre volte aveva baciato il ricordino dell’Agape e l’aveva fatto sistemare sulla specchiera antica, accanto a quelli più vecchi e alle foto in bianco e nero della sua vita. Il nostro modo di celebrare Natale, Pasqua o la “Giornata Mondiale del Malato” istituita nel 1992 da Giovanni Paolo II, che l’11 febbraio di ogni anno impegna i volontari dell’associazione nelle visite domiciliari e presso la residenza sanitaria assistenziale “Mons. Prof. Antonino Messina” di Sant’Eufemia. Una lunga fila di presepi, madonnine, rosari, immaginette sacre. L’essenza dei suoi giorni, comprensibile forse solo da chi ha la fortuna del dono di una fede incrollabile.
Mariuzza aveva avuto questo regalo. Almeno questo. La sua vita non è stata affatto rassegnazione, un calare la testa davanti ai colpi implacabili del fato. Se era una prova, l’ha superata brillantemente. E non perché abbia affrontato con dignità gli schiaffi che il destino non le ha risparmiato, ma perché delle avversità ha fatto la ragione della sua vita. Ergendosi a modello di mamma e di donna. Mostrando agli altri, a tutti noi, quanta forza può sprigionare l’amore per la propria famiglia.
Una lotta quotidiana e infinita contro malattie e disabilità, condotta col sorriso e senza mai un lamento. Alzandosi alle tre di notte per fare il bucato, perché di giorno c’era da mandare avanti il negozio di alimentari e un fratello, due figli e infine un marito bisognosi d’assistenza.
I veri eroi di questi nostri tempi sciagurati sono le donne e gli uomini come Mariuzza. Eroi silenziosi e forti, capaci di salvare il mondo con l’umanità dell’esempio, con l’umiltà che solo i grandi possiedono.
Non abbiamo saputo fare altro che abbracciare quel bambinone che singhiozzava il dolore di una solitudine che siamo certi la famiglia non permetterà. Eppure in quelle lacrime c’era l’amore più limpido e puro, che spesso non riusciamo a vedere perché lo cerchiamo dove ce l’aspettiamo, nella banalità delle nostre vite “normali”.
La salita
Conosco metro per metro la salita che da piazza del Popolo porta all’Eremo. La percorrevo aggrappato al collo di mia mamma ed era come guardare il mondo da sopra una giostra, con l’orizzonte che si abbassa e sale. Ora più lontano, ora più vicino. Sentivo il suo cuore premere sulla mia pancia, il respiro sempre più affaticato nonostante il sorriso. Ogni tanto si fermava per riprendere fiato, mi faceva sedere su un gradino o mi appoggiava al cofano di un’auto parcheggiata sul marciapiedi. Si asciugava il sudore con un enorme fazzoletto di cotone, mi timbrava la fronte con un bacio e ripartivamo. Osservavo la sua sofferenza e il mondo attorno a lei, quel mondo che non riuscivo ad ascoltare, né a calpestare.
Dicono che le sventure non arrivano mai da sole, preferiscono la compagnia. Anche se la mia non era una disgrazia vera e propria: io non l’ho mai percepita così. Soltanto, è successo a me. Siamo percentuali di statistiche che altri più in gamba di noi spiegano e io sono l’uno su mille al quale è capitato di nascere sordo. I miei genitori se ne accorsero poco prima che compissi tre anni, insospettiti dal mio farfugliare senza senso e dai movimenti scoordinati. Accadde quando già era evidente che non era la pigrizia la causa delle mie difficoltà motorie, della posizione innaturale degli arti. Al Gaslini di Genova stabilirono che il tono muscolare dei miei muscoli era troppo basso: ipotonia. Ma con la fisioterapia avrei recuperato. Occorreva pazienza, mia mamma ne aveva. Tutte le mattine prendevamo il pullman dalla provincia al capoluogo, il mare cangiante sembrava scivolare alla nostra destra tra noi e la Sicilia. Un tempo sospeso che passavo incollato al vetro per guardare barche e onde, gabbiani e adorni prima dell’ingresso a Reggio.
Le braccia di mia mamma erano un riparo sicuro, una corazza impenetrabile dalla fermata dell’autobus all’Ortopedico. Ce l’avrei fatta a camminare e un giorno sarei stato io a sorreggerla, ad aiutarla a portare le buste della spesa, a sistemare la legna per la stufa. Sarebbe stata fiera di me e a mano a mano che facevo progressi immaginava la scena di lei orgogliosa davanti a suo padre, che non aveva voluto dare neanche un soldo per i nostri viaggi a Genova. Non valeva la pena sprecare denaro per tentare di dare forza alle gambe di un bambino nato sordo. Rimanevo pur sempre un handicappato, una vergogna da nascondere nell’angolo più buio della casa, da non mostrare in pubblico. Tantomeno da spenderci soldi per offrirgli la possibilità di frequentare bimbi “normali”, giocare e crescere insieme a loro.
– Questo è il mio campione, papà.
Mamma gli avrebbe detto proprio così: il mio campione.
Non sono figlio di un dio minore. Sono figlio di mia mamma e di mio padre. Sono figlio di mani sporche di terra e calce, di schiene piegate a raccogliere olive e a impastare cemento. Sono figlio dell’amore di chi ha infilato anche soltanto mille lire nella fessura del salvadanaio che il salumiere per anni ha tenuto accanto alla cassa. Perché Genova può essere un miraggio per chi a stento ha da mangiare.
Ogni mio passo ha avuto il sostegno di mani misericordiose e silenziose. Le “parole” e i gesti imparati dall’altra parte di un mare che non divide contengono il calore che spande da case sgarrupate. Di quello vivo, con quello riscaldo i miei giorni ora che riesco a farmi comprendere. Ora che mia madre non deve più togliere la giacca per difendere il mio viso dal freddo e dalla pioggia sferzante, su per quel cammino infinito.
BAGNARA: presentato il libro “Minita” di Domenico Forgione
Il resoconto della presentazione di domenica 22 febbraio, tratto dalla pagina web di Disoblio Edizioni.
(https://www.messagginellabottiglia.it/2015/02/bagnara-presentato-il-libro-minita-di.html)
Si è svolta domenica 22 febbraio, presso la Sala Conferenze della Società Operaia di Mutuo Soccorso di Bagnara Calabra, la presentazione del libro “Minita” di Domenico Forgione (Disoblio Edizioni). Alla presentazione sono intervenuti Giuseppe Spoleti (Assessore alla Cultura di Bagnara Calabra), Mimma Garoffolo (Presidente SOMS Bagnara Calabra), Natale Zappalà (Storico), Salvatore Bellantone (Editore), Domenico Forgione (Autore del libro).
Dopo i saluti di Mimma Garoffolo, che ha sottolineato come il senso di questi incontri con gli autori sia di avvicinare i giovani ai libri e alla lettura, Giuseppe Spoleti ha chiarito l’importanza di conoscere la storia del proprio paese e delle proprie tradizioni, perché costituiscono la forza di un popolo, capace di con essa di comprendere la propria provenienza, di capire il presente e di ripensare se stessa e il proprio territorio in direzione del futuro.
Natale Zappalà ha spiegato come il libro di Domenico Forgione provenga dal blog e come, pur nella sua eterogeneità, sia il risultato di un filo conduttore mai perso, dato dal titolo stesso. La curiosità con cui l’autore affronta delle riflessioni a d ampio respiro è il comun denominatore di Minita. Nel libro troviamo l’operazione salvifica nei confronti dei racconti appartenenti al genere della microstoria, ma anche la lucida analisi delle problematiche del mezzogiorno d’Italia, recensioni e racconti, che testimoniano come la letteratura sia lo sbocco naturale di uno storico.
Domenico Forgione ha spiegato la genesi del libro e ha chiarito come Minita sia per ognuno la possibilità di ricostruire la propria storia, al di là degli schemi e dei preconcetti imposti dalla società consumistica e capitalistica. Dopo aver ricordato il professore Rosario Monterosso come maestro di vita e di pensiero, Domenico Forgione ha evidenziato come la scrittura e la memoria siano strumenti essenziali per tenere alta l’attenzione critica nei confronti del nostro tempo, da lui considerati come forme di resistenza quotidiana. Chiarendo infine come in Minita sia possibile mettere a fuoco le storie di vita quotidiana sulle quali riflettere attentamente, Domenico Forgione ha concluso come il suo libro sia il tentativo di aiutare chiunque a trovare la goccia di splendore che ha dentro di sé, spingendolo a fare quotidianamente qualcosa di buono per gli altri.
Accesa infine la lanterna della Disoblio, si è sottolineata la bellezza della scrittura intesa come un divertente strumento di gioco con le parole, mediante le quali tentare di fare capire agli altri di operare altruisticamente e con umiltà.
Minita alla Soms di Bagnara Calabra
Ci tenevo a presentare il libro a Bagnara, per un paio di buoni motivi. Il primo e per me più importante perché mi ha consentito di ringraziare nella sua terra il mio maestro di studi e di vita, professore Rosario Monterosso, al cui ricordo ho voluto dedicare la serata. Spesso tocca ai “forestieri” omaggiare alcune straordinarie personalità dei nostri paesi, probabilmente perché le dinamiche sociali cittadine creano resistenze a volte involontarie, altre ricercate, che rendono tutto molto più difficile. Io sono invece dell’avviso che ogni comunità ha il dovere della memoria nei confronti dei suoi figli migliori. Per questo sono stato particolarmente orgoglioso della lettura dello scritto “In alto a sinistra” eseguita da Francesca Fassari, nel quale provo a riassumere il significato di un rapporto tra allievo curioso e docente generoso che per me significò il privilegio dell’accesso alla biblioteca privata del professore Monterosso e la possibilità di apprezzare l’uomo, non soltanto lo studioso e il fine intellettuale.
Ringrazio la presidente della Società Operaia di Mutuo Soccorso Mimma Garoffolo per l’ospitalità e l’assessore alla Cultura di Bagnara Giuseppe Spoleti per le belle parole. Ringrazio doppiamente Francesca Fassari, per la lettura di “In alto a sinistra” e di “Petali” e per la realizzazione del resoconto fotografico della presentazione del libro, dal quale sono tratte le foto qui pubblicate.
L’incontro di domenica 22 è stato moderato dall’editore di Disoblio Salvatore Bellantone, mentre lo studioso Natale Zappalà ha relazionato sul libro. A entrambi auguro di continuare a resistere nella trincea della cultura, anche se infuria la tempesta e le diserzioni sembrano essere all’ordine del giorno.







La nevicata del ’15
«Nesci fora, miserabili!».
A oltre vent’anni di distanza sembra di sentirle ancora le parole di sfida di compare ’Ntoni Garzo al nipote Salvatore, tuffatosi letteralmente sotto il lettone dei nonni una volta scoperto del tentativo di sottrarre furtivamente dal comodino le chiavi della Panda 4×4 protagonista dei nostri testacoda notturni sulle strade innevate dei primi anni ’90. Perché la gente mormorava anche allora e all’orecchio del quasi ottantenne vucceri in pensione, ma vecchio uomo di mondo, la soffiata era arrivata tempestiva e a niente era servita l’accortezza che usavamo nel ripassare la macchina con la pelle di daino per asciugarla, prima di richiuderla nel garage.
Ho pensato a ’Ntoni Garzo stamattina, forse perché anche quella volta – come oggi – percorsi a piedi le strade del paese e in piazza mi fermai a parlare proprio con lui, personaggio mitico e simpaticissimo che noi ragazzi adoravamo, ricambiati. Se scalo ulteriormente la montagna dei ricordi rivedo invece mio fratello Mario mingherlino, incantato dal librare lieve e muto dei fiocchi e con il naso attaccato alla finestra per tutta la notte, che di primo mattino salta fuori per andare a scattare fotografie, “prima che la neve venga calpestata”.
È quello che ho cercato di fare, che molti altri come me hanno fatto, perché una nevicata così non capitava da anni e ora chissà quando ricapiterà. Ho mangiato neve e succhiato ghiaccioli, come in quel tempo lontano che di colpo si è ripresentato lungo le stradine solitarie dei Candilisi e di Crasta, nei tornanti che si arrampicano fino alla Campagnola.
E pazienza se l’incanto è durato poco: troppe jeep, molti piloti scatenati su macchine trasformate in spazzaneve, tanto che verrebbe da invocare un divieto di circolazione su mezzi a motore per “ragioni di poesia”, per non avere altra compagnia che il crocchiare della neve sotto gli scarponi, restare a guardare i merli grassi volare da un ramo all’altro, farsi illudere dal canto libero della fiumara che si gonfia e allunga il passo per giungere a valle.









Don Beniamino
Mi vuole bene don Beniamino. Mi vuole bene perché sono la cassaforte dei suoi piccoli peccati. Cose veniali, niente a che vedere con le pallottole calibro 38 che ogni tanto vende a chi non dovrebbe. Per quieto vivere, perché non smania di mettersi contro certi pezzi di malacarne del paese. Avrebbe solo da rimetterci: la vetrata dell’armeria o le gomme della sua Vespa. Chi glielo fa fare? Tanto lo sa che quelli sparano solo per uccidere l’anno vecchio – che mai si comporta bene, mai – e per presentarsi com’e cristiani a quello che inizia. Affinché il nuovo si sappia regolare. E poi, di questi tempi la modernità di giovani senza educazione consiglia la riserva di una buona scorta di munizioni: per ribadire le gerarchie del rispetto, se necessario. Ma qua siamo a posto, non abbiamo di questi problemi. Ognuno fa il suo e non disturba gli altri.
Mi sono inventato il lavoro investendo qualche soldo di famiglia per acquistare la macchina dei miei sogni, una Fiat 1100 solida come un carrarmato. Mi chiamano piede amaro proprio per lei, l’auto che al cinema di Mico “il vichingo” ho visto guidata da Nino Manfredi. Resto parcheggiato tutto il giorno in piazza, scambio con gli amici parole, risate, imprecazioni per la Sisal sfuggita d’un soffio – ma la prossima volta non mi frega – e aspetto che qualcuno mi chieda di essere portato a Palmi, Bagnara o Reggio. Perlopiù faccende di ospedali e medici, avvocati e tribunali.
La piazza ha la vivacità lenta dei paesini di montagna. Di domenica diventa però un formicaio umano che rimbalza da una bancarella all’altra, occhi clandestini che dal muretto accarezzano morbidi fianchi distanti, apparentemente rapiti dai fichi d’india che le mani esperte della vagnarota sfilano dai còfani del mulo, sbucciano e porgono a ragazzi voraci, dieci lire ogni quattro frutti, fino a vuotarli.
Don Beniamino spunta dall’angolo del bar, saluta gli amici alle prese col tressette tra i tavoli che attraversa allegro, una pacca qua e una là, apre il sorriso e mi dà appuntamento per il pomeriggio: «Più tardi andiamo a bere un buon caffè».
Il caffè di don Beniamino “dura” almeno cinque ore. Un tempo sospeso tra i tornanti che lenti scivolano fino a Bagnara, alle spalle la mano protettiva dell’Aspromonte ad accarezzare il nostro cammino, di fronte lo Stromboli piantato sull’orlo del mare, nel punto in cui l’acqua si confonde con il cielo. Quindi di corsa verso Scilla, da superare a tutto gas come per sfuggire al latrato dei sei cani del mostro; infine Villa San Giovanni con i suoi fazzoletti di saluto per le fughe di vite dal finale altrimenti prevedibile, che sarà invece riscritto nelle Americhe o in Australia.
Al rientro, sul traghetto, don Beniamino si fa sempre incartare per la moglie un paio di arancini. Non le “arancine” della tradizione palermitana: l’aranciu è maschio, non femmina. E pazienza se nella “scuola” messinese hanno la forma conica della pera, non quella rotonda dell’arancia.
All’andata non consuma niente, concentrato com’è a pregustare con la mente l’aroma che inebrierà le sue narici al tavolino del bar “Irrera”, non appena sarà svanita l’estasi di un cannolo gigante. Vada a farsi fottere la glicemia alta: l’avrebbe detto pure Seneca duemila anni fa, che però giustificava un solo colpo di pazzia all’anno, non la puntualità settimanale di don Beniamino.
Peccati dolci come la crema di ricotta e le ciliegine candite che il mare di mezzo assolve, collocandoli in una realtà parallela, foderata con la carta da parati delle stanze dell’albergo “Monza” o “Del Sole”, dove don Beniamino s’intrattiene per placare bollori non ancora attenuati dall’incedere dell’età, mentre io inganno l’attesa davanti alle vetrine del viale San Martino.